Sì, ho cominciato il mio viaggio da solo e l’ho terminato da solo.
Ma questo non significa che io abbia camminato da solo.
Da La via dei re, postfazione
Kaladin volava sopra l’oceano turbolento. Dalinar era riuscito a raccogliere la forza per sovraccaricarlo di Folgoluce, anche se farlo evidentemente lo estenuava.
Kaladin aveva usato tutta quella carica per arrivare a Kharbranth, dove si era fermato per una notte di sonno. Perfino la Folgoluce poteva spingere il corpo solo fino a un certo punto. Dopo un lungo volo, il giorno successivo, aveva raggiunto il Mare Tarat.
Ora volava usando gemme requisite dal tesoro reale a Kharbranth. Si levava fumo da diversi punti lungo la costa di Alethkar, dove alcune città resistevano ancora all’invasione dei parshi. La mappa gli sventolava tra le dita e Kaladin osservava la costa in cerca della formazione rocciosa che la scrivana gli aveva disegnato.
Quando la notò, si preoccupò che non gli rimanesse abbastanza Folgoluce per tornare al sicuro. Atterrò lì e continuò a piedi, secondo le istruzioni, attraversando una terra fredda e rocciosa che gli ricordava le Pianure Infrante.
Lungo un fiume prosciugato, trovò un gruppetto di rifugiati accalcati presso una caverna nella roccia. Un piccolissimo fuoco mandava un filo di fumo in aria e illuminava dieci persone in mantelli marrone. Erano individui ordinari, come molti altri che aveva incrociato durante la sua ricerca. L’unica caratteristica peculiare era un piccolo simbolo che avevano dipinto su un vecchio telo appeso tra due pali all’ingresso del campo.
Il simbolo del Ponte Quattro.
Due figure si alzarono dal fuoco, tirando indietro i cappucci. Due uomini: uno alto e smilzo, l’altro basso e grintoso, le tempie striate d’argento.
Drehy e Sfregio.
Rivolsero a Kaladin un paio di saluti precisi. Drehy aveva vecchi tagli sulla faccia e Sfregio aveva l’aria di non dormire da settimane. Avevano dovuto coprire la fronte con la cenere per nascondere i loro tatuaggi, una messinscena che in tempi normali non avrebbe funzionato. Praticamente li contrassegnava come schiavi fuggitivi.
Syl proruppe in una risata di vero piacere, sfrecciando da loro, e, a giudicare dal modo in cui reagirono, pareva che avesse permesso che la vedessero. Dietro di loro, i tre servitori di Shallan emersero dai mantelli. Kaladin non conosceva le altre persone, ma uno di loro doveva essere il mercante che avevano trovato, un uomo che possedeva ancora una distacanna.
«Kal» disse Sfregio mentre Kaladin gli dava una pacca sulla schiena. «C’è qualcosa che non abbiamo menzionato via distacanna.»
Kaladin si accigliò quando Drehy tornò presso il fuoco e prese con sé una delle figure lì attorno. Un bambino? Vestito di stracci. Sì, un esserino spaventato, che poteva avere tre o quattro anni, le labbra screpolate e gli occhi tormentati.
Il figlio di Elhokar.
«Proteggiamo» affermò Drehy «quelli che non possono proteggersi da soli.»
Taravangian non riusciva a risolvere la prima pagina dei problemi del giorno.
Dukar, il guardatempeste, prese il foglio e lo esaminò. Scosse il capo. Oggi era stupido.
Taravangian si appoggiò contro lo schienale della sua sedia a Urithiru. Capitava che fosse stupido sempre più spesso. Forse era la sua percezione.
Erano passati otto giorni dalla Battaglia del Campo di Thaylen. Non era certo che Dalinar si sarebbe mai più fidato di lui, ma svelargli parte della verità era stato un rischio calcolato. Per ora, Taravangian era ancora un membro della coalizione. Era un bene, anche se… Era…
Tempeste! Cercare di pensare attraverso la nebbia che aveva nel cervello era… seccante.
«Oggi la sua mente è debole» annunciò Dukar a Mrall, la guardia del corpo muscolosa di Taravangian. «Può interagire, ma non dovrebbe prendere decisioni politiche importanti. Non possiamo fidarci della sua interpretazione del Diagramma.»
«Vargo?» chiese Adrotagia. «Come ti piacerebbe trascorrere la giornata? Nei giardini veden, forse?»
Taravangian aprì gli occhi e guardò i suoi fedeli amici. Dukar e Mrall. Adrotagia, che ora sembrava così vecchia. Si sentiva forse come lui, sconcertata ogni volta che si guardava allo specchio, e si domandava dove erano andati i giorni? Da giovani, avevano voluto conquistare il mondo.
O salvarlo.
«Vostra maestà?» chiese Adrotagia.
Oh. Giusto. A volte la sua mente vagava. «Non possiamo fare nulla finché la Tempesta Infinita non sarà passata. Corretto?»
Adrotagia annuì, porgendogli i suoi calcoli. «È all’incirca qui.» La gente aveva trascorso gli otto giorni successivi alla battaglia sperando invano che la Tempesta Infinita fosse scomparsa per sempre. «Non è forte come durante il suo ciclo precedente, ma sta arrivando. Ha già raggiunto Azir e dovrebbe colpire Urithiru entro un’ora.»
«Allora aspettiamo.»
Adrotagia gli diede alcune lettere che erano arrivate dai suoi nipoti a Kharbranth. Lui sapeva leggere perfino quando era stupido, anche se gli occorreva più tempo per capire alcune parole. Gvori era stato ammesso come allievo alla Scuola delle Tempeste, che permetteva l’accesso al Palanaeum a tutti gli studiosi. Karavaniga, la nipote di mezzo, era stata accettata come pupilla e gli aveva inviato un disegno di loro tre. La piccola Ruli, al centro, sfoggiava un sorriso sdentato. Lei gli aveva fatto un disegno di fiori.
Taravangian si toccò le lacrime sulla guancia mentre terminava di leggere. Nessuno dei tre sapeva nulla del Diagramma e lui era deciso a fare in modo che le cose restassero così.
Adrotagia e Dukar conversavano sommessamente all’angolo della stanza, confusi da parti del Diagramma. Ignoravano Maben, la cameriera, che stava tastando la fronte di Taravangian dato che di recente aveva tossito.
“Che sciocchi possiamo essere” rifletté Taravangian posando le dita sul disegno di fiori. “Non sappiamo mai quanto crediamo. Forse in questo il me intelligente è sempre stato quello più stupido.”
Si accorse dell’arrivo della Tempesta Infinita solo per un ding dell’orologio di Adrotagia, un pezzo piccolo e magnifico, dono di Navani Kholin.
«Il Diagramma si è sbagliato troppo spesso» disse Mrall a Adrotagia e Dukar. «Prediceva che Dalinar Kholin sarebbe caduto, se fosse stato messo sotto pressione, e sarebbe diventato il campione del nemico.»
«Forse Graves aveva ragione» ribatté Dukar, mentre nervoso si sfregava le mani. Lanciò un’occhiata verso la finestra, le cui imposte erano chiuse benché la Tempesta Infinita non arrivasse tanto in alto. «Avremmo potuto rendere lo Spinanera un alleato. È questo che intendeva il Diagramma.»
«No» obiettò Taravangian. «Non è questo che voleva dire.»
Guardarono verso di lui. «Vargo?» chiese Adrotagia.
Lui cercò di trovare un’argomentazione per spiegarsi, ma era come sforzarsi di tenere dell’olio stretto nel pugno.
«Siamo in una posizione pericolosa» intervenne Dukar. «Sua maestà ha rivelato troppo a Dalinar. Ora saremo controllati.»
… la… finestra…
«Dalinar non sa del Diagramma» ribatté Adrotagia. «O che abbiamo portato noi i cantori a Urithiru. Sa solo che Kharbranth controllava l’assassino, e pensa che sia stata la follia dell’Araldo a imbeccarci. Siamo ancora in buona posizione.»
Apri… la… finestra… Nessuno degli altri udiva la voce.
«Il Diagramma sta diventando difettoso» insistette Mrall. Anche se non era uno studioso, partecipava a pieno titolo al loro complotto. «Abbiamo deviato troppo dalle sue promesse. I nostri piani devono cambiare.»
«È troppo tardi» replicò Adrotagia. «Il confronto avverrà presto.»
APRILA.
Taravangian si alzò dalla sedia, tremante. Adrotagia aveva ragione. Il confronto predetto dal Diagramma si sarebbe verificato presto.
Ancor prima di quanto pensava lei.
«Dobbiamo aver fiducia nel Diagramma» sussurrò Taravangian mentre passava accanto a loro. «Confidare nella versione di me stesso che sapeva cosa fare. Dobbiamo avere fede.»
Adrotagia scosse il capo. Non le piaceva quando qualcuno di loro usava la parola “fede”. Lui si impegnava a ricordarselo, e lo rammentava quando era intelligente.
“Che le tempeste ti prendano, Guardiana della Notte” pensò Taravangian. “La vittoria di Odio ucciderà anche te. Non avresti potuto semplicemente darmi un dono senza maledirmi?”
Aveva chiesto la capacità di salvare il suo popolo. Aveva implorato di avere compassione e acume… e li aveva ottenuti. Solo non allo stesso tempo.
Toccò le imposte della finestra.
«Vargo?» chiese Adrotagia. «Voi far entrare un po’ d’aria fresca?»
«No, purtroppo. Qualcos’altro.»
Aprì le imposte.
E all’improvviso si trovò in un luogo di luce infinita.
Il terreno sotto di lui brillava e nelle vicinanze scorrevano fiumi fatti di qualcosa di fuso, colorato di oro e arancio. Odio apparve a Taravangian come un essere umano alto venti piedi, con occhi da Shin e uno scettro. La sua barba non era a ciuffi, come quella di Taravangian, ma nemmeno cespugliosa. Assomigliava quasi alla barba di un fervente.
«Tu guarda» disse Odio. «Taravangian, giusto?» Strinse gli occhi, come se lo vedesse per la prima volta. «Ometto. Perché ci hai scritto? Perché hai fatto sbloccare la Giuriporta e permesso ai nostri eserciti di attaccare Urithiru?»
«Desidero solo servirti, Sommo dio» replicò Taravangian, genuflettendosi.
«Non prostrarti» affermò il dio ridendo. «Comprendo che non sei un leccapiedi e non mi farò ingannare dai tuoi tentativi di sembrarlo.»
Taravangian prese un respiro profondo, ma rimase in ginocchio. Proprio oggi Odio lo contattava finalmente di persona? «Non sto bene oggi, Sommo dio. Io… uhm… sono fragile e di salute cagionevole. Potremmo incontrarci di nuovo quando starò bene?»
«Poveretto!» ribatté Odio.
Una sedia spuntò dal terreno dorato dietro Taravangian e Odio si avvicinò a lui, improvvisamente più piccolo, di dimensioni più umane. Lo spinse con delicatezza sulla sedia. «Ecco. Meglio?»
«Sì… grazie.» Taravangian corrugò la fronte. Non era così che si era immaginato quella conversazione.
«Ora» disse Odio, posando lievemente lo scettro sulla spalla di Taravangian. «Pensi che ti incontrerò mai quando ti senti bene?»
«Io…»
«Ti rendi conto che ho scelto questo giorno appositamente a causa della tua malattia, Taravangian? Credi davvero che sarai mai in condizioni di negoziare con me da una posizione di potere?»
Taravangian si umettò le labbra. «No.»
«Bene, bene. Ci capiamo. Ora, cosa stavi combinando…» Fece un passo da un lato e apparve un piedistallo dorato con sopra un libro. Il Diagramma. Odio cominciò a sfogliarlo e il paesaggio dorato cambiò, passando a una camera da letto con elegante mobilio di legno. Taravangian la riconobbe dalle scritte scarabocchiate su ogni superficie: dal pavimento al soffitto, fino alla testiera del letto.
«Taravangian!» esclamò Odio. «Questo è straordinario.» Le pareti e i mobili svanirono, lasciando indietro le parole, che rimasero sospese in aria e iniziarono a brillare di una luce dorata. «Ne sei stato capace senza accesso a Fortuna o al Reame Spirituale? Davvero incredibile.»
«G-grazie?»
«Permettimi di mostrarti quanto vedo lontano io.»
Le parole dorate esplosero verso l’esterno a partire da quelle che Taravangian aveva scritto nel Diagramma. Milioni e milioni di lettere dorate bruciarono nell’aria, estendendosi fino all’infinito. Ciascuna prese un piccolo elemento che Taravangian aveva scritto e lo espanse in informazioni tali da riempire volumi e volumi.
Taravangian rimase senza fiato mentre, per un istante, guardava nell’eternità.
Odio esaminò le parole che il re un tempo aveva scritto sul lato di una cassettiera. «Capisco. Impossessarsi di Alethkar? Piano audace, molto audace. Ma perché invitare me ad attaccare Urithiru?»
«Noi…»
«Non ce n’è bisogno! Vedo. Rinunciare a Thaylen per assicurare la caduta dello Spinanera, eliminando la tua opposizione. Un’apertura verso di me, che naturalmente ha funzionato.» Odio si voltò verso di lui e sorrise. Un sorriso fiducioso, d’intesa.
“Pensi davvero che sarai mai in grado di negoziare con me da una posizione di potere?”
Tutte quelle scritte incombevano sopra Taravangian, bloccando il paesaggio con milioni di parole. Una sua versione più intelligente avrebbe cercato di leggerle, ma questa più stupida era semplicemente intimidita. E… quello poteva essere… per il suo bene? Leggere tutto ciò l’avrebbe consumato. L’avrebbe fatto smarrire.
“I miei nipoti” pensò. “La gente di Kharbranth. La brava gente del mondo.” Tremava al pensiero di cosa poteva succedere a tutti loro.
Qualcuno doveva prendere le decisioni difficili. Scivolò giù dalla sedia dorata mentre Odio studiava un’altra porzione del Diagramma. Ecco. Dietro il letto. Una sezione di parole che era sbiadita da oro a nero. Cos’era? Mentre si avvicinava, Taravangian vide che le parole erano oscurate per sempre a partire da quel punto sulla parete. Come se lì fosse successo qualcosa. Un’increspatura in quello che Odio poteva vedere…
E alla base si leggeva un nome. Renarin Kholin.
«Dalinar non sarebbe dovuto Ascendere» disse Odio, avvicinandosi a Taravangian da dietro.
«Tu hai bisogno di me» sussurrò il re.
«Io non ho bisogno di nessuno.»
Taravangian guardò in alto e lassù, a risplendere di fronte a lui, c’era una serie di parole. Un messaggio da parte di se stesso nel passato. Incredibile! In qualche modo aveva previsto perfino questo?
“Grazie.”
Le lesse ad alta voce. «Hai acconsentito a una battaglia di campioni. Devi ritirarti per impedire che questa sfida si verifichi, e perciò non devi più incontrarti con Dalinar Kholin. Altrimenti lui può costringerti a combattere. Ciò significa che devi lasciare che siano i tuoi emissari a svolgere il tuo lavoro. Hai bisogno di me.»
Odio si avvicinò, notando le parole che Taravangian aveva letto. Poi guardò accigliato le lacrime sulle guance dell’altro. «La tua Passione» affermò Odio «ti rende merito. Cosa chiedi in cambio?»
«Proteggere le persone che governo.»
«Caro Taravangian, non credi che io riesca a vedere ciò che stai progettando?» Odio fece un gesto verso la scritta dove un tempo si era trovato il soffitto. «Cercheresti di diventare re di tutti gli umani e poi io dovrei preservarli tutti quanti. No. Se mi aiuti, salverò la tua famiglia. Tutti quanti entro due generazioni da te.»
«Non è sufficiente.»
«Allora non abbiamo un accordo.»
Le parole cominciarono a svanire tutt’intorno a loro. Lasciandolo solo. Solo e stupido. Lacrime gli sgorgarono dagli angoli degli occhi. «Kharbranth» disse. «Preserva solo Kharbranth. Puoi distruggere tutte le altre nazioni. Ma lascia stare la mia città. È per questo che ti imploro.»
Il mondo era perduto, l’umanità condannata.
Avevano progettato di proteggere un territorio molto più ampio. Ma… ora capiva quanto poco sapevano. Una città davanti alle tempeste. Una terra protetta, anche se il resto doveva essere sacrificato.
«Kharbranth» replicò Odio. «La città stessa e qualunque umano vi sia nato, assieme al proprio consorte. Questo è ciò che risparmierò. Acconsenti?»
«Dovremmo scrivere… un contratto?»
«La nostra parola è il contratto. Non sono un qualche spren di Onore che cerca di obbedire solo alla lettera rigorosa di una promessa. Se hai un accordo con me, io lo osserverò in spirito, non solo a parole.»
Che alternative aveva? «Accetto questo accordo» mormorò Taravangian. «Il Diagramma servirà te in cambio della preservazione del mio popolo. Ma ti avverto: l’assassino si è unito a Dalinar Kholin. Sono stato costretto a rivelare il mio collegamento con lui.»
«Lo so» ribatté Odio. «Hai ancora un’utilità. Per prima cosa, mi servirà quella Onorlama che hai così astutamente rubato. E poi appurerai per me cos’hanno scoperto gli Alethi su questa torre…»
Shallan esalò Folgoluce, plasmando un’illusione che era possibile solo quando lei e Dalinar si incontravano. Riccioli roteanti di nebbia uscirono a formare oceani e picchi: l’intero continente di Roshar, una massa dai colori vibranti.
Gli altiprincipi Aladar e Hatham fecero cenno ai loro generali e scrivani di muoversi attorno alla mappa, che riempiva la grande stanza, fluttuando circa all’altezza della vita. Dalinar stava proprio al centro di quella cosa, tra le montagne vicino a Urithiru, l’illusione che si increspava e si dissolveva quando toccava la sua uniforme.
Adolin strinse le braccia attorno a Shallan da dietro. «Sembra bellissimo.»
«Tu sembri bellissimo» replicò lei.
«Tu sei bellissima.»
«Solo perché tu sei qui. Senza di te, sbiadisco.»
Luminosità Teshav si trovava vicino a loro e, anche se la donna di solito manteneva una professionalità stoica, a Shallan parve di cogliere un accenno di occhi alzati al cielo. Be’, Teshav era così vecchia che probabilmente si dimenticava spesso com’era respirare, figurarsi com’era amare.
Adolin mandava Shallan su di giri. Con il suo calore così vicino, lei aveva problemi a mantenere l’illusione della mappa. Si sentiva sciocca: ormai erano promessi da mesi e lei si era abituata così bene a lui. Eppure qualcosa era cambiato. Qualcosa di incredibile.
Finalmente era arrivato il momento. La data delle nozze era stata fissata tra una settimana soltanto: quando gli Alethi si mettevano in testa una cosa, si impegnavano affinché accadesse. Be’, quello era un bene. Shallan non voleva andare troppo oltre in una relazione senza giuramenti e, tempeste, perfino una settimana stava cominciando a sembrare un’eternità.
Aveva ancora bisogno di spiegare alcune cose a Adolin. In particolare, tutto il caos con i Sanguispettri. Aveva fatto un buon lavoro nell’ignorarli, negli ultimi tempi, ma sarebbe stato un sollievo avere finalmente qualcuno con cui parlarne. Veil poteva spiegare – Adolin si stava abituando a lei, pur senza scendere nell’intimità. La trattava come un compagno di bevute, cosa che in effetti funzionava per entrambi.
Dalinar passò attraverso l’illusione, tenendo la mano sopra Iri, Rira e Babatharnam. «Cambia questa parte della terra in un oro ardente.»
Le occorse un attimo per capire che si rivolgeva a lei. Stupido Adolin con le sue stupide braccia. Sì, ma forti e gentili, premute contro di lei, proprio sotto il seno…
Giusto. Giusto. L’illusione.
Eseguì l’ordine di Dalinar, divertita dal modo in cui scrivane e generali ostentatamente non guardavano lei e Adolin. Alcuni sussurravano del retaggio occidentale di Adolin, che lo rendeva troppo esplicito nelle sue manifestazioni di affetto. In molti casi, gli Alethi non sembravano preoccupati dal fatto che avesse genitori misti: erano gente pragmatica e vedevano i suoi capelli come un segno di altri popoli conquistati e accolti nella loro cultura superiore. Ma cercavano scuse per il fatto che non si comportava sempre come loro ritenevano avrebbe dovuto.
Stando ai rapporti via distacanna, molti dei regni inferiori che circondavano il Purolago erano stati conquistati da Iri, che accompagnata dai Coalescenti si era mossa per occupare terre a cui mirava da generazioni. Si erano assicurati un totale di tre Giuriporte. Shallan dipinse quei regni sulla mappa di un oro vivido su richiesta di Dalinar.
Colorò con un motivo blu e marrone Azir e i suoi protettorati, con il simbolo che gli scrivani azish avevano scelto per la coalizione messo tra i regni. L’imperatore di Azir aveva acconsentito a continuare i negoziati; non erano appieno dentro la coalizione. Volevano rassicurazioni che Dalinar fosse in grado di controllare le sue truppe.
Lei continuò a colorare il paesaggio su richiesta di Dalinar. Marat e le terre attorno a essa diventarono oro, come – purtroppo – Alethkar. Tinse di verde terre che non si erano ancora schierate, come Shinovar e Tukar. Il risultato era una rappresentazione demoralizzante del continente, con troppe poche aree che mostravano le tonalità della loro coalizione.
I generali cominciarono a discutere di tattica. Volevano invadere Tu Bayla, la grande terra che si estendeva tra Jah Keved e il Purolago. Argomentavano che, se il nemico l’avesse conquistata, avrebbe diviso la coalizione in due. Le Giuriporte permettevano rapido accesso alle capitali, ma molte città erano lontane dai centri di potere.
Dalinar attraversò la stanza, formando un’increspatura che lo seguì nella scia. Si fermò vicino al punto dove si trovavano Adolin e Shallan, presso Herdaz. E Alethkar.
«Mostratemi Kholinar» disse piano.
«Non è così che funziona» rispose lei. «Prima devo disegnare qualcosa e…»
Lui la toccò sulla spalla e un pensiero entrò nella mente di Shallan. Un altro schema.
«Questo è ciò che vede il Folgopadre» replicò Dalinar. «Non è specifico, perciò non potremo fare affidamento sui dettagli, ma dovrebbe fornirci un’impressione. Prego.»
Shallan si voltò e agitò la mano verso la parete, dipingendola di Folgoluce. Quando l’illusione attecchì, il lato della stanza sembrò svanire, permettendo loro di guardare fuori come se ci fosse un balcone nel cielo, verso Kholinar.
Il cancello più vicino a loro dondolava ancora rotto, mostrando edifici in rovina all’interno, ma si registravano alcuni progressi nel togliere le macerie. I parshi camminavano per le strade e pattugliavano le sezioni di mura ancora intatte. In alto si muovevano i Coalescenti, con gli strascichi dei loro lunghi vestiti. Una bandiera sventolava sulle sommità degli edifici: linee rosse su campo nero. Un simbolo sconosciuto.
«Kaladin ha detto che non erano qui per distruggere,» disse Adolin «ma per occupare.»
«Rivogliono il loro mondo» ribatté Shallan, premendo contro di lui perché voleva sentire il suo corpo contro il proprio. «Potremmo… semplicemente lasciare che abbiano quello che gli abbiamo preso?»
«No» affermò Dalinar. «Fintantoché Odio guida il nemico, cercheranno di spazzarci via da questa terra e di fare in modo che il mondo non abbia bisogno di un’altra Desolazione. Perché noi saremo scomparsi.»
I tre rimasero lì come su un precipizio che guardava sulla città. Gli umani che sgobbavano all’interno, preparandosi per una semina. I fili di fumo che si levavano dove le fortezze degli occhichiari avevano cercato di opporre resistenza all’invasione. Quelle scene tormentavano Shallan, e lei poteva solo immaginare come si sentissero Adolin e Dalinar. Avevano protetto Thaylenah, ma avevano perso la loro patria.
«C’è un traditore fra noi» continuò Dalinar piano. «Qualcuno ha attaccato il Ponte Quattro appositamente per prendere l’Onorlama, perché ne aveva bisogno per sbloccare la Giuriporta e far entrare il nemico.»
«O quello» intervenne Shallan piano «o è stata sbloccata da un Radioso che ha cambiato fazione.»
Inesplicabilmente, l’Assassino in Bianco si era unito a loro. Sedeva fuori della stanza, e sorvegliava la porta in qualità di nuova guardia del corpo di Dalinar. Aveva spiegato, francamente e senza preoccupazione, che la maggioranza dell’ordine dei Rompicielo aveva scelto di seguire Odio. Shallan non l’avrebbe ritenuto possibile, ma quello – assieme a Renarin che aveva vincolato uno spren corrotto – indicava che non potevano semplicemente fidarsi di qualcuno solo perché aveva pronunciato gli Ideali.
«Pensate» chiese Adolin «che possa essere stata opera di Taravangian?»
«No» rispose Dalinar. «Perché mai lavorerebbe con il nemico? Tutto ciò che ha fatto finora è stato per una Roshar sicura, sebbene attraverso mezzi brutali. Tuttavia devo interrogarmi. Non posso permettermi di essere troppo fiducioso. Magari è un aspetto di me che Sadeas ha cambiato.»
Lo Spinanera scosse il capo, poi guardò verso Shallan e Adolin. «A ogni modo, Alethkar ha bisogno di un re. Ora più che mai.»
«L’erede…» cominciò Adolin.
«Troppo giovane. Questo non è tempo per una reggenza. Gavinor può essere nominato tuo erede, Adolin, ma dobbiamo provvedere al vostro matrimonio e a mettere al sicuro la monarchia. Per il bene di Alethkar, ma anche del mondo.» Strinse gli occhi. «La coalizione ha bisogno di più di ciò che io posso fornire. Continuerò a guidarla, ma non sono mai stato abile nella diplomazia. Ho bisogno che sul trono ci sia qualcuno in grado di ispirare Alethkar e ottenere il rispetto dei monarchi.»
Adolin entrò in tensione e Shallan gli prese la mano, tenendola stretta. “Tu puoi essere quell’uomo, se vuoi” pensò rivolta a lui. “Ma non devi essere quello che lui ti fa diventare.”
«Preparerò la coalizione per la tua incoronazione» continuò Dalinar. «Forse il giorno prima delle nozze.» Si voltò per allontanarsi. Dalinar Kholin era una forza simile a una tempesta. Ti soffiava semplicemente addosso e presumeva che tu ti saresti sempre voluto sdraiare prima di tutto.
Adolin guardò verso Shallan, poi si fece forza e prese il padre per il braccio. «Io ho ucciso Sadeas, Padre» mormorò Adolin.
Dalinar si bloccò.
«Sono stato io» proseguì Adolin. «Ho infranto i Codici di guerra e l’ho ucciso nel corridoio. Per aver parlato contro la nostra famiglia. Per averci traditi più e più volte. L’ho fermato perché andava fatto e perché sapevo che voi non ne sareste mai stato capace.»
Dalinar si voltò, parlando in un sussurro aspro. «Cosa? Figlio, perché me l’hai tenuto nascosto?»
«Perché voi siete voi.»
Dalinar prese un respiro profondo. «Possiamo rimediare» replicò. «Possiamo provvedere a che ci sia espiazione. Nuocerà alla nostra reputazione. Tempeste, questo non è quello che mi serviva ora. Comunque sia, lo aggiusteremo.»
«È già aggiustato. Non sono dispiaciuto per ciò che ho fatto… e lo rifarei, proprio ora.»
«Ne parleremo meglio una volta che l’incoronazione…»
«Io non sarò re, Padre» affermò Adolin. Lanciò un’occhiata a Shallan e lei annuì, poi gli strinse di nuovo la mano. «Non avete sentito cos’ho appena detto? Ho infranto i Codici.»
«Tutti in questo folgorato Paese infrangono i Codici» ribatté Dalinar ad alta voce, poi si guardò alle spalle. Continuò, più piano. «Io ho infranto i Codici centinaia di volte. Non devi essere perfetto, devi compiere il tuo dovere.»
«No. Sarò altoprincipe ma non re. È solo che… Non voglio quel fardello. E prima che vi lamentiate che nessuno di noi lo vuole, io sarei anche pessimo per quel compito. Pensate che i monarchi darebbero ascolto a me?»
«Io non posso essere re di Alethkar» disse Dalinar piano. «Devo guidare i Radiosi, e devo privarmi di quel potere per allontanarmi dalla sciocchezza dell’altoré. Ad Alethkar ci serve qualcuno che non si faccia manovrare, ma che possa anche trattare con gli ambasciatori in maniera diplomatica.»
«Be’, non sono io» ripeté Adolin.
«Chi, allora?» domandò Dalinar.
Shallan inclinò la testa. «Ehi. Voi ragazzi avete mai considerato…»
Palona leggiucchiava gli ultimi rapporti con pettegolezzi provenienti da Tashikk, cercando vicende succose.
Attorno a lei nella grande sala riunioni di Urithiru, re e principi bisticciavano tra loro. Alcuni si lamentavano di non essere stati ammessi all’incontro che Dalinar stava tenendo al piano di sopra con i suoi generali. I Natan recriminavano ancora perché avrebbero dovuto avere loro il controllo della Giuriporta alle Pianure Infrante, mentre gli Azish discutevano – di nuovo – di come Dio in persona apparentemente avesse profetizzato che i Vincolaflussi avrebbero distrutto il mondo.
Tutti erano piuttosto insistenti e rumorosi, perfino quelli che non parlavano alethi. Dovevi tenere davvero tanto alle tue lamentele per aspettare perfino la traduzione.
Sebarial – Turi – russava piano accanto a Palona. Quella era una messinscena. Faceva la stessa russata finta quando lei cercava di parlargli dell’ultimo romanzo che aveva letto. Poi, quando smetteva, lui si irritava. Sembrava che gli piacesse ascoltare le storie, ma solo finché poteva sottolineare quanto erano trite e femminili.
Gli diede un colpetto e lui socchiuse un occhio mentre Palona voltava verso di lui uno dei rapporti di pettegolezzi, indicando un disegno. «Yezier ed Emul» sussurrò. «Il principe e la principessa sono stati visti assieme a Thaylen: parlavano intimamente mentre le loro guardie lavoravano alle macerie.»
Turi grugnì.
«Tutti pensano che la loro storia d’amore sia ricominciata, anche se non possono parlarne dato che ai monarchi di Azir è proibito il matrimonio senza il consenso dell’imperatore. Ma le voci si sbagliano. Io penso che lei stia corteggiando Halam Khal, lo Stratoguerriero.»
«Potresti semplicemente andare a parlarle» replicò Turi, puntando un dito pigro verso la principessa di Yezier, i cui interpreti si stavano lamentando a gran voce sui pericoli dei Vincolaflussi.
«Oh, Turi» ribatté Palona. «Non puoi semplicemente chiedere alla gente dei pettegolezzi. Ecco perché sei senza speranza.»
«E io che pensavo di esserlo a causa del mio gusto tremendo in fatto di donne.»
Le porte della stanza si spalancarono e il rumore diffuse un boato per la stanza; le lamentele tacquero. Perfino Turi si mise a sedere per notare Jasnah Kholin in piedi sulla soglia.
Indossava una corona piccola ma inconfondibile. A quanto pareva, la famiglia Kholin aveva scelto il nuovo monarca.
Turi sogghignò per gli sguardi preoccupati sulle facce di molti altri presenti nella stanza. «Oh cielo» sussurrò a Palona. «Questo sì che dovrebbe essere interessante.»
Moash calò di nuovo il piccone.
Due settimane di lavoro ed era ancora lì a togliere le macerie. Uccidi un dio. Torna al lavoro.
Be’, non gli importava. Ci sarebbero voluti mesi, forse anni, per ripulire quella città da tutte le macerie. Per ripulire l’intera Alethkar.
Per la maggior parte dei giorni di quella settimana, era l’unico a lavorare al palazzo. Lentamente la città stava diventando il contrario di quella che era stata: gli umani erano mandati via, i cantori trasferiti dentro; lui però era lasciato solo a spaccare pietre, senza nessun sorvegliante o guardia in vista.
Così fu sorpreso quando udì il rumore di un altro piccone accanto a lui. Si girò. «Khen?»
La corpulenta parshi iniziò a spaccare rocce.
«Khen, sei stata liberata dalla tua schiavitù» commentò Moash. «Il tuo assalto al palazzo ti ha guadagnato la Passione della Misericordia.»
Khen continuò a lavorare. Nam e Pal si avvicinarono, indossando la forma bellicosa: erano altri due sopravvissuti con lui durante l’assalto. Solo una manciata ce l’aveva fatta.
Sollevarono i picconi e iniziarono a spaccare rocce.
«Pal» disse Moash. «Tu…»
«Vogliono farci coltivare» lo interruppe lei. «Sono stanca di coltivare.»
«E io non sono un servitore» intervenne Khen. «Che porta da bere.» Stavano cominciando a parlare in ritmi, come cantori veri e propri.
«Perciò spaccherete rocce?» chiese Moash.
«Abbiamo udito qualcosa. Ci ha fatto venire voglia di stare vicino a te.»
Moash esitò, ma poi l’intorpidimento lo spinse a continuare a lavorare, a udire quel costante battito di metallo su pietra che gli permetteva di far scorrere il tempo.
Era passata forse un’ora quando vennero a prenderlo. Nove Coalescenti volanti, gli abiti increspati che si addensavano sotto di loro quando si posarono attorno a Moash.
«Leshwi?» chiese lui. «Antica?»
Lei teneva davanti a sé qualcosa con due mani. Un’arma lunga e snella. Una Stratolama con una curva delicata, il suo metallo quasi del tutto disadorno. Elegante, eppure in qualche modo umile, paragonata alle altre Stratolame. Moash l’aveva conosciuta come la spada dell’Assassino in Bianco. Ora la riconobbe come qualcos’altro. La Lama di Jezerezeh. Un’Onorlama.
Moash allungò la mano verso essa, esitante, e Leshwi canticchiò un ritmo di ammonimento. «Se la prendi, morirai. Moash non esisterà più.»
«Il mondo di Moash non esiste più» replicò, prendendo la Lama per l’elsa. «Tanto vale che lui lo raggiunga nella tomba.»
«Vyre» affermò la Coalescente. «Unisciti a noi in cielo. Hai un compito.» Lei e gli altri si Sferzarono verso l’alto.
“Unisciti a noi in cielo.” Graves gli aveva detto che le Onorlame davano i loro poteri a chiunque le impugnasse.
Esitante, Moash prese la sfera che gli offriva Khen. «Che ha detto? Vyre?» Lo aveva pronunciato come “vair”.
«È uno dei loro nomi» spiegò Khen. «Mi è stato detto che significa “Colui che acquieta”.»
Vyre, Colui che acquieta, assorbì la Luce della sfera.
Era dolce e bellissima e, come gli era stato promesso, portò con sé Passione. Lui vi si aggrappò, poi si Sferzò verso l’alto nel cielo.
Anche se a Shallan erano stati concessi mesi per abituarsi all’idea di sposarsi, nel giorno vero e proprio non si sentiva pronta.
Era una tale fatica e una seccatura.
Tutti avevano deciso che, dopo il matrimonio affrettato di Dalinar e Navani, avrebbero dovuto celebrare quello nel modo giusto. Così Shallan doveva starsene seduta lì ed essere ricoperta di attenzioni, agghindata, acconciata e truccata dagli artisti reali del belletto alethi. Chi sapeva che esistesse una cosa del genere?
Subì tutto ciò, poi fu depositata su un trono mentre delle scrivane si mettevano in fila per darle pile di ketek e sigilloglifi. Noura le consegnò una scatola di incenso da parte dell’imperatore di Azir, assieme a un pesce essiccato da parte di Lift. La regina Fen le aveva inviato un tappeto marati. Frutta essiccata. Profumi.
Un paio di stivali. Ka sembrò imbarazzata quando aprì la scatola e scoprì che erano un dono di Kaladin e del Ponte Quattro, ma Shallan si limitò a ridere. Fu un momento di sollievo davvero necessario nella tensione di quella giornata.
Ricevette regali da organizzazioni professionali, membri della famiglia e da ciascun altoprincipe a eccezione di Ialai, che aveva lasciato Urithiru in disgrazia. Anche se Shallan era grata, si ritrovò a cercare di scomparire nel vestito. C’erano così tante cose che non voleva, soprattutto quell’attenzione.
“Be’, stai sposando un altoprincipe alethi” pensò mentre si agitava sul trono nuziale. “Cosa ti aspettavi?” Almeno non avrebbe finito per diventare regina.
Finalmente – dopo che dei ferventi giunsero a pronunciare benedizioni, consacrazioni e preghiere – fu spostata rapidamente in una stanzetta tutta sola con un braciere, una finestra e uno specchio. Sul tavolo c’erano degli strumenti perché lei dipingesse un’ultima preghiera, così da poter meditare. Da qualche parte, Adolin stava patendo i regali da parte degli uomini. Probabilmente spade. Un sacco di spade.
La porta si chiuse e Shallan rimase a guardarsi allo specchio. L’abito color zaffiro era in uno stile antico, con maniche gemelle cascanti che le arrivavano ben oltre le mani. Piccoli rubini intessuti nel ricamo brillavano di una luce complementare. Un giacchino dorato era drappeggiato sopra le spalle, e si abbinava con il copricapo decorato intrecciato tra i capelli.
Voleva diventare piccola piccola.
«Hmmm…» disse Schema. «Questa è una buona te, Shallan.»
“Una buona me.” Espirò. Veil apparve da un lato della stanza, appoggiata pigramente alla parete. Radiosa apparve vicino al tavolo, tamburellandovi sopra con un dito; le ricordò che avrebbe davvero dovuto scrivere una preghiera, se non altro per preservare la tradizione.
«Abbiamo deciso su questo» affermò Shallan.
«Un’unione meritevole» commentò Radiosa.
«Per te va bene, suppongo» si inserì Veil. «Inoltre ne sa di vini. Poteva capitarci molto di peggio.»
«Ma non molto di meglio» obiettò Radiosa, scoccando un’occhiata tagliente a Veil. «Questo è buono, Shallan.»
«Una celebrazione» confermò Veil. «Una celebrazione di te.»
«Per me va bene godermi questo» concluse Shallan, come se stesse scoprendo qualcosa di prezioso. «Celebrare. Perfino se nel mondo accadono cose terribili, questo va bene.» Sorrise. «Io… io me lo merito.»
Veil e Radiosa scomparvero. Quando Shallan guardò di nuovo nello specchio, non si sentì più imbarazzata per le attenzioni. Andava tutto bene.
Andava bene essere felice.
Dipinse il suo sigilloglifo, ma qualcuno bussò alla porta, interrompendola mentre era sul punto di bruciarlo. Cosa? Il tempo non era scaduto.
Si voltò con un sorriso. «Avanti.» Probabilmente Adolin aveva trovato una scusa per venire a rubarle un bacio…
La porta si aprì.
Rivelando tre giovani uomini in abiti consumati. Balat, il più alto e con il volto tondo. Wikim, ancora emaciato, con la carnagione pallida quanto quella di Shallan. Jushu, più magro di come se lo ricordava ma ancora grassoccio. Tutti e tre erano in qualche modo più giovani di come se li era figurati nella testa, anche se era trascorso oltre un anno dall’ultima volta che li aveva visti.
I suoi fratelli.
Shallan urlò di felicità e si gettò verso di loro, passando attraverso uno scoppio di gioiaspren simili a petali blu. Cercò di abbracciarli tutti e tre assieme, incurante di quello che sarebbe potuto capitare al suo abito sistemato con tanta cura. «Come? Quando? Cos’è successo?»
«È stato un lungo viaggio attraverso Jah Keved» rispose Nan Balat. «Shallan… non sapevamo nulla finché non siamo stati trasportati qui attraverso quel congegno. Ti stai sposando? Con il figlio dello Spinanera?»
Aveva così tanto da raccontare. Tempeste, quelle lacrime avrebbero rovinato il suo trucco. Toccava farselo rifare da capo.
Si rese conto di essere troppo sopraffatta per parlare, per spiegare. Li strinse di nuovo forte e Wikim si lamentò perfino per quell’affetto, come faceva sempre. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta che li aveva visti e lui si lagnava comunque? Per qualche motivo, ciò la rese ancora più euforica.
Navani apparve dietro di loro, guardando sopra la spalla di Balat. «Chiederò di ritardare i festeggiamenti.»
«No!» esclamò Shallan.
No. Si sarebbe goduta tutto questo. Strinse forte i suoi fratelli, uno dopo l’altro. «Vi spiegherò tutto dopo le nozze. C’è così tanto da spiegare…»
Balat, mentre lei lo abbracciava, le porse un foglietto. «Lui ha detto di darti questo.»
«Chi?»
«Ha detto che l’avresti capito.» Balat aveva ancora quell’espressione tormentata che l’aveva sempre incupito. «Cosa sta succedendo? Come fai a conoscere persone del genere?»
Lei spiegò la lettera.
Era di Mraize.
«Luminosità,» chiese Shallan a Navani «vorreste riservare ai miei fratelli dei posti d’onore?»
«Ma certo.»
Navani condusse via i tre ragazzi, unendosi a Eylita che era stata lì ad aspettare. Tempeste! I suoi fratelli erano tornati. Erano vivi.
Un dono di nozze, diceva il messaggio di Mraize.
In pagamento per il lavoro svolto. Scoprirai che mantengo le mie promesse. Mi scuso per il ritardo.
Mi congratulo con te per le nozze imminenti, piccolo coltello. Hai agito bene. Hai fatto fuggire il Disfatto che era nella torre e, come pagamento, ti condoniamo parte del debito per la distruzione del nostro Animutante.
La tua prossima missione è ugualmente importante. Uno dei Disfatti sembra disposto a staccarsi da Odio. Il nostro bene e quello dei tuoi amici Radiosi coincidono. Troverai questo Disfatto e lo convincerai a servire i Sanguispettri. Se ciò non fosse possibile, lo catturerai e ce lo consegnerai.
Presto riceverai altri dettagli.
Shallan abbassò il messaggio, poi lo bruciò nel braciere in cui avrebbe dovuto bruciare la sua preghiera. Così Mraize sapeva di Sja-anat, eh? Sapeva che Renarin aveva accidentalmente vincolato uno dei suoi spren? Oppure era un segreto che Shallan aveva e i Sanguispettri no?
Be’, poteva preoccuparsi di lui più tardi. Oggi doveva esser presente a un matrimonio. Aprì la porta e uscì. Diretta a una celebrazione.
Di essere se stessa.
Dalinar entrò nelle sue stanze, sazio di cibo per il banchetto nuziale, lieto di poter avere infine un po’ di pace dopo i festeggiamenti. L’assassino si sedette fuori dalla sua porta ad aspettare, come stava diventando sua abitudine. Szeth era l’unica guardia del corpo che Dalinar aveva per il momento, dato che Rial e le altre erano nel Ponte Tredici, e facevano tutti da scudieri a Teft.
Dalinar sorrise tra sé, poi si diresse alla scrivania e si sedette. Una Stratolama era appesa alla parete davanti a lui. Un posto temporaneo: le avrebbe trovato una casa. Per ora, la voleva vicina. Era il momento.
Prese la penna e cominciò a scrivere.
In tre settimane aveva fatto grandi progressi, anche se si sentiva ancora incerto mentre vergava ogni lettera. Lavorò per un’ora buona prima che Navani tornasse, scivolando nelle loro stanze. Si diede da fare, aprendo la porta che dava sul balcone e lasciando entrare la luce del sole al tramonto.
Un figlio sposato. Adolin non era l’uomo che Dalinar aveva pensato che fosse… ma d’altra parte, non poteva perdonare qualcuno per quello? Intinse la penna e continuò a scrivere. Navani gli si avvicinò e gli mise le mani sulle spalle, guardando il foglio.
«Ecco» disse Dalinar porgendoglielo. «Dimmi che ne pensi. Mi sono imbattuto in un problema.»
Mentre lei leggeva, Dalinar resistette all’istinto di muoversi nervosamente. Era tremendo come il suo primo giorno con i maestri spadaccini. Navani annuì tra sé, poi gli sorrise, intingendo la penna e annotando alcuni appunti sulla pagina per spiegargli gli errori. «Qual è il problema?»
«Non so come scrivere “io”.»
«Te l’ho mostrato. Ecco, te lo sei dimenticato?» Lei scrisse alcune lettere. «No, aspetta. L’hai usato diverse volte in questo brano, perciò è evidente che sai come scriverlo.»
«Hai detto che i pronomi hanno un genere nella scrittura formale delle donne, e mi sono reso conto che quello che mi hai insegnato dice “io, come femmina”.»
Navani esitò, la penna tra le dita. «Oh. Giusto. Suppongo… Voglio dire… Uh. Non penso che esista un “io” maschile. Ah, ecco, che sciocca che sono!» Scrisse alcune lettere. «Questo è quello che usi quando scrivi una citazione di un uomo in prima persona.»
Dalinar si sfregò il mento. Molte parole nella scrittura erano le stesse della conversazione orale, ma piccole aggiunte – che non si leggevano ad alta voce – cambiavano il senso. E questo senza nemmeno contare il sottotesto, il commento nascosto di chi scriveva. Navani aveva spiegato, con un certo imbarazzo, che quello non veniva mai letto a un uomo che richiedeva una lettura.
“Abbiamo tolto le Stratolame alle donne” pensò lui, lanciando un’occhiata a quella appesa alla parete sopra la sua scrivania. “E loro ci hanno tolto le lettere. Mi domando, chi ha fatto l’affare migliore?”
«Hai pensato» domandò Navani «a come reagiranno Kadash e i ferventi al fatto che stai imparando a leggere?»
«Sono già stato scomunicato. Non c’è molto altro che possano fare.»
«Potrebbero andarsene.»
«No» rispose Dalinar. «Non penso che lo faranno. Invece credo… che potrebbe essere un modo per riavvicinarmi a Kadash. L’hai visto al matrimonio? Ha letto quello che scrissero gli antichi teologi, cercando di trovare una giustificazione per il Vorinismo moderno. Non vuole credermi, ma presto non potrà farne a meno.»
Navani sembrava scettica.
«Ecco» disse Dalinar. «Come enfatizzo una parola?»
«Questi segni qui, sopra e sotto una parola che vuoi rimarcare.»
Lui annuì in segno di ringraziamento, intinse la penna, poi riscrisse quello che aveva dato a Navani, effettuando le opportune modifiche.
Le parole più importanti che un uomo può dire sono: “Io sarò migliore”. Queste non sono le parole più importanti che qualunque uomo possa dire. Io sono un uomo, ed esse sono ciò che ho avuto bisogno di dire.
L’antico codice dei Cavalieri Radiosi recita: “Viaggio prima della destinazione”. Qualcuno potrebbe definirlo un semplice luogo comune, ma è molto di più. Un viaggio comprenderà dolore e fallimento. Non sono solo i passi in avanti che dobbiamo accettare. Sono i passi falsi. Le prove. La consapevolezza che falliremo. Che faremo del male a quelli attorno a noi.
Ma se ci fermiamo, se accettiamo la persona che siamo quando cadiamo, il viaggio termina. Quel fallimento diventa la nostra destinazione.
Amare il viaggio è accettare che non esiste una fine del genere. Ho scoperto tramite l’esperienza dolorosa che il passo più importante che una persona possa fare è sempre quello successivo.
Sono certo che alcuni si sentiranno minacciati da questa testimonianza. Altri potrebbero sentirsi liberati. Molti penseranno semplicemente che non dovrebbe nemmeno esistere.
Dovevo metterla comunque per iscritto.
Si sedette comodo, compiaciuto. Sembrava che aprendo quella porta fosse entrato in un mondo nuovo. Poteva leggere La via dei re. Ma anche la biografia di Gavilar scritta da sua nipote. E mettere per iscritto gli ordini che i suoi uomini dovevano eseguire.
Cosa più importante, poteva scrivere questo. I suoi pensieri. I suoi dolori. La sua vita. Guardò da un lato, dove Navani aveva messo la manciata di pagine bianche che le aveva chiesto di portare. Erano poche. Troppo poche.
Intinse di nuovo la penna. «Chiuderesti di nuovo le porte del balcone, cuorgemma?» le chiese. «La luce del sole mi sta distraendo dall’altra luce.»
«Altra luce?»
Lui annuì distrattamente. E poi? Guardò di nuovo quella Stratolama familiare. Ampia come lui – e dura, come la sua testa a volte –, con una forma uncinata alla fine. Era il miglior simbolo del suo onore e della sua disgrazia. Sarebbe dovuta appartenere a Roccia, il pontiere mangiacorno. Aveva ucciso Amaram e l’aveva vinta, assieme ad altri due Strati.
Roccia aveva insistito che Dalinar riprendesse Giuramento. Un debito ripagato, aveva spiegato il Corrivento. Dalinar aveva accettato con riluttanza, maneggiando la Stratolama solo con della stoffa.
Mentre Navani serrava le porte del balcone, lui chiuse gli occhi e sentì il calore di una luce distante e invisibile. Poi sorrise, e – con una mano ancora incerta come le gambe di un bambino che muoveva i primi passi – prese un’altra pagina e scrisse un titolo per il libro.
Giuramento, mia gloria e mia vergogna.
Scritto dalla mano di Dalinar Kholin.