Le tue capacità sono ammirevoli, ma sei semplicemente un uomo. Hai avuto la tua opportunità per essere qualcosa di più e l’hai rifiutata.
Dalinar entrò nella visione successiva nel bel mezzo di un combattimento.
Aveva imparato la lezione: non intendeva invischiare un’altra persona in una battaglia inattesa. Stavolta voleva trovare un punto sicuro, e solo poi farla entrare.
Ciò significava apparire come aveva fatto molti mesi prima: brandendo una spada con mani sudate, stando su una lastra di roccia spezzata e abbandonata, circondato da uomini in abiti primitivi. Indossavano fasce di fibre di lavis intrecciate rozzamente e sandali in pelle di cinghiale, e impugnavano lance con punte di bronzo. Solo l’ufficiale portava l’armatura: un semplice farsetto di cuoio, nemmeno adeguatamente indurito. Era stato trattato, poi tagliato in modo grossolano nella forma di un giustacuore. Non forniva alcun aiuto contro un’ascia in faccia.
Dalinar ruggì, ricordando d’istinto la sua prima volta in quella visione. Era stata una delle più remote, quando ancora le considerava semplici incubi. Oggi aveva intenzione di costringerla a rivelare i suoi segreti.
Caricò il nemico, un gruppo di uomini con abiti ugualmente grossolani. I compagni di Dalinar avevano indietreggiato fino all’orlo di un dirupo. Se non si fossero decisi a combattere, sarebbero stati spinti giù per un pendio ripido che terminava con uno strapiombo e un volo di cinquanta o sessanta piedi fino al fondo di una valle.
Dalinar attaccò il gruppo nemico, cercando di spingere i suoi uomini lontano dal dirupo. Indossava gli stessi vestiti degli altri, portava le loro armi, ma aveva con sé qualcosa di insolito: un borsello pieno di gemme infilato alla cintura.
Sventrò un nemico con la lancia, poi lo spinse verso gli altri: una trentina di uomini con barbe sfilacciate e occhi spenti. Due inciamparono sul loro amico morente, cosa che protesse il fianco di Dalinar per un momento. Lui afferrò l’ascia dell’uomo caduto, quindi attaccò sulla sinistra.
Il nemico resistette ululando. Quegli uomini non erano ben addestrati, ma ogni sciocco con un bordo affilato poteva risultare pericoloso. Dalinar tagliava, fendeva, menava colpi attorno a sé con l’ascia: era ben bilanciata, una buona arma. Era fiducioso di riuscire a battere quel gruppo.
Due cose andarono storte. Primo, gli altri lancieri non lo supportarono. Nessuno riempì il vuoto dietro di lui per impedire che fosse circondato.
Secondo, gli uomini selvaggi non si tirarono indietro.
Dalinar era giunto a fare affidamento sul modo in cui i soldati indietreggiavano quando lo vedevano combattere. Dipendeva dal fatto che la loro disciplina venisse meno: perfino quando non era uno Stratoguerriero, aveva contato sulla sua ferocia, sul suo semplice impeto per vincere i combattimenti.
A quanto pareva, l’impeto di un uomo – per quanto abile o determinato – serviva a ben poco quando si andava a sbattere contro un muro di pietra. I nemici di fronte a lui non si piegarono, non si fecero prendere dal panico, non tremarono nemmeno quando lui uccise quattro di loro. Gli si avventarono contro con maggior ferocia. Uno rise, perfino.
In un lampo, il suo braccio fu tranciato da un’ascia che non aveva nemmeno visto, poi fu spintonato via dall’assalto degli aggressori. Dalinar colpì il terreno stordito, guardando incredulo il moncherino del suo avambraccio sinistro. Il dolore sembrava un’entità sconnessa, distante. Solo un unico dolorespren, come una mano fatta di tendini, gli apparve accanto alle ginocchia.
Dalinar avvertiva un senso devastante e umiliante della propria mortalità. Era così che si sentiva un veterano quando infine cadeva sul campo di battaglia? Provava questa sensazione bizzarra e surreale che coniugava incredulità a rassegnazione sopita troppo a lungo?
Dalinar si fece forza, poi usò la mano sana per strappar via la cinghia di cuoio che usava come cintura. Tenendone un capo tra i denti, la avvolse attorno al moncherino del braccio appena sopra il gomito. Il taglio non stava ancora sanguinando troppo. Ci voleva un momento perché una ferita del genere sanguinasse: il corpo impediva l’emorragia all’inizio.
Tempeste. Quel colpo era stato netto. Ricordò a se stesso che non era la sua vera carne quella esposta all’aria. Che non era il suo osso quello che sembrava l’anello centrale di un grosso pezzo di maiale.
Perché non ti guarisci come hai fatto nella visione con Fen? chiese il Folgopadre. Hai la Folgoluce.
«È un imbroglio» disse Dalinar con un grugnito.
Imbroglio? obiettò il Folgopadre. Perché per la Dannazione sarebbe un imbroglio? Non hai pronunciato alcun giuramento.
Dalinar sorrise nel sentire un frammento di Dio imprecare. Si domandò se il Folgopadre stesse prendendo da lui qualche brutta abitudine. Ignorando il dolore meglio che poteva, afferrò l’ascia con la mano e barcollò in piedi. Davanti a lui, la sua squadra di dodici uomini combatteva disperatamente – e con poca efficacia – contro il frenetico assalto nemico. Erano indietreggiati fino all’orlo del dirupo. Con le formazioni rocciose che torreggiavano tutt’attorno, quel posto somigliava a un crepaccio, anche se era decisamente più aperto.
Dalinar vacillò e per poco non cadde di nuovo. Tempeste!
Guarisciti e basta, disse il Folgopadre.
«Una volta riuscivo a ignorare ferite come questa.» Si guardò il braccio mancante. Be’, forse non gravi quanto quella.
Sei vecchio, osservò il Folgopadre.
«Forse» replicò Dalinar, raddrizzandosi mentre la vista si schiariva. «Ma hanno commesso un errore.»
Ovvero?
«Hanno voltato le spalle a me.»
Dalinar caricò di nuovo, impugnando l’ascia con una mano sola. Abbatté due nemici, facendosi strada fino ai suoi uomini. «Giù!» urlò loro. «Non possiamo combatterli quassù. Slittate lungo il pendio fino a quella sporgenza laggiù! Da lì troveremo un modo per calarci!»
Saltò giù dal dirupo e continuò a muoversi mentre colpiva il pendio. Era una manovra avventata, ma tempeste, lassù non sarebbero mai sopravvissuti. Scivolò lungo la pietra, restando in piedi mentre si avvicinava alla caduta a strapiombo nella valle. Un’ultima, piccola sporgenza di pietra gli diede un posto dove barcollare fino a fermarsi.
Gli altri slittarono attorno a lui. Dalinar lasciò cadere l’ascia e afferrò un uomo, impedendogli di precipitare giù dalla sporgenza incontro al suo destino. Ne mancò altri due.
In tutto, sette uomini riuscirono a fermarsi attorno a lui. Dalinar sbuffò, sentendosi di nuovo intontito, poi guardò oltre il bordo del loro attuale ripiano. C’erano almeno cinquanta piedi fino al fondo del canalone.
I suoi compagni erano un gruppo di uomini spezzati e laceri, insanguinati e spaventati. Lì vicino comparvero faticaspren, come getti di polvere. In alto, gli uomini selvaggi si assieparono attorno al bordo, guardando in basso bramosi, come ascigugi che stessero contemplando il cibo sulla tavola del padrone.
«Tempeste!» L’uomo che Dalinar aveva salvato si accasciò. «Tempeste! Sono morti. Sono tutti morti.» Avvolse le braccia attorno a sé.
Guardandosi attorno, Dalinar contò solo un uomo a parte lui che aveva ancora la sua arma. Il laccio emostatico che aveva legato stava lasciando uscire sangue.
«Vinceremo questa guerra» disse Dalinar piano.
Gli altri lo guardarono.
«La vinceremo. Io l’ho visto. Il nostro plotone è uno degli ultimi che ancora combattono. Possiamo anche cadere, ma la guerra sarà vinta.»
In alto, una figura si unì agli uomini selvaggi: una creatura più alta di una testa rispetto agli altri, con una temibile armatura di carapace nera e rossa. I suoi occhi brillavano di un cremisi intenso.
Sì, Dalinar ricordava quella creatura. L’altra volta, in quella stessa visione, lui era stato preso per morto e lasciato lassù. La figura gli era passata accanto: lui aveva pensato che si trattasse di un mostro uscito da un incubo, rispolverato dal suo inconscio, simile agli esseri che combatteva sulle Pianure Infrante. Ora riconobbe la verità. Quello era un Nichilifero.
Ma non c’era stata nessuna Tempesta Infinita nel passato; il Folgopadre l’aveva confermato. Perciò da dove erano venute quelle creature, in quell’epoca remota?
«In formazione» ordinò Dalinar. «State pronti!»
Due degli uomini gli diedero ascolto, precipitandosi da lui. Sinceramente, due su sette era più di quanto si fosse aspettato.
La parete del dirupo tremò come se qualcosa di enorme l’avesse colpita. E poi le pietre vicino si incresparono. Dalinar sbatté le palpebre. La perdita di sangue gli stava indebolendo la vista? La parete di pietra parve scintillare e ondeggiare, come la superficie di uno stagno che fosse stata agitata.
Qualcuno afferrò il bordo della sporgenza da sotto. Una figura risplendente con indosso una Stratopiastra – ciascun pezzo chiaramente brillante di un colore ambrato ai bordi malgrado la luce del giorno – si issò sul loro costone. Era imponente, ancora più grossa di altri uomini che indossavano la Stratopiastra.
«Fuggite» ordinò lo Stratoguerriero. «Portate i vostri uomini dai guaritori.»
«Come?» chiese Dalinar. «Il dirupo…»
Dalinar sussultò. Ora nel dirupo c’erano degli appigli.
Lo Stratoguerriero premette la mano contro il pendio che saliva fino al Nichilifero e di nuovo la pietra parve distorcersi. Gradini si formarono nella roccia, come se fossero fatti di cera che poteva diventare fluida ed essere plasmata. Lo Stratoguerriero protese la mano di lato e lì apparve un martello massiccio e luccicante.
Quindi caricò verso il Nichilifero.
Dalinar tastò la roccia, che era solida al tocco. Scosse il capo, poi guidò i suoi uomini per cominciare la discesa.
L’ultimo guardò il moncherino del suo braccio. «Come ci seguirai, Malad?»
«Ce la farò» disse Dalinar. «Vai.»
L’uomo si avviò. Dalinar si sentiva sempre più intontito. Finalmente cedette e assorbì della Folgoluce.
Il suo braccio ricrebbe. Prima il taglio guarì, poi la carne si espanse verso l’esterno come una pianta che germogliava. In pochi istanti agitò le dita, meravigliato. Si era ripreso da un braccio perduto come se si trattasse di un alluce ammaccato. La Folgoluce gli schiarì la testa e lui prese un profondo respiro rinvigorito.
Da sopra giunsero i suoni dello scontro; perfino allungando il collo non riusciva a vedere granché, ma un corpo rotolò giù per il pendio, poi scivolò oltre la sporgenza.
«Quelli sono umani» constatò Dalinar.
Ovviamente.
«Non l’avevo mai realizzato prima» disse Dalinar. «C’erano uomini che combattevano per i Nichiliferi?»
Alcuni.
«E quello Stratoguerriero che ho visto? Un Araldo?»
No. Soltanto un Salvaroccia. Quel Flusso che ha cambiato la pietra è l’altro che puoi imparare, anche se per te potrebbe funzionare in modo diverso.
Un tale contrasto… I soldati normali sembravano così primitivi, ma quel Vincolaflussi…
Con una scrollata del capo, Dalinar si arrampicò giù, utilizzando gli appigli sulla parete di roccia. Notò i suoi compagni che si univano a un gruppo numeroso di soldati più giù nel canalone. Grida e urla di gioia riecheggiavano contro le pareti da quella direzione. Era come ricordava vagamente: la guerra era stata vinta. Solo sacche del nemico resistevano ancora. Il grosso dell’esercito stava cominciando a festeggiare.
«D’accordo» disse Dalinar. «Porta dentro Navani e Jasnah.» Progettava di mostrare quella visione al giovane imperatore di Azir, ma prima voleva prepararsi. «Mettile da qualche parte vicino a me, per favore. Lascia che tengano i loro vestiti.»
Lì vicino, due uomini si fermarono sul posto. Una foschia di Folgoluce brillante oscurò le loro forme e, quando scomparve, lì c’erano Navani e Jasnah, con indosso gli havah.
Dalinar corse da loro. «Benvenute nella mia follia, signore.»
Navani si girò su se stessa, allungando il collo per fissare le sommità di quelle formazioni di roccia simili alle torri di un castello. Lanciò un’occhiata verso un gruppo di soldati che passavano zoppicando, con un uomo che aiutava il suo compagno ferito e invocava la Ricrescita. «Tempeste!» sussurrò Navani. «Sembra così reale!»
«Vi avevo avvisate» disse Dalinar. «Spero solo che non sembrerete troppo ridicole nelle vostre stanze.» Anche se lui aveva maturato sufficiente familiarità con le visioni al punto che il suo corpo reale non si muoveva seguendo quello che faceva in esse, ciò non sarebbe valso per Jasnah, Navani o qualunque monarca avesse portato lì dentro.
«Cosa sta facendo quella donna?» chiese Jasnah incuriosita.
Una donna più giovane andò incontro agli uomini zoppicanti. Una Radiosa? Ne aveva l’aria, anche se non indossava l’armatura. Lo rivelava il suo atteggiamento di fiducia in sé, il modo in cui li metteva a sedere e prendeva qualcosa di luminoso dal borsello che portava alla cintura.
«Me lo ricordo» disse Dalinar. «È uno di quei congegni visti in un’altra visione che ho menzionato. Quelli che forniscono Ricrescita, come la chiamano loro. Guarigione.»
Navani sgranò gli occhi e diventò raggiante come un bambino a cui fosse appena stato dato un piatto colmo di dolciumi per la Festa di Mezzo. Diede un rapido abbraccio a Dalinar, poi si precipitò a vedere. Si fece largo fino al lato del gruppo, quindi fece cenno con impazienza alla Radiosa di continuare.
Jasnah si girò per guardare il canalone tutt’attorno. «Non conosco nessun posto nel nostro tempo che corrisponda a questa descrizione, zio. Sembrano le terre tempestose, da quelle formazioni.»
«Forse è un luogo sperduto da qualche parte nelle Colline Indipendenti?»
«O quello, oppure le formazioni di roccia sono state completamente erose.» Strinse gli occhi nel guardare un gruppo di persone che stavano arrivando per il canalone, portando acqua ai soldati. L’ultima volta, Dalinar era arrivato barcollando nel canalone appena in tempo per incontrarli e ricevere da bere.
“Hanno bisogno di te di sopra” gli aveva detto uno, indicando il pendio poco inclinato lungo il lato del canalone opposto a quello dove aveva combattuto.
«Quegli abiti» disse Jasnah piano. «Quelle armi…»
«Siamo tornati ai tempi antichi.»
«Sì, zio» confermò Jasnah. «Ma non mi avevate detto che questa visione giunge alla fine delle Desolazioni?»
«Da quello che ne ricordo, sì.»
«Perciò la visione con l’Essenza di Tenebra è avvenuta prima di questa, cronologicamente. Eppure in quella avete visto acciaio, o almeno ferro. Ricordate l’attizzatoio?»
«Non me lo dimentico di certo.» Si sfregò il mento. «Ferro e acciaio allora, ma qui gli uomini brandiscono armi grezze, di rame e bronzo. Come se non sapessero Animutare il ferro, o almeno forgiarlo come si deve, malgrado sia un’epoca successiva. Questo sì che è strano.»
«È la conferma di ciò che ci è stato detto ma a cui non avevo mai potuto credere del tutto. Le Desolazioni sono state tanto terribili da annientare l’apprendimento e il progresso, lasciandosi dietro un popolo a pezzi.»
«Gli ordini dei Radiosi avrebbero dovuto impedirlo» osservò Dalinar. «L’ho appreso in un’altra visione.»
«Sì, l’ho letta. Le ho lette tutte, in effetti.» Allora lei lo guardò e sorrise.
La gente era sempre sorpresa di vedere Jasnah manifestare emozioni, ma Dalinar non era d’accordo. Lei sorrideva… semplicemente riservava quell’espressione a quando era più genuina.
«Grazie, zio» disse. «Avete fatto un grande regalo al mondo. Un uomo può essere intrepido nell’affrontare cento nemici, ma entrare in queste visioni – e registrarle invece di nasconderle – è stato un atto di coraggio su un livello completamente differente.»
«Era semplice testardaggine. Rifiutavo di credere di essere pazzo.»
«Allora benedico la vostra testardaggine, zio.» Jasnah increspò le labbra in un’espressione pensierosa, poi continuò più piano. «Sono preoccupata per voi, zio. Per quello che la gente va dicendo.»
«Intendi la mia eresia?» chiese Dalinar.
«Sono meno preoccupata dell’eresia stessa che di come state affrontando le reazioni negative.»
Davanti a loro, Navani in qualche modo era riuscita a costringere la Radiosa a mostrarle il fabrial. La giornata stava procedendo verso il tardo pomeriggio e nel canalone si allungavano le ombre. Ma si trattava di una visione lunga e Dalinar era lieto di attendere Navani. Si accomodò su una roccia.
«Io non nego Dio, Jasnah» disse. «Credo semplicemente che l’essere che chiamiamo Onnipotente non sia mai stato realmente Dio.»
«Che è la risoluzione più saggia, considerati i resoconti delle vostre visioni.» Jasnah si sedette accanto a lui.
«Devi essere felice di sentirmelo dire» replicò lui.
«Sono felice di avere qualcuno con cui parlare, e di vedervi imbarcato in un viaggio di scoperta. Ma mi rallegro che soffriate? Che siate costretto ad abbandonare qualcosa che avete a cuore?» Scosse il capo. «A me non importa se le persone credono in qualcosa che per loro funziona, zio. Nessuno sembra mai comprenderlo: io non ho alcun interesse nelle loro credenze. Non ho bisogno di compagnia per essere sicura di me.»
«Come lo sopporti, Jasnah?» chiese Dalinar. «Le cose che la gente dice di te? Io vedo le menzogne nei loro occhi prima che parlino. O mi riferiranno con estrema sincerità cose che gira voce io abbia detto, anche se io le nego. Rifiutano la mia stessa parola contro le dicerie su di me!»
Jasnah guardò dall’altra parte del canalone. Altri uomini si stavano radunando all’estremità opposta, un gruppo debole e spossato che scopriva solo in quel momento di essere vincitore in quella contesa. Una grossa colonna di fumo si levò in lontananza, anche se Dalinar non riusciva a individuarne la fonte.
«Vorrei avere risposte, zio» disse Jasnah piano. «Combattere ti rende forte, ma anche insensibile. Temo di aver imparato troppo della seconda realtà e non abbastanza della prima. Ma posso darvi un avvertimento.»
Dalinar guardò verso di lei, sollevando le sopracciglia.
«Cercheranno» continuò Jasnah «di definirvi secondo qualcosa che non siete. Non glielo permettete. Io posso essere una studiosa, una donna, una storica, una Radiosa. La gente cercherà comunque di classificarmi secondo la caratteristica che mi rende un’estranea. Ironia della sorte, vogliono che la cosa che non faccio o in cui non credo sia ciò che più contrassegna la mia identità. L’ho sempre rifiutato e continuerò a farlo.»
Allungò la manofranca per posargliela sul braccio. «Voi non siete un eretico, Dalinar Kholin. Siete un re, un Radioso e un padre. Siete un uomo con credenze complicate, che non accetta tutto ciò che gli viene detto. Voi decidete come essere qualificato. Non cedetegli questo privilegio. Se glielo permettete, loro saranno felici di cogliere l’opportunità di definirvi.»
Dalinar annuì lentamente.
«A ogni modo» concluse Jasnah alzandosi in piedi. «Probabilmente questa non è l’occasione migliore per una conversazione del genere. Mi rendo conto che possiamo ripetere questa visione a volontà, ma il numero di tempeste in cui potremo farlo sarà limitato. Dovrei esplorare.»
«L’ultima volta sono andato da quella parte» disse Dalinar indicando su per il pendio. «Vorrei rivedere quello che ho visto.»
«Eccellente. Faremo meglio a dividerci per coprire più terreno. Io mi muoverò nell’altra direzione, poi possiamo incontrarci e confrontare gli appunti.» Si avviò giù per il pendio verso il raduno di uomini più numeroso.
Dalinar si alzò in piedi e si stiracchiò; gli sforzi di prima gravavano ancora su di lui. Poco tempo dopo, Navani tornò borbottando sottovoce spiegazioni di ciò che aveva visto. Teshav sedeva con lei nel mondo della veglia, e Kalami con Jasnah, registrando quello che dicevano: era l’unico modo per prendere appunti durante le visioni.
Navani lo prese sottobraccio e seguì con lo sguardo Jasnah, un sorriso affettuoso sulle labbra. No, nessuno avrebbe ritenuto Jasnah priva di emozioni se avesse assistito a quella commovente riunione tra madre e figlia.
«Come sei riuscita a fare da madre a una persona del genere?» chiese Dalinar.
«Perlopiù senza lasciarle capire che le stavo facendo da madre» rispose Navani. Lo tirò vicino a sé. «Quel fabrial è meraviglioso, Dalinar. È come un Animutante.»
«In che senso?»
«Nel senso che non ho idea di come funzioni! Penso… che ci sia qualcosa di sbagliato nel modo in cui abbiamo considerato gli antichi fabrial.» Lui la guardò e lei scosse il capo. «Non riesco ancora a spiegarlo.»
«Navani…» la spronò lui.
«No» disse lei con ostinazione. «Devo presentare le mie idee alle studiose, vedere se quello che sto pensando ha un qualche senso e poi preparare un rapporto. E questo è quanto, Dalinar Kholin. Perciò sii paziente.»
«Probabilmente non capirò comunque la metà di quello che dirai» borbottò lui.
Dalinar non li fece avviare immediatamente nella direzione in cui era andato prima. L’ultima volta era stato sollecitato da qualcuno nella visione. Stavolta avrebbe agito in modo diverso. Sarebbe giunta comunque la stessa imbeccata?
Dovette attendere solo poco tempo prima che un ufficiale arrivasse di corsa da loro.
«Ehi tu» disse l’uomo. «Malad-figlio-Zent, non è questo il tuo nome? Sei promosso a sergente. Dirigiti al campo base tre.» Indicò su per il pendio. «Sopra quell’altura lassù e poi giù dall’altra parte. In marcia!» Riservò un’occhiata accigliata a Navani – ai suoi occhi, quei due non sarebbero dovuti stare in una posa tanto familiare –, ma poi si allontanò senza aggiungere altro.
Dalinar sorrise.
«Cosa?» domandò Navani.
«Queste sono esperienze prefissate che Onore voleva che avessi. Anche se in esse c’è libertà, sospetto che la stessa informazione verrà trasmessa a prescindere da quello che faccio.»
«Dunque vuoi disobbedire?»
Dalinar scosse il capo. «Ci sono certe cose che ho bisogno di rivedere: ora che capisco che questa visione è accurata, so quali domande è meglio fare.»
Si avviarono su per il pendio di roccia liscia, camminando sottobraccio. Dalinar avvertì emozioni inattese cominciare ad agitarsi dentro di lui, in parte a causa delle parole di Jasnah. Ma era qualcosa di più profondo: traboccava gratitudine, sollievo, perfino amore.
«Dalinar?» chiese Navani. «Stai bene?»
«Sto solo… pensando» disse lui, cercando di mantenere la voce impassibile. «Sangue dei miei padri… è passato quasi metà anno, vero?, da quando tutto questo è cominciato? Per tutto questo tempo sono venuto nelle visioni da solo. È davvero bello poterne condividere il peso, Navani. Essere in grado di mostrarti questo e sapere per una volta – in modo assoluto e totale – che ciò che vedo non è soltanto nella mia mente.»
Lei lo tirò di nuovo a sé, camminando con la testa sulla sua spalla. Era molto più affettuosa in pubblico di quanto il decoro alethi avrebbe permesso, ma non avevano gettato dalla finestra quelle tradizioni tempo fa? Inoltre, non c’era nessuno che potesse vederli… nessuno di reale, almeno.
Sormontarono il pendio, poi superarono diverse chiazze annerite. Cosa poteva bruciare la roccia a quel modo? Altre parti sembravano essere state rotte da un peso insostenibile, mentre in altre ancora si trovavano squarci dalla forma strana. Navani li fece fermare accanto a una formazione particolare, alta solo fino al ginocchio, dove la roccia si increspava in uno strano, piccolo schema simmetrico. Sembrava un liquido, congelato mentre scorreva.
Urla di dolore riecheggiarono per i canaloni e lungo la pianura di roccia aperta. Guardando oltre il costone, Dalinar trovò il campo di battaglia principale. Un’estensione di cadaveri a perdita d’occhio. A migliaia, alcuni in cataste. Altri erano stati maciullati a cumuli mentre erano premuti contro pareti di pietra.
«Folgopadre?» disse Dalinar, rivolgendosi allo spren. «Questo è proprio quello di cui ho parlato a Jasnah, vero? Aharietiam. L’Ultima Desolazione.»
È così che era chiamata.
«Includi Navani nelle tue risposte» richiese Dalinar.
DI NUOVO MI DAI ORDINI. NON DOVRESTI FARLO. La voce tuonò nell’aria aperta e Navani sobbalzò.
«Aharietiam» disse Dalinar. «È così che canzoni e dipinti descrivono la sconfitta finale dei Nichiliferi. In essi, scoppia sempre qualche enorme conflitto, con mostri terrificanti che si scontrano con file di soldati coraggiosi.»
GLI UOMINI MENTONO NELLA LORO POESIA. DI CERTO LO SAPETE.
«È solo che… sembra così simile a qualunque altro campo di battaglia.»
E QUELLA ROCCIA DIETRO DI VOI?
Dalinar si voltò verso di essa e rimase a bocca aperta, rendendosi conto che quello che aveva scambiato per un macigno era in realtà una gigantesca faccia scheletrica. Una pila di detriti accanto a cui erano passati era in effetti una di quelle cose che aveva visto in una visione differente. Un mostro di pietra spuntato squarciando il terreno.
Navani vi si avvicinò. «Dove sono i parshi?»
«Prima ho combattuto contro degli umani» disse Dalinar.
SONO STATI RECLUTATI DALL’ALTRA FAZIONE, disse il Folgopadre. PENSO.
«Tu pensi?» domandò Dalinar.
IN QUESTI GIORNI, ONORE VIVEVA ANCORA. IO NON ERO ANCORA PIENAMENTE ME STESSO. ERO PIÙ SIMILE A UNA TEMPESTA. MENO INTERESSATO AGLI UOMINI. LA SUA MORTE MI CAMBIÒ. IL MIO RICORDO DI QUEL PERIODO È DIFFICILE DA SPIEGARE. MA SE VOLETE VEDERE DEI PARSHI, VI BASTA GUARDARE IN QUEL CAMPO.
Navani si unì a Dalinar sul costone, facendo spaziare lo sguardo sulla piana di corpi sottostante. «Quali sono?»
NON RIESCI A DISTINGUERLI?
«Non da questa distanza.»
FORSE METÀ DI QUELLI SONO CIÒ CHE VOI CHIAMERESTE PARSHI.
Dalinar strinse gli occhi, ma ancora non riusciva a distinguere quali fossero umani e quali no. Condusse Navani giù dalla sporgenza, poi lungo una pianura. Lì i cadaveri si mescolavano. Uomini nei loro abiti primitivi. Corpi di parshi che colavano sangue arancione. Era un avvertimento che avrebbe dovuto riconoscere, ma non era stato in grado di mettere assieme i pezzi la prima volta che aveva assistito a quella visione. Aveva pensato che fosse un incubo del loro scontro sulle Pianure Infrante.
Sapeva quale sentiero prendere: uno che condusse lui e Navani oltre il campo di cadaveri, poi in un recesso ombreggiato sotto un’alta guglia di roccia. La luce lì era stata catturata dalle pietre, cosa che lo aveva affascinato. Prima aveva pensato di essere capitato in quel posto per caso, ma in verità l’intera visione lo aveva indirizzato verso quel momento.
Lì trovarono nove Stratolame conficcate nella roccia. Abbandonate. Navani si portò alla bocca la manosalva guantata a quella vista: nove Lame bellissime, ognuna di esse un tesoro, lasciate semplicemente lì? Perché e come?
Dalinar passò attraverso le ombre, girando attorno alle nove Lame. Era un’altra immagine che aveva frainteso quando aveva vissuto quella visione la prima volta. Quelle non erano semplici Stratolame.
«Occhi di Ash…» disse Navani indicando. «La riconosco, Dalinar. È quella…»
«Quella che uccise Gavilar» confermò Dalinar, fermandosi accanto alla Lama più semplice, lunga e sottile. «L’arma dell’Assassino in Bianco. È un’Onorlama. Lo sono tutte.»
«Questo è il giorno in cui gli Araldi fecero la loro ultima ascensione alle Sale della Tranquillità!» disse Navani. «Per guidare la battaglia lì.»
Dalinar si voltò da un lato, dove vedeva l’aria scintillare. Il Folgopadre.
«Solo che…» continuò Navani. «Questa non fu realmente la fine. Perché il nemico tornò.» Girò attorno all’anello di spade, poi si fermò presso un posto vuoto nel cerchio. «Dov’è la decima Lama?»
«Le storie si sbagliano, non è così?» chiese Dalinar al Folgopadre. «Noi non sconfiggemmo il nemico per sempre, come affermavano gli Araldi. Hanno mentito.»
La testa di Navani scattò all’insù, i suoi occhi concentrati su Dalinar.
LI HO INCOLPATI A LUNGO, disse il Folgopadre, PER LA LORO MANCANZA DI ONORE. È… DIFFICILE PER ME IGNORARE GIURAMENTI INFRANTI. IO LI ODIAVO. ORA, QUANTO PIÙ ARRIVO A CONOSCERE GLI UOMINI, TANTO PIÙ VEDO ONORE IN QUELLE POVERE CREATURE CHE VOI CHIAMATE ARALDI.
«Dimmi cosa accadde» lo spronò Dalinar. «Che successe davvero?»
SIETE PRONTI PER QUESTA STORIA? CI SONO PARTI CHE NON VI PIACERANNO.
«Se ho accettato che Dio è morto, posso accettare la caduta dei suoi Araldi.»
Navani si accomodò su una pietra vicina, il volto pallido.
INCOMINCIÒ CON LE CREATURE CHE ORA CHIAMATE NICHILIFERI, disse il Folgopadre con voce bassa e tonante, lontana. Introspettiva? COME HO DETTO, LA MIA VISIONE DI TALI EVENTI È DISTORTA. RICORDO CHE UNA VOLTA, MOLTO PRIMA DEL GIORNO CHE STATE VEDENDO ORA, C’ERANO MOLTISSIME ANIME DI CREATURE CHE ERANO STATE UCCISE, ARRABBIATE E TERRIBILI. A LORO FU DATO GRANDE POTERE DAL NEMICO, QUELLO CHIAMATO ODIO. FU L’INIZIO, IL PRINCIPIO DELLE DESOLAZIONI.
POICHÉ QUANDO QUESTE MORIVANO, SI RIFIUTAVANO DI PASSARE OLTRE.
«Ecco cosa sta accadendo ora» disse Dalinar. «I parshi vengono trasformati da quelle cose nella Tempesta Infinita. E quelle cose…» Deglutì. «Le anime dei loro morti?»
SONO GLI SPREN DI PARSHI MORTI DA TEMPO. SONO I LORO RE, I LORO OCCHICHIARI, I LORO SOLDATI VALOROSI DI MOLTO, MOLTISSIMO TEMPO FA. QUEL PROCESSO NON È FACILE PER LORO. ALCUNI DI QUESTI SPREN ORA SONO SEMPLICI FORZE, BESTIALI, BRANDELLI DI MENTI A CUI VIENE DATO POTERE DA ODIO. ALTRI SONO PIÙ… SVEGLI. OGNI RINASCITA DANNEGGIA ULTERIORMENTE LE LORO MENTI.
RINASCONO USANDO I CORPI DEI PARSHI PER DIVENTARE I COALESCENTI. E PERFINO PRIMA CHE I COALESCENTI APPRENDESSERO A COMANDARE I FLUSSI, GLI UOMINI NON POTEVANO COMBATTERLI. GLI UMANI NON SAREBBERO MAI RIUSCITI A VINCERE FINCHÉ LE CREATURE CHE ELIMINAVANO FOSSERO RINATE OGNI VOLTA CHE VENIVANO UCCISE. E COSÌ, IL GIURIPATTO.
«Dieci persone» disse Dalinar. «Cinque maschi, cinque femmine.» Guardò le spade. «Fermarono tutto questo?»
RINUNCIARONO A SE STESSI. COME ODIO È SIGILLATO DAI POTERI DI ONORE E COLTIVAZIONE, I VOSTRI ARALDI SIGILLARONO GLI SPREN DEI MORTI NEL LUOGO CHE VOI CHIAMATE DANNAZIONE. GLI ARALDI ANDARONO DA ONORE E LUI DIEDE LORO QUESTO DIRITTO, QUESTO GIURAMENTO. PENSAVANO CHE AVREBBE POSTO FINE ALLA GUERRA PER SEMPRE. MA SI SBAGLIAVANO. ONORE SI SBAGLIAVA.
«Lui stesso era come uno spren» disse Dalinar. «Me l’hai rivelato in precedenza… anche Odio.»
ONORE LASCIÒ CHE IL POTERE LO RENDESSE CIECO ALLA VERITÀ: CHE MENTRE GLI SPREN E GLI DÈI NON POSSONO ROMPERE I LORO GIURAMENTI, GLI UOMINI POSSONO E LO FANNO. I DIECI ARALDI FURONO SIGILLATI NELLA DANNAZIONE, INTRAPPOLANDO LÌ I NICHILIFERI. COMUNQUE, SE UNO QUALUNQUE DEI DIECI AVESSE ACCONSENTITO A PIEGARE IL PROPRIO GIURAMENTO E LASCIAR PASSARE I NICHILIFERI, CIÒ AVREBBE SCATENATO UNA PIENA. TUTTI SAREBBERO POTUTI TORNARE.
«E ciò diede inizio a una Desolazione» disse Dalinar.
CIÒ DIEDE INIZIO A UNA DESOLAZIONE, confermò il Folgopadre.
Un giuramento che poteva essere piegato, un patto che poteva essere indebolito. Dalinar riusciva a capire cos’era successo. Sembrava così evidente. «Furono torturati, giusto?»
IN MODO ORRIBILE, DAGLI SPIRITI CHE AVEVANO INTRAPPOLATO. POTEVANO CONDIVIDERE IL DOLORE GRAZIE AL LORO LEGAME… MA PRIMA O POI QUALCUNO CEDEVA SEMPRE.
NON APPENA UNO CEDEVA, TUTTI E DIECI GLI ARALDI RITORNAVANO A ROSHAR. COMBATTEVANO. CAPEGGIAVANO UOMINI. IL LORO GIURIPATTO FACEVA SÌ CHE IL RITORNO DEI COALESCENTI NON FOSSE IMMEDIATO, MA OGNI VOLTA, DOPO UNA DESOLAZIONE, GLI ARALDI TORNAVANO ALLA DANNAZIONE PER SIGILLARE DI NUOVO IL NEMICO. PER NASCONDERSI, COMBATTERE E INFINE RESISTERE ASSIEME.
IL CICLO SI RIPETEVA. ALL’INIZIO LA TREGUA TRA LE DESOLAZIONI ERA LUNGA. CENTINAIA D’ANNI. VERSO LA FINE, LE DESOLAZIONI GIUNSERO A DISTANZA DI MENO DI DIECI ANNI. TRASCORSE MENO DI UN ANNO TRA LE ULTIME DUE. LE ANIME DEGLI ARALDI SI SONO CONSUMATE. SI SPEZZAVANO QUASI SUBITO, NON APPENA VENIVANO PRESI E TORTURATI NELLA DANNAZIONE.
«Il che spiega perché le cose appaiano così gravi stavolta» sussurrò Navani dal suo posto. «La società aveva patito Desolazione dopo Desolazione, separate da brevi intervalli. Cultura, tecnologia… tutto distrutto.»
Dalinar si inginocchiò e le accarezzò la spalla.
«Non è così grave come temevo» disse lei. «Gli Araldi erano davvero onorevoli. Forse non divini, ma posso perfino apprezzarli di più, sapendo che un tempo erano solo uomini e donne normali.»
ERANO PERSONE SPEZZATE, disse il Folgopadre. MA POSSO COMINCIARE A PERDONARE LORO E I LORO GIURAMENTI INFRANTI. ADESSO PER ME HA… SENSO COME MAI PRIMA D’ORA. Sembrava sorpreso.
«I Nichiliferi che fecero questo» disse Navani «sono quelli che stanno tornando ora. Di nuovo.»
I COALESCENTI, LE ANIME DEI MORTI DI TANTO TEMPO FA, VI DISPREZZANO. LORO NON SONO RAZIONALI. SONO STATI PERMEATI DALLA SUA ESSENZA, L’ESSENZA DEL PURO ODIO. VOGLIONO VEDERE QUESTO MONDO DISTRUTTO PER DEBELLARE L’UMANITÀ. E SÌ, SONO TORNATI.
«Aharietiam» disse Dalinar «non era davvero la fine. Era solo un’altra Desolazione. Tranne che qualcosa cambiò per gli Araldi. Abbandonarono le loro spade?»
DOPO CIASCUNA DESOLAZIONE, GLI ARALDI TORNAVANO ALLA DANNAZIONE, disse il Folgopadre. SE MORIVANO COMBATTENDO, ANDAVANO LÌ AUTOMATICAMENTE. E QUELLI CHE SOPRAVVIVEVANO ALLA FINE VI TORNAVANO DI LORO SPONTANEA VOLONTÀ. ERANO STATI AVVISATI CHE, SE QUALCUNO SI FOSSE ATTARDATO, CIÒ AVREBBE CONDOTTO AL DISASTRO. INOLTRE AVEVANO BISOGNO DI STARE ASSIEME, NELLA DANNAZIONE, PER CONDIVIDERE IL FARDELLO DELLA TORTURA SE UNO FOSSE STATO CATTURATO. MA QUELLA VOLTA ACCADDE QUALCOSA DI STRANO. PER CODARDIA O PER FORTUNA, EVITARONO LA MORTE. NESSUNO FU UCCISO IN BATTAGLIA… TRANNE UNO.
Dalinar guardò verso il posto vuoto nell’anello.
I NOVE SI RESERO CONTO, disse il Folgopadre, CHE UNO DI LORO NON SI ERA MAI SPEZZATO. CIASCUNO DEGLI ALTRI, A UN CERTO PUNTO, ERA STATO QUELLO CHE AVEVA CEDUTO, CHE AVEVA DATO INIZIO ALLA DESOLAZIONE PER SFUGGIRE AL DOLORE. STABILIRONO CHE FORSE NON ERA NECESSARIO CHE TUTTI TORNASSERO.
DECISERO DI STARE QUI, RISCHIANDO UNA DESOLAZIONE ETERNA, MA NELLA SPERANZA CHE QUELLO CHE AVEVANO LASCIATO NELLA DANNAZIONE DA SOLO SAREBBE BASTATO A TENERE TUTTO QUANTO ASSIEME. QUELLO CHE NON SI SAREBBE DOVUTO UNIRE A LORO FIN DALL’INIZIO, QUELLO CHE NON ERA UN RE, UNO STUDIOSO O UN GENERALE.
«Talenelat» disse Dalinar.
IL PORTATORE DI SOFFERENZE. COLUI CHE FU ABBANDONATO NELLA DANNAZIONE. LASCIATO A SUBIRE LE TORTURE DA SOLO.
«Per l’Onnipotente» sussurrò Navani. «Quanto tempo è passato? Oltre mille anni, giusto?»
QUATTROMILA ANNI E MEZZO, disse il Folgopadre. QUATTRO MILLENNI E MEZZO DI TORTURA.
Il silenzio si posò sulla piccola alcova, che era adornata da Lame argentee e ombre sempre più lunghe. Dalinar, sentendosi debole, si sedette sul terreno accanto alla roccia di Navani. Fissò quelle Lame e provò un odio improvviso e irrazionale per gli Araldi.
Era sciocco. Come Navani aveva detto, erano davvero eroi. Avevano risparmiato all’umanità gli attacchi per lunghi periodi di tempo, pagando con la loro sanità mentale. Tuttavia, lui li odiava. Per l’uomo che avevano lasciato indietro.
L’uomo…
Dalinar balzò in piedi. «È lui!» urlò. «Il pazzo. È davvero un Araldo.»
ALLA FINE SI SPEZZÒ, disse il Folgopadre. SI È UNITO AI NOVE, CHE VIVONO ANCORA. IN QUESTI MILLENNI, NESSUNO È MAI MORTO E TORNATO ALLA DANNAZIONE, MA NON HA PIÙ IMPORTANZA COME UN TEMPO. IL GIURIPATTO SI È INDEBOLITO QUASI FINO ALL’ANNULLAMENTO E ODIO HA CREATO LA PROPRIA TEMPESTA. I COALESCENTI NON TORNANO ALLA DANNAZIONE QUANDO VENGONO UCCISI. RINASCONO NELLA TEMPESTA INFINITA SUCCESSIVA.
Tempeste! Come potevano sconfiggere tutto ciò? Dalinar guardò di nuovo quel posto vuoto tra le spade. «Il pazzo, l’Araldo, è venuto a Kholinar con una Stratolama. Non avrebbe dovuto essere la sua Onorlama?»
SÌ. MA NON È QUELLA CHE È STATA CONSEGNATA A TE. NON SO COSA SIA SUCCESSO.
«Ho bisogno di parlare con lui. Era… era al monastero quando ci siamo messi in marcia. Giusto?» Dalinar doveva chiederlo ai ferventi, per scoprire chi aveva fatto scappare il pazzo.
«È questo che ha provocato la ribellione dei Radiosi?» chiese Navani. «Furono questi segreti a scatenare la Ritrattazione?»
NO. QUELLO È UN SEGRETO PIÙ PROFONDO, UNO CHE NON RIVELERÒ.
«Perché?» domandò Dalinar.
PERCHÉ SE TU LO CONOSCESSI, ABBANDONERESTI I TUOI GIURAMENTI COME FECERO GLI ANTICHI RADIOSI.
«Non lo farei.»
NON LO FARESTI? domandò il Folgopadre, la sua voce più fragorosa. LO GIURERESTI? GIURERESTI SU QUALCOSA DI IGNOTO? QUESTI ARALDI GIURARONO CHE AVREBBERO TENUTO A BADA I NICHILIFERI, E COSA SUCCESSE A LORO?
NON ESISTE UN UOMO AL MONDO CHE NON ABBIA INFRANTO UN GIURAMENTO, DALINAR KHOLIN. I TUOI NUOVI RADIOSI TENGONO NELLE LORO MANI LE ANIME E LE VITE DEI MIEI FIGLI. NO. NON LASCERÒ CHE FACCIATE COME I VOSTRI PREDECESSORI. CONOSCI LE PARTI IMPORTANTI. IL RESTO È IRRILEVANTE.
Dalinar prese un respiro profondo, ma tenne a freno la sua rabbia. In un certo senso, il Folgopadre aveva ragione. Non poteva sapere come questo segreto avrebbe influenzato lui o i suoi Radiosi.
Comunque avrebbe preferito conoscerlo. Si sentiva come se stesse andando in giro seguito da un boia, che progettava di togliergli la vita in qualunque momento.
Sospirò quando Navani si alzò e andò da lui, prendendogli il braccio. «Dovrò provare a fare dei disegni a memoria di ciascuna di quelle Onorlame… o, meglio ancora, mandare Shallan a farli. Forse possiamo utilizzare i disegni per localizzare le altre.»
Un’ombra si mosse all’ingresso di quella piccola alcova e un attimo dopo un giovane entrò precipitosamente. Aveva la carnagione pallida, con strani occhi grandi da Shin e capelli castani un po’ arricciati. Poteva essere uno qualunque di tutti gli uomini shin che Dalinar aveva visto nella propria epoca: erano ancora diversi a livello etnico, malgrado fossero passati millenni.
L’uomo cadde in ginocchio davanti alla meraviglia delle Onorlame abbandonate. Ma un attimo dopo guardò Dalinar e parlò con la voce dell’Onnipotente. «Uniscili.»
«Non c’era nulla che potevi fare per gli Araldi?» chiese Dalinar. «Non c’era nulla che il loro Dio potesse fare per impedire tutto questo?»
L’Onnipotente, naturalmente, non poteva rispondere. Era morto combattendo la cosa che affrontavano, la forza nota come Odio. In un certo senso, aveva dato la propria vita per la stessa causa degli Araldi.
La visione sbiadì.