Il nostro discutibile gruppo di cuochi si rese ancora protagonista di imprese notevoli nel corso dell’anno, culminate nella temuta gara di cucina da campo, un appuntamento annuale che vedeva le squadriglie sfidarsi fra loro, mentre Marangoni e i suoi aiuti facevano da assaggiatori e giudici. La caratteristica della competizione, organizzata sulle melmose rive del Reno fra Casalecchio e Sasso Marconi, era che ogni équipe doveva preparare primo, secondo e dolce non già sui fornelli a gas, ma avvalendosi di rudimentali fornaci di fango e sassi da costruirsi sul momento.

Noi Coguari si era intenzionati a proporre un menu sopraffino che prevedeva tortellini in brodo, seguiti da pollo farcito con patate al formaggio e dolce di ricotta al cucchiaio. Almeno con i tortellini contavamo di stendere la giuria: li aveva fatti a mano la nonna di Fulgor e il brodo, preparato impiegando un cappone ruspante, era stato astutamente ridotto in gelatina per facilitarne il trasporto, ma era già pronto a riassumere lo stato liquido e il profumo che gli competeva.

Ghignavamo, orecchiando le conversazioni delle altre squadriglie, che avevano in animo di preparare banali carbonare o tagliatelle panna e prosciutto di chiara origine industriale. Pregustavamo il giusto trionfo, ma non avevamo fatto i conti con la difficoltà rappresentata dalla costruzione di un forno: disporre il cerchio di pietre per il fuoco, ed elevargli intorno la muraglia in forma di U rovesciata che costituiva le pareti esterne, era un gioco da ragazzi, mentre fissare alla struttura la griglia che avrebbe fatto da piano di cottura non era altrettanto semplice. Si ostinava, la gaglioffa, a non mantenersi parallela al suolo; vuoi perché la fissavamo sbilenca, vuoi perché il destino era tornato ad accanirsi, non appena la pentola fu alloggiata sulla griglia prese a scivolare senza rimedio contro una delle pareti, quasi desiderasse sfuggire le fiamme. La sistemammo daccapo in posizione, ma quella riprese beffarda a decentrarsi. Il forno era sbilenco, non v’erano dubbi, ma stabilimmo che era più semplice concentrare le fiamme sotto la pentola piuttosto che provare a ricostruire la struttura a regola d’arte. Aggiungemmo legna e, ventilando a più non posso con giornali e cappelli, riuscimmo effettivamente a trasferire la fiamma sotto la pentola, così da indurre la gelatina a trasformarsi daccapo in brodo.

«Li stracciamo tutti», gongolava Fulgor al momento di immergere i tortellini nel bordo: erano piccoli, biondi d’uovo, in tutto conformi alla tradizione, e sperai ve ne fossero a sufficienza per tutti. L’idea di servire un tipico piatto festivo sulle rive del fiume era stata una trovata che rasentava il geniale, e ammirai ancora di più Fulgor quando, senza lasciarsi distrarre dalla prospettiva di vittoria, volle occuparsi di persona di guarnire il pollo di spicchi d’aglio e limone.

«Fra due minuti levate i tortellini dal fuoco», dispose, e restai a guardarlo mentre, concentrato come un massoterapeuta alle prese col suo campione preferito, massaggiava il pollo con le mani sporche di fango. «Per ammorbidire la carne», spiegò, ammirevole, e in quella vidi che Anatra e Alcatraz si alzavano per occuparsi della pentola.

Un presentimento senza nome m’indusse a seguire i loro gesti, ma quando li avvertii di fermarsi era troppo tardi: i due stavano scolando i tortellini come fossero spaghetti, impregnando senza un perché la terra argillosa del greto col brodo di cappone.

«Deficienti!», li insultò Fulgor. «Il brodo di mia nonna!», e Anatra, più sensibile dell’altro, levò le mani per scusarsi, lasciando così che rovinasse a terra anche la pasta.

Marangoni e i suoi aiutanti, che immaginavo ci avrebbero lodati, dovettero impegnarsi per levare il responsabile del disastro dalle mani di Fulgor: il Capo aveva perso il lume della ragione, e adesso voleva strangolarlo. Lo convinsero a salvare il salvabile, invece, così ci demmo tutti da fare per raccogliere i preziosi involti di pasta ripiena. Per lavarli dalla terra, trovammo adatto sottoporli a un rapido bagno nell’acqua corrente, e fu così che i nostri tortellini si disfecero definitivamente.

Contando che il pollo risultò metà bruciato e metà crudo come quand’era vivo, dovemmo accontentarci delle patate ripiene di gorgonzola: avvolte nella stagnola e poste fra le braci, s’impregnavano deliziosamente di formaggio fuso. Insieme al dolce al cucchiaio, ci garantirono il necessario fabbisogno di calorie, ma non bastarono per schiodare i Coguari dalla quinta e ultima posizione nella gara di cucina da campo.

Il nostro capolavoro, tuttavia, è da collocarsi nel cuore dell’estate. Ci eravamo trasferiti per due settimane di campo estivo in quella contrada benedetta dalla grazia che è la terra di Agordo. Un verde prato ai piedi delle Dolomiti divenne per noi campo-base, fortilizio e polis: le cecoslovacche a otto posti delle squadriglie erano disposte a semicerchio presso il limitare del bosco, fronteggiate dalla grande tenda squadrata che faceva da magazzino e dispensa, intorno alla quale fiorivano le canadesi di Marangoni e dei suoi aiuti.

Più in là era stato eretto il palo dell’alzabandiera, svettante come il pennone d’una nave: in realtà si trattava di due smilzi tronchi d’abete incastrati e tenuti insieme con una legatura. Non un chiodo era stato impiegato per quel lavoro, e alle stesse condizioni ci eravamo attenuti per erigere le cucine di squadriglia.

In altre parole, il primo giorno noi Coguari non solo avevamo eretto la nostra cecoslovacca, ma ci eravamo anche trovati alle prese con cinque pali e un grande foglio di plastica: mercé l’impiego di corde, cordini e accetta ci toccò trasformarli in un manufatto che comprendeva la cucina propriamente detta, il tavolo, le panche e la loro copertura. La cosa più sorprendente, dal mio punto di vista, era che alla fine ci eravamo riusciti. Ormai da una decina di giorni, sotto il sole o con la pioggia, cucinavamo all’aperto sulla nostra realizzazione ultraecologica di abete, canapa e fango e, complice l’aria frizzante, nessuno si era ancora sentito male. A dar retta a Marangoni, anzi, la nostra arte culinaria aveva subito un netto miglioramento. Veniva ospite a pranzo e cena, ruotando fra le diverse squadriglie, e sapeva di cosa stava parlando. Anche gli aiuti, un ragazzone dalla testa riccia chiamato Keegan e il rosso Ipo, sembravano piacevolmente sorpresi, e ci lasciarono intendere che, se avessimo cucinato un risotto come si deve, i Coguari avrebbero fatto un enorme balzo in avanti nella gara di campo.

Quel pomeriggio ci mettemmo a fare legna con anticipo, per dare tempo al fuoco di farsi robustoso et forte. Fulgor si era infervorato con l’idea di far soffriggere delle cipolline selvatiche prima di buttare il riso, sostenendo che avrebbero aggiunto un quid di selvatico e naturale. Ne strappò un paio direttamente da terra, ce le mostrò e disse: «Qui intorno è pieno. Portatene a manate».

Così, mentre i Ragazzi della Cinquantaseiesima strada si occupavano di alimentare la fiamma, venni spedito alla ricerca di piante commestibili insieme ad Actarus, Carioca e un tizio di nome Settimio Stromboli, che durante l’anno non si era visto quasi mai, perché giocava un torneo di tennis dietro l’altro.

Non ci avevo mai fatto caso, ma Fulgor aveva ragione: trovare cipolline selvatiche può essere molto semplice. Ammirati dalla consapevolezza del Caposquadriglia, ne raccogliemmo una buona quantità, e presto facemmo ritorno alla base: la padella, in assenza di burro, era stata unta di margarina, e Alcatraz ci aspettava con la lama già sguainata, sorridendo come Bruto alle Idi di marzo. Consegnammo a lui i vegetali: li sciacquò sommariamente, per sistemarli poi sul tavolaccio, quindi prese ad affettarli con gesti rapidi da cuoco giapponese.

«Tocco da maestri», commentò Anatra, compiaciuto, non appena le cipolline finirono in padella: la margarina già calda le faceva imbiondire e il tennista Stromboli osservò che era una grande risorsa, sapersi procurare cibo dove un altro avrebbe visto solo erbe senza nome e radici.

«Questione d’esperienza», si strinse nelle spalle Fulgor. «Al quarto anno di reparto, saprete riconoscere cose che ora non vi sognate neppure».

«In primo luogo, la gnocca», Alcatraz prosciugò il discorso d’ogni lirismo. Il colpo di fischietto dell’ammainabandiera traversò il prato come una fucilata. Senza più parlare, ci mettemmo sull’attenti come facevamo ogni sera, e attendemmo che un doppio colpo di fischietto segnalasse che la cerimonia fosse conclusa.

«No, dicevo», riprese Alcatraz lisciandosi le basette, «forse è il caso che facciate un po’ di pratica, voi più giovani. Altrimenti farete la fine del mio cane, che non ha imparato a chiavare da giovane, e non imparerà mai».

L’ipotesi era spaventosa. Distinsi chiaramente un’ombra correre sul volto pallido di Carioca, e il tennista Stromboli spiegò: «Per chiavare a quindici anni, bisogna coltivarsi una tipa almeno dai tredici».

«Mica vero», lo smentì Alcatraz, mandando a monte i piani di lavoro che stavo già valutando. «Ci sono anche sbarbe che si fanno pregare molto meno. Chiedete a Fulgor, se non mi credete».

«Con me, la Betta ha fatto tutto dopo un mese scarso», confermò gravemente il Capo e, al solo pensiero della ragazzina in hot pants che lui si portava in giro sulla moto da cross, mi sentii sprofondare per l’ammirazione e l’invidia.

«Ti sarai divertito», osservò Anatra, posandosi in capo il basco rosso fuori ordinanza. Insieme alla maglietta con la lingua dei Rolling Stones, gli donava un aspetto a metà fra il roadie e il venditore di popcorn in servizio al concerto.

«Mi sono divertito, infatti», sospirò Fulgor, smuovendo la padella per far cantare il riso. «Peccato sia una testa matta», aggiunse, e rivelò: «L’ho lasciata una settimana prima di partire».

«Chissà chi se la prende, adesso», commentò, in tono sprezzante, Actarus.

«Tu ci faresti la firma, segaiolo», lo gratificò Alcatraz mentre il sole si abbassava dietro le creste. «Te la sogni, una che te lo succhia a Parco Melloni, e per di più in pieno giorno».

Fulgor s’impietrì con la padella in mano. Il ghigno di Alcatraz e l’aria stupefatta del vice Anatra non promettevano una cena tranquilla.

«Cosa ne sai, tu, di cosa fa la Betta?», domandò il Capo con una voce più fredda della notte in arrivo.

«Diciamo che ho un’esperienza personale», annunciò con noncuranza il proprietario dello spinone che non chiavava mai. Si aggiustò a sedere sulla panca e propose: «Se volete, ve la racconto».

«È a te che l’ha succhiato?», domandò, divertito, il tennista Stromboli.

Alcatraz si strinse nelle spalle e, con la voce che rideva, svelò: «Il giorno prima di partire. Dice che non vuole più stare con nessuno, ma si vede che…».

Prima che finisse la frase, Fulgor aveva abbandonato la padella compiendo una torsione su stesso e, per raggiungere prima Alcatraz, si era lanciato sul tavolo a mani avanti come Superman.

«Bastardo!», gridò come il signor Kent non avrebbe mai fatto, e nel suo slancio era riuscito a mettere le mani al collo del rivale.

Alcatraz franò all’indietro, scivolando schiena a terra con Fulgor addosso, e non potemmo fare altro che provare a sottrarlo alla gragnuola di schiaffi e pugni che gli pioveva in testa.

«Fermi!», gridò Anatra. «Stanno arrivando i capi!».

La rissa fra i Ragazzi della Cinquantaseiesima strada era durata sì e no un minuto, ma era bastata a produrre due contusi: Alcatraz aveva l’aspetto di un tizio che si era divertito a provocare Mike Tyson e Carioca, nella foga della mischia, aveva rimediato una gomitata sul naso che lo costringeva in ginocchio, le mani sulla faccia, come un pellegrino alla fine del viaggio.

«Che buon profumino!», salì nel buio la voce di Marangoni.

«Stai a vedere che i Coguari ci hanno preparato un risotto come si deve», gli fece eco il lentigginoso Ipo.

«Tutto a posto, gente!», ordinò Fulgor. «Filate a sciacquarvi la faccia, voi due!».

Insieme al tennista Stromboli, aiutai Carioca a risollevarsi: gli tamponammo il naso alla meno peggio e, poiché diceva di avere smarrito il senso dell’equilibrio, lo scortammo in tutta fretta verso il torrente.

Ci seguì anche Alcatraz, ma solo dopo avere promesso vendetta a Fulgor.

«Facciamo ’sta bella cena», ringhiò mentre seguivamo il sentiero. «Rimpinziamoci per bene, e poi l’ammazzo, quel cornuto».

Il contrasto fra le chiacchiere allegre che echeggiavano alle nostre spalle e il suo tono plumbeo riempiva il bosco d’una vibrazione minacciosa: per quel che capivi, era discretamente probabile che la serata sotto le stelle finisse nel sangue.

«Davvero straordinario questo risotto», si complimentò il lentigginoso Ipo. Quel soprannome che si portava dietro da anni era un’abbreviazione di ipotenusa, e originava dalla forma del suo naso, assai prominente già in età infantile. «Secondo me è almeno da nove».

«Io propongo un dieci», ci esaltò il suo collega Keegan, il pollice all’insù come Fonzie.

Adesso toccava a Marangoni dire la parola definitiva.

Gli sguardi si concentrarono sul suo volto per leggervi presagi, e quello disse con una strana voce: «Abbiamo acqua, ragazzi, per cortesia? Mi brucia un po’ la lingua».

«Anche a me!», sostenne Actarus, e Fulgor lo guardò come avesse mandato a monte la sua festa di compleanno.

«Sì», corresse il tiro Ipo. «Molto buono, ma pizzica leggermente».

Venne passata una borraccia a Marangoni, che invece di bere si sciacquò la bocca, quindi si voltò e sputò l’acqua in uno zampillo. «Cosa ci avete messo dentro, ragazzi?», domandò poi. «Peperoncino di Cajenna?».

Sarà stata la suggestione, ma adesso anche a me bruciavano lingua e labbra.

«Oh, niente di speciale», sviò il discorso Fulgor. «Forse è un po’ troppo salato?».

«Le cipolline», svelò Alcatraz. «Sono quelle dannate cipolline che ci hai voluto mettere, e adesso mi sento la bocca che va a fuoco».

«Quali cipolline?», indagò Marangoni, con un’ombra di risentimento nella voce, mentre la borraccia passava di mano in mano.

«Sorbole, se brucia!», esclamò Keegan, che fino a un minuto prima voleva assegnarci un bel dieci. «Dev’essere a scoppio ritardato!».

Ipo, adesso, rideva con le lacrime agli occhi, e Marangoni ci fissava come un ispettore di fronte a una banda di mariuoli appena finiti in commissariato.

«Dove avete trovato le cipolline, Fulgor?», domandò al Caposquadriglia, coprendosi la bocca con la mano come fosse ancora intento a masticare.

«Qui intorno», spiegò. «Sono commestibili, no?».

«E nel dubbio, deficiente, ce le servi a cena?», lo incalzò il Caporeparto.

«Aiuto», gemette Actarus. «Ho le labbra tutte gonfie!».

Osservato alla luce della torcia, sembrava un africano albino, e ne provammo un moto d’orrore.

Marangoni imprecò sonoramente, come faceva solo quando perdeva sul serio le staffe, e io temetti che potessimo morire tutti nel giro di una mezz’ora, con le labbra gonfie fino a spaccarsi e la lingua prosciugata.

«Dici che è meglio avvertire la guardia medica?», chiese Keegan al Caporeparto, e questa volta la sua opinione sembrava ancora più determinante che nell’assegnazione del voto al nostro risotto.

«Non ancora», dispose. «Abbiamo degli antibiotici, in infermeria. Forse è solo un’irritazione, e non ce ne sarà nemmeno bisogno. Ma se qualcuno si sente male, bisogna volare in paese e portare qui un dottore».

Così passammo, nel giro di pochi minuti, dall’essere trattati come deliziosi anfitrioni alle accuse di avvelenamento: per fortuna, nello spazio di un’ora i sintomi si placarono, e nessuno accusò malesseri più gravi del gonfiore alle labbra.

L’indomani, quando uscì il tabellone dei voti relativi alla cena precedente, i Coguari ottennero un rotondo zero, ma in compenso l’incidente era servito a evitare una zuffa. Alcatraz ebbe la sua soddisfazione nel deridere il risotto bubbonico di Fulgor, e quello restò a meditare sulla facilità di costumi di Betta senza più alzare le mani.