In questa cronaca, non tralascerò nulla. Non eviterò argomenti difficili, né mi rappresenterò sotto una falsa luce eroica.
Da Giuramento, prefazione
Kaladin si muoveva furtivo tra le piogge, procedendo di soppiatto sulle rocce in una divisa zuppa fino a quando non riuscì a sbirciare i Nichiliferi attraverso gli alberi. Terrori mostruosi da un passato mitologico, nemici di tutto ciò che era buono e giusto. Distruttori che avevano portato la devastazione alla civiltà innumerevoli volte. E ora giocavano a carte.
“Per gli abissi della Dannazione, ma cosa…?” pensò Kaladin. I Nichiliferi avevano messo un’unica sentinella, ma quella creatura se ne stava semplicemente seduta sul ceppo di un albero, facile da evitare. Kaladin aveva ipotizzato che fosse un’esca e immaginava che avrebbe trovato la vera guardia appostata sulle cime degli alberi.
Ma se c’erano sentinelle nascoste, non era riuscito a individuarle, e loro allo stesso modo non avevano notato lui. La luce fioca giocò a suo vantaggio e riuscì a sistemarsi tra alcuni cespugli proprio ai margini dell’accampamento dei Nichiliferi. Avevano teso tra gli alberi dei teli, da cui la pioggia filtrava copiosamente. In un punto avevano montato una tenda vera e propria, tutta chiusa da pareti che gli impedivano di vedere cosa c’era all’interno.
Non c’era riparo sufficiente, perciò molti sedevano fuori nella pioggia. Kaladin trascorse alcuni minuti angosciosi aspettandosi di essere individuato. Bastava che notassero che quei cespugli avevano ritratto le foglie quando li aveva toccati.
Per fortuna nessuno guardò. Le foglie spuntarono di nuovo timidamente, nascondendolo. Syl gli atterrò sul braccio, le mani sulle anche mentre esaminava i Nichiliferi. Uno di loro aveva un mazzo di carte di legno herdaziane e sedeva al bordo dell’accampamento – proprio davanti a Kaladin – usando una superficie piatta di roccia come tavolo. Di fronte a lui sedeva una femmina.
Sembravano diversi da quello che si aspettava. Tanto per cominciare, la loro pelle era di una tonalità differente: molti parshi lì ad Alethkar avevano la pelle marmorizzata bianca e rossa, invece del rosso intenso su nero come Rlain del Ponte Quattro. Non indossavano la forma bellicosa né qualche altra forma terribile e potente. Anche se erano tozzi e corpulenti, il loro unico carapace correva lungo i lati degli avambracci e spuntava dalle tempie, lasciandoli con teste piene di capelli.
Indossavano ancora i loro semplici grembiuli da schiavo, legati con lacci alla vita. Niente occhi rossi. Forse erano cambiati, così come era successo ai suoi?
Il maschio – distinguibile per una barba rosso scuro di cui ciascun pelo era spesso in maniera innaturale – finalmente mise una carta sulla pietra accanto a diverse altre.
«Puoi farlo?» chiese la femmina.
«Credo di sì.»
«Hai detto che gli scudieri non possono catturare.»
«A meno che un’altra mia carta non stia toccando le tue» disse il maschio. «O no?»
Kaladin sentì freddo, come se la pioggia gli avesse penetrato la pelle, fosse entrata nel sangue e ora stesse scorrendo in lui. Parlavano come Alethi. Nessuna traccia di accento. Con gli occhi chiusi, non sarebbe stato in grado di distinguere le voci che udiva da quelle di semplici abitanti occhiscuri di Hearthstone, tranne per il fatto che la femmina aveva una voce più profonda della maggior parte delle donne umane.
«Perciò…» disse la femmina. «Stai ammettendo che non sai affatto come si gioca.»
Il maschio cominciò a riprendere le carte. «Dovrei saperlo, Khen. Quante volte li ho osservati giocare? Lì in piedi con il mio vassoio di bevande. Dovrei essere un esperto in questo, giusto?»
«A quanto pare no.»
La femmina si alzò e si diresse da un altro gruppo che cercava, senza molto successo, di accendere un fuoco sotto un telone. Ci voleva un tipo speciale di fortuna per far attecchire le fiamme all’esterno durante il Pianto. Kaladin, come molti membri dell’esercito, aveva imparato a convivere con l’umidità costante.
Avevano i sacchi di grano rubati: Kaladin riusciva a vederli sotto uno dei teli. Il grano si era gonfiato, rompendo diversi sacchi. Parecchi ne stavano mangiando manciate fradicie, dal momento che non avevano ciotole.
Kaladin desiderò non sentire immediatamente il sapore di quella roba molliccia e indigesta nella propria bocca. In molte occasioni gli era stato dato del tallio bollito e non speziato. Spesso l’aveva considerata una benedizione.
Il maschio che aveva parlato continuò a restare seduto sulla sua roccia, tenendo in mano una carta di legno. Era un mazzo laccato, fatto per durare. Ogni tanto Kaladin aveva visto mazzi del genere nell’esercito. C’era chi risparmiava per mesi per acquistare un mazzo simile, che non si sarebbe deformato con la pioggia.
Il parshi sembrava così desolato nel fissare la sua carta con le spalle incurvate.
«Questo è sbagliato» sussurrò Kaladin a Syl. «Noi ci eravamo sbagliati così tanto…» Dov’erano i distruttori? Cos’era accaduto alle bestie con gli occhi rossi che avevano cercato di schiacciare l’esercito di Dalinar? Quelle figure terribili e inquietanti che il Ponte Quattro gli aveva descritto?
“Credevamo di aver capito cosa sarebbe successo” pensò Kaladin. “Ero così sicuro…”
«Allarme!» gridò all’improvviso una voce acuta. «Allarme! Idioti!»
Qualcosa sfrecciò nell’aria, un nastro giallo lucente, una striscia di luce nella fioca penombra del pomeriggio.
«È lì» disse la voce acuta. «Vi sta osservando! Sotto quei cespugli!»
Kaladin balzò su attraverso il sottobosco, pronto a risucchiare Folgoluce e svignarsela. Anche se ora sempre meno città ce l’avevano, dato che scarseggiava di nuovo, a lui ne rimaneva un pochettino.
I parshi presero randelli fatti con rami o con i manici delle scope. Si raggrupparono e impugnarono i bastoni come popolani spaventati, senza alcuna posa da combattimento, nessun controllo.
Kaladin esitò. “Potrei sconfiggerli tutti quanti in uno scontro perfino senza Folgoluce.” Aveva visto molte altre volte uomini reggere le armi a quel modo. Più di recente, l’aveva visto all’interno dei crepacci, quando addestrava i pontieri.
Quelli non erano guerrieri.
Syl svolazzò da lui, pronta a diventare una Lama. «No» le sussurrò Kaladin. Poi protese le mani ai lati e parlò ad alta voce. «Mi arrendo.»