La squadriglia Coguari
Riavvolgiamo il nastro all’indietro, cari signori. Come ve la cavavate a dodici anni? Che cosa si provava a camminare per strade sconosciute? E nel fitto d’un bosco?
Nel mio caso, avevo le chiavi di casa da un anno scarso, ma non ancora il permesso di accendere il gas da solo. A essere sinceri, non mi sentivo troppo al sicuro nel ritrovarmi solo e appiedato in zone diverse dal mio quartiere e dal centro storico; in bici, in compenso, ci si poteva spingere sino ai limiti della città, certi di poter fuggire a ogni minaccia spingendo sui pedali. Quanto ai boschi, poi, non mi ci ero mai addentrato da solo e, anche in gita con familiari e amici, si stava attenti a non perdere di vista i segnavia.
Gli esploratori dei quali eri entrato a far parte come novizio, invece, battevano palmo a palmo foreste inesplorate. Guadavano torrenti impetuosi sui quali, nel giro di poche ore, costruivano ponti di corda. Talvolta fondavano cittadelle dall’aspetto di fortini, che poi lasciavano alla mercé della vegetazione e delle fiere.
Questo almeno mi avevano raccontato e io, forte dell’esperienza come collaudatore di funicolari e panificatore nella branca infantile, ci credevo ciecamente.
Nella realtà, si trattava d’una ciurma compresa fra i dodici e i quindici anni di età, dove ai modi da gentiluomo si preferiva una burbera schiettezza. Il reparto era suddiviso in cinque squadriglie, e io mi ritrovai come ultimo degli ultimi nella nobile compagine dei Coguari. I nostri colori, ripresi dagli omerali in stoffa che pendevano dalle spalle dei miei nuovi compagni, erano – senza un vero motivo al mondo – il bruno e il rosa. Numero uno era un ginnasiale alto e dall’aria sorniona, Fulvio Goldrini, nome di battaglia Fulgor. Quanto al vice, ricordavo il suo nome dai tempi dei Lupetti, ma adesso tutti lo chiamavano Anatra.
«Perché Anatra?», mi azzardai a domandare, e il terzo di squadriglia, un giovanotto dell’Istituto tecnico che poteva già inalberare due invidiabili basette, mi guardò come fossi scemo.
«Non lo vedi?», me lo indicò. «Ha il collo lungo come l’Anitra WC».
L’interessato, che in effetti poteva vantare una certa distanza fra le spalle e la testa riccia, non mostrò di aversene a male. «Lui deve stare zitto», sorrise, accennando al terzo. «Alcatraz, lo hanno battezzato».
Ecco in che compagnia ero finito! E, a peggiorare le cose, il Caporeparto e i suoi aiutanti, gli unici adulti alla cui autorità dovessero inchinarsi Fulgor, Anatra e Alcatraz, sembravano rassegnati al fatto che, molto presto, alle attività che comprendevano l’intero reparto si sarebbero affiancate, con sommo sprezzo del pericolo, uscite di due giorni progettate e portate a termine dalle singole squadriglie. Allora nessuno ci avrebbe sorvegliato o soccorso, né s’intravedeva la possibilità di ottenere pasti caldi se non mettendoci noi stessi a cucinare.
Guardando di sottecchi le basette e il collo lungo del vice, pregai che almeno Fulgor sapesse maneggiare correttamente un fornello a gas.
«Adesso cambia tutto», mise in chiaro il Caposquadriglia, mentre aspettavamo la corriera, a fianco della scomposta piramide formata dalla sacca della tenda e dai nostri zaini affastellati. «Non siamo più la squadriglia Coguari, ma i Ragazzi della Cinquantaseiesima strada». Era un film in voga dove si parlava d’una banda giovanile di cui faceva parte il protagonista, Matt Dillon, e ci restai di sasso quando vidi che Fulgor si levava di tasca un berretto di panno rosso uguale a quelli del film.
«Chi te l’ha dato?», domandai, ma quello non rispose. Si limitò a sistemarselo in capo, e anche Anatra ne tirò fuori dal giubbotto uno identico.
«Ce li siamo fatti noi», rispose. Si vedeva che era fiero di quel copricapo, ma allo stesso tempo provava pena per noi più giovani che ne eravamo privi. «Potrete portarlo anche voi, quando sarete all’ultimo anno di reparto», concesse.
«Nix!», lo zittì Fulgor. «Potranno portarlo se entreranno a far parte dei Ragazzi. Mica tutti ce l’hanno».
Anatra tacque, segno che doveva essere così.
Alcatraz apparve sotto il portico con il suo peculiare passo trascinato. Aveva inforcato un solo spallaccio dello zaino, e anche lui portava il basco rosso. Reggeva al petto un fascio di riviste, mentre coll’altra mano si trascinava dietro uno spinone al guinzaglio.
«No, eh! Stavolta il cane non viene!», protestò Fulgor.
«Che palle, Alcatraz!», gli fece eco il vice. «Lo sai che non si può, e dopo Marangoni s’incazza».
Alberto Marangoni era il Caporeparto al quale dovevamo tutti obbedienza. Avrebbe messo schiena a terra ognuno di noi con una mano sola, ma al momento non era in zona, così Alcatraz si sentì in diritto di rispondere: «Mi ci sciacquo le palle, io, con Marangoni».
Ecco perché, al quarto anno in reparto, non era diventato né Capo, né vice.
Gli altri due sembravano più equilibrati, ma il proprietario dell’animale mise su una linea difensiva inoppugnabile: sosteneva che, essendo rimasto da solo con l’animale, non poteva abbandonarlo.
«Giura che tua madre è partita!», volle vederci chiaro Fulgor, e Alcatraz giurò.
«E tuo fratello?».
«È in gita scolastica», flautò il terzo. «In Umbria», aggiunse, con una vocina flebile da piccola fiammiferaia che non gli si addiceva.
«Tu racconti stronzate», tentò di smascherarlo il Capo, mentre lo spinone faceva le feste a tutti, pregustando l’avventura. «Non ti ricordi com’è andata, l’altra volta?».
«È solo caduto in un fiume», rammemorò Alcatraz. «Niente di grave».
«E le pecore? Chi le inseguiva?».
«Dài, Fulgor. Non è un buon motivo per lasciarlo a casa da solo a morire di crepacuore».
«Da solo non può starci», convenne Anatra, e Fulgor sbuffò.
«Sempre all’ultimo minuto, tiri fuori queste novità!», commentò, poi accennò al nastro d’asfalto e disse: «Merda, la corriera».
«Cosa facciamo?», domandò un ragazzino, maggiore di me d’un anno, che chiamavano Carioca.
«Cosa vuoi che facciamo?», sussurrò il suo pari età Aldo Tullis detto Actarus.
Dilemmi che ormai coinvolgevano solo noialtri della bassa truppa. I Ragazzi della Cinquantaseiesima strada erano già lì a sbracciarsi per fermare la corriera; montammo in sette, tre dei quali con i berretti rossi in testa, e con noi salirono gli zaini, la pesante sacca della tenda, le riviste e un cane pazzo di gioia.
Il luogo disposto per accamparci era in cima alla collina. Non però, come ci eravamo convinti in un primo momento, la collina ai piedi della quale ci aveva scaricato la corriera. E nemmeno, come constatammo inerpicandoci fin lassù con la tenda portata a spalle, la collina successiva.
I voli di pipistrelli del crepuscolo avevano lasciato il posto alla tenebra più oscura, e noi più giovani arrancavamo dietro i ragazzi col basco, sospinti dalla fede cieca nel fatto che, qualora fossimo rimasti indietro, nessuno sarebbe tornato a prenderci. Sudati fradici e col fiato rotto, l’unico sollievo era dato, paradossalmente, dal ricevere la tenda da portare: quand’era il tuo turno c’era schiattare, ma almeno eri sicuro che, fino a quando restavi sotto il peso della ruvida stoffa, con le sue cuciture in grado di scorticare le mani, perlomeno gli altri non ti avrebbero abbandonato. Era infatti, quella tenda, l’unico riparo in grado di salvarci dal gelo della notte, ma quando Fulgor giurò che ci aspettava solo un’ultima salita, poi avremmo montato il campo, credetti di star male dalla gioia. Ancora non potevo sapere che cosa ci attendeva.
Da perfetti pivelli, ci era sembrato superfluo indossare da subito abiti asciutti. «Ci cambiamo poi, quando abbiamo montato la tenda», aveva disposto Fulgor, e noi gli eravamo andati dietro per non sembrare femminucce, col risultato che due ore dopo stavamo ancora battendo i denti al freddo, ché la grande tenda da otto persone, che si diceva un surplus dell’esercito cecoslovacco, non voleva saperne di stare dritta. Dal mio punto di vista, il peggio era che gli altri ci sembravano abituati, e nessuno si preoccupava di preparare la cena.
«’Sta busona di cecoslovacca!», imprecava Alcatraz, accorciando i tiranti sul retro, ma nello stesso momento, ormai esasperato, Anatra mollava quelli davanti, e il sovrattelo finiva per scivolare daccapo verso l’oscurità, lasciando nuda la casetta in tela leggera.
«Adesso ci penso io!», interveniva Fulgor. Si sostituiva ad Anatra, allontanandolo con uno strattone, ordinava ad Alcatraz di lanciargli un lembo del sovrattelo, e a noialtri di aiutarlo.
«Tu, Carioca, sei un gran Geppetto! Sempre con le mani in mano!», biasimò il giovane, che tremava come una foglia con i suoi abiti bagnati addosso.
«Non mi sento tanto bene», si scusò quello e, non appena il Capo gli puntò addosso il cono di luce della torcia elettrica, ebbi l’impressione che la sua fisionomia, talmente pallida da meritargli come scherzoso nomignolo una marca di pennarelli, andasse coprendosi d’una patina di brina.
«Resisti», lo liquidò Fulgor. «Ci siamo, con questa copertura della malora? Dobbiamo tirare tutti insieme al mio tre».
Non fece in tempo ad arrivare al due, che la casetta diede spontaneamente un cigolio sinistro, quindi si afflosciò beffardamente sotto i nostri occhi.
«Non erano fissati i pali, zio spazzacamino!», proruppe Fulgor. «Adesso ci tocca fare tutto daccapo!».
«È colpa di ’sta busona», tentò di calmarlo Alcatraz, mentre Anatra rideva in maniera scomposta. Allora il Capo, stizzito, gli lanciò addosso un picchetto, che mancò il vice e proseguì la sua roteante parabola nel buio per concluderla a un braccio da me.
Con un grido improvviso, un corpo si afflosciò a terra.
Lo spinone, legato a un arbusto e convinto di essere a guardia degli zaini, si ridestò abbaiando in maniera furiosa.
«Chi ho preso?», indagò Fulgor.
«Actarus», spiegò Carioca, scosso dalla febbre.
Il colpito si lamentava in maniera penosa e, quando riuscimmo a levargli le mani dal volto, dovemmo constatare che si andava formando un grosso ematoma al centro della fronte.
«Mi spiace», balbettò Fulgor. «Volevo colpire Anatra. Ma tu come stai?».
«Mi fa male. E sento che mi sta venendo un bernoccolo enorme».
Non sembrava una situazione da prendere sottogamba, ma cos’avremmo dovuto fare? Ridiscendere la collina semicongelati, per arrivare alla fattoria più vicina, e convincere i contadini a chiamare un’ambulanza? Allontanarsi da lì nella notte pareva follia.
«Comunque non sanguini», fece il punto Alcatraz. «E un uomo che non sanguina, di solito non sta per morire».
Poteva essere una citazione di Clint Eastwood o una sua trovata nuova di zecca, non avrei saputo dirlo, ma ormai agognavo soltanto la maglietta asciutta, il maglione caldo e l’abbraccio del sacco a pelo.
«Dài, ragazzi. Tiriamo su daccapo la busona», ordinò Fulgor, senza perdersi d’animo.
«Posso entrarci dentro?», implorò Carioca, tremando a braccia conserte e leggermente inclinato in avanti. «Anche atterrata», biascicò, «è pur sempre un riparo».
«Tu pensa alla cena, deficiente!», lo zittì Alcatraz, e quel rude richiamo mi ridestò dal torpore, offrendo la ragionevole certezza che non eravamo ancora destinati a trascolorare in fantasmi.
La tenda cecoslovacca, mantenuta in equilibrio con l’aiuto qui di zeppe e là sfruttando i naturali avvallamenti del terreno, sembrava intenzionata a reggere almeno sino all’alba dell’indomani.
E noialtri, ora che s’era costruito in qualche modo un simulacro di nido, avevamo indossato i nostri abiti asciutti e ci potevamo infine rilassare nell’attesa della cena. Anatra sfogliava il “Guerin Sportivo”, il Capo Fulgor l’ultimo numero della rivista musicale alternativa “Blast”, e il proprietario di entrambi i giornali, la gola al riparo d’una kefiah palestinese, mostrava a noi più giovani un servizio al quale era particolarmente affezionato, Cuginette birichine, tratto dal mensile vietato ai minori “Le Ore”. A quanto pareva, certe donne facevano fra loro cose inaudite. Solo il povero Carioca, raggomitolato nel sacco a pelo nell’angolo più buio dell’antro, non poteva godersi lo spettacolo.
«Sarà ancora vivo, quello?», domandò Alcatraz controllando il bollore: la gavetta, in precario equilibrio sui bracci del fornello, non sembrava contenere acqua a sufficienza, ma il titolare vi aprì dentro senza un’esitazione una busta di penne da mezzo chilo.
«Bravo scemo!», protestò Fulgor di fronte allo spettacolo delle penne che debordavano dalla gavetta e cascavano nell’erba umida. «E adesso quando bolle, secondo te?».
Ci volle quasi un’ora, nel corso della quale il Guerin, Blast e le Cuginette birichine corsero di mano in mano sino a stancarci.
«Perché non mettiamo su il secondo, intanto?», propose timidamente Actarus, al quale si era formato un bozzo in fronte di proporzioni mai viste.
«Ma sta’ zitto, unicorn!», lo ammonì il terzo. «Abbiamo un fornello solo!».
Sospirammo, e ci ripromettemmo di portarne sempre almeno due.
«Cosa ci sarebbe, di secondo?».
«Salsicce, e cinquemila lire a testa di quota».
«Cinque sacchi per non mangiare un accidenti», si lamentò Anatra, e Alcatraz si rivoltò come se l’avessero punto.
«Va bene!», gridò stizzito. «Questa pasta non sarà mai pronta! Passiamo al secondo!».
«Basta levarne un poco», suggerì Fulgor, ma ormai il terzo di squadriglia si era levato in piedi per scagliare lontano il contenuto della gavetta. Il manico pieghevole e la forza centrifuga fecero il resto: con un grido lancinante, Alcatraz fece sapere alle mute contrade circostanti di essersi tirato addosso una quantità imprecisata di penne crude e acqua che, se ancora non bolliva, doveva essere già più che tiepida.
Venne soccorso e, appurato che non aveva subito danni irreparabili, venne lasciato al conforto d’una Camel fuori ordinanza.
«Delle salsicce mi occupo io», mise in chiaro Fulgor, coltello sguainato alla mano, ma qualcosa mi diceva che anche il secondo avrebbe rappresentato un problema. «Dove sono le salsicce?».
Saltarono fuori, per fortuna, e mentre Fulgor deponeva il cartoccio aperto sulla nuda terra, e si dava ad accoltellare le salsicce come fossero le peggiori nemiche della sua famiglia, Anatra si occupò di sostituire il più recente infortunato come fuochista.
«Mangeremo mai?», domandò il bernoccoluto Actarus.
«Muto, unicorn. Sto sminuzzando la salsiccia proprio perché si cuocia più in fretta».
Di fronte alle competenze da trapper del Capo, nessuno fiatò. Solo Anatra, quando si trovò alle prese con dodici salsicce ridotte a poltiglia, osservò che metterle in padella senza olio né burro poteva risultare rischioso.
«Cuoci, va’!», lo liquidò Fulgor, immergendo il coltello nel terreno sino al fermo dell’impugnatura.
«Perché fai così?», non resistetti alla curiosità.
«Niente di meglio dell’argilla, per sgrassare», assicurò il Capo, sfilando la lama dalla sua guaina di terra con la stessa rapidità impiegata a infilarvela. Mi ripromisi d’imparare quel gesto, una volta a casa, e in quella la salsiccia prese a sfrigolare.
«Dài, che si mangia!», esultò Actarus e, per un attimo, sentii che una squadriglia di ragazzi era riuscita a strappare la propria cena dalle unghie del destino, arbitro e avversario particolarmente accanito nei confronti dei viventi che si aggirano in orario notturno per colline senza nome.
Eravamo tutti trapper, pionieri, cowboys riuniti intorno al fuoco di bivacco ed era meraviglioso sentirsi così a dodici anni, sotto l’ordito fuori dal tempo delle stelle. Fu una sensazione molto piacevole che, però, durò all’incirca il tempo di trascinare il malato fuori dal sacco e metterci in cerchio per azzannare le salsicce.
«Alcune sono un po’ abbrustolite», ci informò Anatra, in perfetto accordo con il tanfo pesante di bruciato che si spandeva intorno a lui.
«Meglio. Abbrustolite sanno di più», sentenziò Fulgor, mentre ciascuno riceveva la propria porzione. La prima sensazione fu di non ritrovarmi quasi niente nella scodella metallica della gavetta. Pensai a uno scherzo di Anatra, ma vidi che tutti fissavano interdetti la porzione di spettanza.
«Cos’è ’sta merda?», domandò il Capo non appena ebbe assaggiato la prelibatezza. «Carbon coke?», e sputò via il suo boccone.
Alla luce della torcia mi resi conto che la cena si era ridotta a uno spolverio di frammenti completamente anneriti, e ne provai un dolore fisico che ancora non avevo sperimentato.
Alcatraz lasciò andare una bestemmia rabbiosa, e anche il cane prese a ululare alla disperata.
«Altro che Ragazzi della Cinquantaseiesima strada», bofonchiò Anatra. «Siamo una manica di imbranati!».
«Fuori le colazioni!», Fulgor riassunse il controllo della barca alla deriva. «Biscotti e marmellata! Ecco cosa mangiamo stasera per cena!».