28 UN’ALTRA OPZIONE

Infine, confesserò la mia umanità. Sono stato definito un mostro e non nego tale definizione. Sono il mostro che temo tutti possiamo diventare.

Da Giuramento, prefazione

Teshav lesse: «“È stata presa la decisione di sigillare questa Giuriporta finché non potremo distruggerla. Ci rendiamo conto che questo non è il sentiero che avreste voluto noi prendessimo, Dalinar Kholin. Sappiate che il Primo di Azir vi considera con affetto e attende con impazienza i benefici reciproci di accordi commerciali e nuovi trattati fra le nostre nazioni.

«“Un portale magico nel centro stesso della nostra città, però, rappresenta un pericolo troppo serio. Non prenderemo in considerazione alcuna ulteriore richiesta di aprirlo e vi consigliamo di accettare la nostra volontà sovrana. Buona giornata, Dalinar Kholin. Che Yaezir vi benedica e vi guidi.”»

Dalinar sbatté il pugno contro il palmo mentre si alzava in piedi nella stanzetta di pietra. Teshav e la sua pupilla occupavano il podio di scrittura e la sedia accanto, mentre Navani camminava avanti e indietro di fronte a lui. Re Taravangian era accomodato su una sedia presso la parete, ingobbito in avanti con le mani serrate, e ascoltava con espressione preoccupata.

Era finita allora. Azir era fuori.

Navani gli toccò il braccio. «Mi dispiace.»

«C’è ancora Thaylenah» disse Dalinar. «Teshav, vedi se la regina Fen vuole parlare con me oggi.»

«Sì, luminobile.»

Aveva Jah Keved e Kharbranth da Taravangian, e Nuova Natanan stava rispondendo positivamente. Con Thaylenah, Dalinar poteva almeno costituire una coalizione vorin unificata di tutti gli Stati orientali. Quel modello prima o poi poteva convincere le nazioni dell’Ovest a unirsi a loro.

Se per allora fosse rimasto qualcuno.

Dalinar ricominciò a camminare mentre Teshav contattava Thaylenah. Lui preferiva piccole stanze come quella: le sale più grandi ricordavano quanto fosse enorme quel posto. In una stanzetta più piccola, si poteva fingere di essere in un rifugio accogliente da qualche parte.

Naturalmente, perfino in una cameretta c’erano cose che rammentavano come Urithiru non fosse normale. Le stratificazioni alle pareti, come le pieghe di un ventaglio. Oppure i buchi che solitamente erano visibili sulle sommità delle pareti, proprio dove queste incontravano il soffitto. Il foro in questa stanza non faceva che richiamargli alla mente il rapporto di Shallan. C’era qualcosa là dentro che li osservava? Poteva davvero essere stato uno spren ad assassinare la gente nella torre?

Era quasi sufficiente a indurlo a ritirarsi da quel posto. Ma dove sarebbero andati? Avrebbero abbandonato le Giuriporte? Per il momento, aveva quadruplicato le pattuglie e inviato le ricercatrici di Navani a trovare una possibile spiegazione. Almeno finché non fosse riuscito a farsi venire in mente una soluzione.

Mentre Teshav scriveva alla regina Fen, Dalinar si avvicinò al muro, preoccupato all’improvviso da quel foro. Era proprio accanto al soffitto, troppo in alto perché potesse raggiungerlo anche mettendosi in piedi su una sedia. Invece inspirò Folgoluce. I pontieri avevano spiegato come usare le pietre per scalare le pareti, così Dalinar raccolse una sedia di legno e dipinse la parte posteriore con luce brillante, usando il palmo della mano sinistra.

Quando premette il retro della sedia contro il muro, quella rimase attaccata. Dalinar grugnì, arrampicandosi con esitazione sul piano della sedia, che rimase appesa in aria all’incirca all’altezza di un tavolo.

«Dalinar?» chiese Navani.

«Tanto vale fare buon uso del tempo» disse lui, mettendosi attentamente in equilibrio sulla sedia. Saltò, afferrando il bordo del buco vicino al soffitto, e si tirò su per guardarci dentro.

L’apertura era larga tre piedi e alta circa uno. Il condotto sembrava interminabile e lui riusciva a percepire una debole brezza uscire da esso. Era un… raschiare quello che sentiva? Un attimo dopo, un visone sgattaiolò nel cunicolo principale da un incrocio in ombra, portando in bocca un ratto morto. L’animaletto dal corpo cilindrico contrasse il muso verso Dalinar, poi portò via il suo trofeo.

«Quelli servono per far circolare l’aria» disse Navani mentre lui balzava giù dalla sedia. «Il metodo ci lascia perplessi. Forse qualche fabrial che dobbiamo ancora scoprire?»

Dalinar tornò a guardare il buco. Miglia e miglia di cunicoli ancora più piccoli che attraversavano pareti e soffitti di un sistema già di per sé imponente. E nascosta lì dentro da qualche parte c’era la cosa che Shallan aveva disegnato…

«Ha risposto, luminobile!» annunciò Teshav.

«Eccellente» disse Dalinar. «Vostra maestà, il nostro tempo diminuisce. Vorrei…»

«Sta ancora scrivendo» avvisò Teshav. «Perdono, luminobile. Dice… ehm…»

«Leggi e basta, Teshav» la esortò Dalinar. «Ormai sono abituato a Fen.»

«“Dannazione a te. Non intendi proprio lasciarmi in pace? Non dormo una notte intera da settimane. La Tempesta Infinita ci ha colpito già due volte; riusciamo a malapena a impedire che questa città cada a pezzi.”»

«Comprendo, vostra maestà» disse Dalinar. «E sono impaziente di inviarvi l’aiuto che ho promesso. Per favore, stringiamo un patto. Avete ignorato le mie richieste già per troppo tempo.»

Lì vicino, la sedia cadde finalmente dalla parete precipitando rumorosamente a terra. Lui si preparò per un altro giro di contesa verbale, mezze promesse e significati sottintesi. Fen era diventata sempre più formale durante i loro scambi.

La distacanna scrisse, poi si fermò quasi immediatamente. Teshav lo guardò con espressione grave.

«“No”» lesse.

«Vostra maestà» insisté Dalinar. «Questo non è il momento per andare avanti da soli. Per favore, vi scongiuro. Ascoltatemi!»

«“Oramai avrai capito”» giunse la risposta «“che questa coalizione non nascerà mai. Kholin… sinceramente, sono confusa. La tua lingua illuminata di granato e le tue parole gradevoli danno l’impressione che tu creda davvero che questo funzionerà.

«“Di sicuro te ne rendi conto. Una regina dovrebbe essere o stupida o disperata per lasciar entrare un esercito alethi nel centro stesso della sua città. Io sono stata stupida a volte, e forse sto per diventare disperata, ma… Tempeste, Kholin! No, non ho intenzione di essere colei che alla fine farà cadere Thaylenah in vostro potere. E nell’improbabile ipotesi che tu sia sincero, allora mi dispiace.”»

Quelle parole suonavano definitive. Dalinar si diresse da Teshav e guardò gli imperscrutabili scarabocchi sulla pagina che in qualche modo costituivano la scrittura delle donne. «Non ti viene qualche idea?» chiese a Navani mentre sospirava e si accomodava su una sedia accanto a Teshav.

«No. Fen è testarda, Dalinar.»

Egli lanciò un’occhiata a Taravangian. Perfino lui aveva presunto che lo scopo di Dalinar fosse la conquista. E chi non l’avrebbe fatto, considerando il suo passato?

“Forse sarebbe diverso se riuscissi a parlare con loro di persona” pensò. Ma senza le Giuriporte, era praticamente impossibile.

«Ringraziala per il suo tempo» disse Dalinar. «E ripetile che la mia offerta rimane sul tavolo.»

Teshav cominciò a scrivere e Navani lo guardò, notando quello di cui la scrivana non s’era accorta: la tensione nella sua voce.

«Sto bene» mentì lui. «Mi occorre solo tempo per pensare.»

Uscì a grandi passi dalla stanza prima che lei potesse obiettare; lì fuori, le sue guardie lo seguirono al passo. Dalinar voleva un po’ d’aria fresca, il cielo aperto sembrava sempre così invitante. I piedi non lo portarono in quella direzione, però. Si ritrovò invece a vagare per i corridoi.

E ora?

Come al solito, le persone lo ignoravano a meno che non avesse una spada in mano. Tempeste, era come se volessero vederlo arrivare combattendo.

Percorse i corridoi per un’ora buona, senza dirigersi da nessuna parte. Alla fine, fu Lyn la messaggera a trovarlo. Col fiato corto, disse che il Ponte Quattro aveva bisogno di lui ma non avevano spiegato il perché.

Dalinar la seguì, la sua mente ancora gravata dal disegno di Shallan. Avevano trovato un’altra vittima di omicidio? In effetti, Lyn lo condusse verso la sezione dove Sadeas era stato ucciso.

Il suo senso di inquietudine crebbe. Lyn lo guidò a un balcone dove lo attendevano i pontieri Leyten e Peet. «Chi era?» chiese lui incontrandoli.

«Chi…» Leyten si accigliò. «Oh! No, non è quello, signore. È qualcos’altro. Da questa parte.»

Leyten lo guidò giù per alcune scale sul vasto campo fuori del primo piano della torre, dove altri tre pontieri attendevano vicino ad alcune file di vasi di pietra, probabilmente per coltivare tuberi.

«L’abbiamo notato per caso» disse Leyten mentre camminavano tra i vasi. Il corpulento pontiere aveva un atteggiamento gioviale e si rivolgeva a Dalinar – un altoprincipe – con la stessa facilità con cui avrebbe parlato con gli amici a una taverna. «Stavamo pattugliando come da vostri ordini, cercando qualunque cosa sembrasse strana. E… be’, Peet ha notato qualcosa di insolito.» Indicò in alto sul muro. «Vedete quella linea?»

Dalinar strinse gli occhi, notando un buco nella parete di pietra. Cosa poteva incidere la roccia a quel modo? Sembrava quasi…

Abbassò lo sguardo verso i vasi più vicini a loro. E lì, nascosta tra due di essi, un’elsa spuntava dal pavimento di pietra.

Una Stratolama.

Era facile non notarla, dato che la lama era stata conficcata completamente nella roccia. Dalinar si inginocchiò accanto all’arma, poi prese un fazzoletto dalla tasca e lo usò per afferrare l’elsa.

Anche se non toccò la Lama direttamente, udì un lamento molto distante, come un urlo strozzato nella gola di qualcuno. Si fece forza, poi strattonò fuori la Lama e la posò sul vaso vuoto.

La Lama argentea era incurvata all’estremità quasi come un amo da pesca. Quell’arma era perfino più larga di parecchie Stratolame, e vicino all’elsa era increspata in motivi simili a onde. Conosceva quella spada, e molto bene. L’aveva portata per decenni, da quando l’aveva conquistata nella Faglia molti anni prima.

Giuramento.

Lanciò un’occhiata verso l’alto. «L’assassino deve averla lanciata da quella finestra. Ha inciso la pietra cadendo, poi è atterrata qui.»

«È quello che abbiamo ipotizzato, luminobile» disse Peet.

Dalinar abbassò lo sguardo sulla spada. La sua spada.

“No. Non è affatto mia.”

La afferrò, preparandosi alle urla. Le grida di uno spren morto. Non erano gli strilli acuti e dolorosi che aveva sentito quando aveva toccato altre Lame, ma più un piagnucolio. Il suono di un uomo costretto in un angolo, malmenato pesantemente, che si trovava di fronte a qualcosa di terribile ma era troppo stanco per continuare a urlare.

Dalinar si fece forza e portò la Lama – un peso familiare – con il lato piatto contro la spalla. Si diresse verso un’entrata differente della città-torre, seguito dalle sue guardie, l’esploratrice e i cinque pontieri.

Hai promesso di non portare alcuna Lama morta, tuonò il Folgopadre nella sua testa.

«Calmati» sussurrò Dalinar. «Non ho intenzione di vincolarla.»

Il Folgopadre emise un rombo basso e pericoloso.

«Questa non urla così forte come le altre. Perché?»

Ricorda il tuo giuramento, gli trasmise il Folgopadre. Ricorda il giorno in cui l’hai vinta e meglio ancora il giorno in cui l’hai ceduta. Ti odia… ma meno di quanto odi altri.

Dalinar superò un gruppo di contadini di Hatham che avevano cercato invano di far crescere i polipi lavis. Attirò non poche occhiate: perfino in una torre popolata da soldati, altiprincipi e Radiosi, qualcuno che portava apertamente una Stratolama era uno spettacolo insolito.

«Potrebbe essere recuperato?» mormorò Dalinar mentre entravano nella torre e salivano una scalinata. «Potremmo salvare lo spren che ha creato questa Lama?»

Non conosco alcun modo, disse il Folgopadre. È morto, così come l’uomo che ruppe il suo giuramento per ucciderlo.

Era accaduto al tempo dei Radiosi Perduti e della Ritrattazione, il giorno fatale in cui i cavalieri avevano rotto i loro giuramenti, avevano abbandonato gli Strati e se n’erano andati. Dalinar vi aveva assistito in una visione, anche se ancora non aveva idea di cosa avesse causato una tale azione.

Perché? Cosa li indusse a una scelta tanto drastica? Giunse infine alla sezione della torre di Sadeas, e, anche se guardie vestite di verde foresta e bianco controllavano l’accesso, non potevano opporsi a un altoprincipe, in particolare non a lui. Messaggere lo precedettero correndo a portare la notizia. Dalinar le seguì, valutando in base al percorso se stesse andando nella direzione giusta. Era proprio così: a quanto pareva, lei si trovava nelle sue stanze. Dalinar si fermò presso l’elegante porta di pietra e concesse a Ialai la cortesia di bussare.

Una delle messaggere che aveva seguito fin lì aprì la porta, ancora sbuffando. Luminosità Sadeas era seduta su un trono posto al centro della stanza. Amaram era in piedi alle sue spalle.

«Dalinar» disse Ialai, rivolgendogli un cenno del capo come una regina che stesse salutando un suddito.

Dalinar sollevò la Stratolama dalla spalla e la posò con attenzione sul pavimento. Non era così drammatico come conficcarla tra le pietre, ma ora che poteva avvertire le urla dell’arma, sentiva di doverla trattare con deferenza.

Si voltò per andarsene.

«Luminobile?» disse Ialai, alzandosi in piedi. «In cambio di cosa me la state dando?»

«Di nulla» rispose Dalinar voltandosi. «Questa è vostra di diritto. Le mie guardie l’hanno trovata oggi. L’assassino l’ha gettata fuori da una finestra.»

Lei lo guardò a occhi stretti.

«Non l’ho ucciso io, Ialai» disse Dalinar in tono stanco.

«Questo lo so. Non vi resta abbastanza fegato per un’azione del genere.»

Dalinar ignorò l’insulto e guardò verso Amaram. L’uomo alto e distinto incontrò il suo sguardo.

«Io ti porterò in giudizio un giorno, Amaram» disse Dalinar. «Quando tutto questo sarà finito.»

«Come ho ammesso che potreste fare.»

«Vorrei potermi fidare della tua parola.»

«Sono solo coerente con quello che sono stato costretto a fare, luminobile» disse Amaram venendo avanti. «L’arrivo dei Nichiliferi dimostra che avevo ragione. Ci occorrono Stratoguerrieri esperti. Le storie di occhiscuri che ottengono Lame sono affascinanti, ma pensate davvero che abbiamo tempo per le favolette ora, invece di prendere consapevolezza della realtà pratica?»

«Tu hai assassinato uomini indifesi» disse Dalinar digrignando i denti. «Uomini che ti avevano salvato la vita.»

Amaram si chinò a raccogliere Giuramento. «E quelli che avete ucciso con le vostre guerre… a centinaia, a migliaia?»

Si fissarono negli occhi.

«Nutro enorme rispetto per voi, luminobile» disse Amaram. «La vostra vita è stata costellata di successi straordinari e l’avete passata a cercare il bene di Alethkar. Ma voi, e prendetelo con il rispetto che voglio testimoniarvi, siete un ipocrita.

«Vi trovate nella vostra posizione grazie alla fermezza brutale con cui avete compiuto ciò che doveva essere fatto. È grazie a quella scia di cadaveri che potete concedervi il lusso di sostenere un codice superbo e pomposo. Be’, forse vi farà sentire meglio riguardo al vostro passato, ma la moralità non è qualcosa che potete semplicemente togliervi quando indossate l’elmo da battaglia, e poi rimettervi una volta concluso il massacro.»

Amaram annuì in segno di stima, come se non avesse appena trapassato le viscere di Dalinar con una spada.

Questi si girò e lo lasciò lì con in mano Giuramento. Le sue falcate lungo i corridoi furono così rapide che il seguito dovette affrettarsi per tenere il passo.

Finalmente trovò le sue stanze. «Lasciatemi» ordinò alle guardie e ai pontieri.

Quelli esitarono, che fossero folgorati. Lui si voltò, pronto a inveirgli contro, ma si calmò. «Non intendo scorrazzare per la torre da solo. Obbedirò alle mie stesse leggi. Andate.» Si ritirarono con riluttanza, lasciando la sua porta senza sorveglianza. Dalinar si spostò nel salotto esterno, dove aveva ordinato che fosse piazzata la maggior parte del mobilio. Il fabrial riscaldante di Navani brillava in un angolo, vicino a un piccolo tappeto e a diverse sedie. Finalmente avevano abbastanza Folgoluce per alimentarlo.

Attirato dal calore, Dalinar si avvicinò al fabrial. Rimase sorpreso nel trovare Taravangian seduto su una delle sedie, lo sguardo fisso nelle profondità del rubino splendente che irradiava calore nella stanza. Be’, in effetti aveva invitato il re a usare il suo salotto quando avesse voluto.

Dalinar voleva soltanto restare da solo e accarezzò l’idea di andarsene. Non era certo che Taravangian l’avesse notato. Ma quel calore era così accogliente… C’erano pochi fuochi nella torre, e perfino con le pareti a bloccare il vento, ci si sentiva sempre gelati.

Si accomodò su un’altra sedia ed esalò un sospiro profondo. Taravangian non gli rivolse la parola, che fosse benedetto. Assieme rimasero seduti accanto a quel non-fuoco, gli occhi fissi nelle profondità della gemma.

Tempeste, aveva proprio fallito oggi. Non ci sarebbe stata nessuna coalizione. Non riusciva a tenere in riga nemmeno gli altiprincipi alethi.

«Non è proprio come stare seduti presso un focolare, eh?» osservò infine Taravangian a bassa voce.

«No» concordò Dalinar. «Mi manca lo scoppiettio dei ciocchi, il danzare dei fiammaspren.»

«Ha il suo fascino, però. Sottile. Si può vedere la Folgoluce muoversi all’interno.»

«La nostra piccola tempesta» disse Dalinar. «Catturata, trattenuta e incanalata.»

Taravangian sorrise, gli occhi illuminati dalla Folgoluce del rubino. «Dalinar Kholin… vi dispiace se vi chiedo una cosa? Come fate a sapere cos’è giusto?»

«Una domanda elevata, vostra maestà.»

«Per favore, meno formalismi tra noi. Solo Taravangian.»

Dalinar annuì.

«Tu hai negato l’Onnipotente» disse Taravangian.

«Io…»

«No, no. Non ti sto definendo un eretico. Non m’importa, Dalinar. Io stesso ho messo in dubbio l’esistenza della divinità.»

«Io sento che deve esserci un Dio» spiegò Dalinar piano. «La mia mente e la mia anima si ribellano all’alternativa.»

«Non è forse nostro compito, in qualità di re, porre domande di fronte alle quali le menti e le anime degli altri uomini si ritrarrebbero?»

«Forse» disse Dalinar. Esaminò Taravangian. Sembrava così meditabondo.

“Sì, lì dentro c’è ancora parte del vecchio Taravangian” rifletté Dalinar. “L’avevamo giudicato male. Potrà pure essere lento, ma ciò non significa che non pensi.”

«Ho avvertito un calore» disse Dalinar «proveniente da un luogo ultraterreno. Una luce che potevo quasi vedere. Se esiste un Dio, non era l’Onnipotente, quello che si faceva chiamare Onore. Lui era una creatura. Potente, ma comunque solo una creatura.»

«Allora come sai cos’è giusto? Cosa ti guida?»

Dalinar si sporse in avanti. Gli parve di scorgere qualcosa di più grande all’interno della luce del rubino. Qualcosa che si muoveva come un pesce in una boccia.

Il calore continuava a inondarlo. La luce.

«“Il mio sessantesimo giorno”» mormorò Dalinar «“passai per una città il cui nome non rivelerò. Anche se era ancora in terre che mi chiamavano re, ero abbastanza lontano dalla mia casa da non essere riconosciuto. Nemmeno coloro che maneggiavano quotidianamente il mio volto – nella forma del mio sigillo stampato sulle loro lettere di autorità – avrebbero identificato quell’umile viandante come il loro re.”»

Taravangian lo guardò con aria confusa.

«È una citazione da un libro» chiarì Dalinar. «Molto tempo fa un re intraprese un viaggio. La sua destinazione era questa stessa città, Urithiru.»

«Ah…» disse Taravangian. «La via dei re, giusto? Adrotagia ha menzionato quel testo.»

«Sì» rispose Dalinar. «“In questa cittadina, trovai uomini tormentati. Era avvenuto un delitto. Un porcaio, che aveva l’incarico di proteggere gli animali del proprietario terriero, era stato aggredito. Era vissuto solo il tempo necessario per sussurrare che erano stati altri tre porcai a unirsi per compiere quel crimine.

«“Io giunsi lì mentre venivano sollevate domande e interrogati uomini. C’erano quattro altri porcai al servizio di quel proprietario terriero. Tre di loro erano responsabili dell’aggressione e probabilmente sarebbero sfuggiti ai sospetti se avessero portato bene a termine il loro feroce lavoro. Ciascuno dei quattro proclamò a gran voce di essere quello che non aveva preso parte al complotto. Nonostante tutti gli interrogatori, non si arrivò a stabilire la verità.”»

Dalinar tacque.

«Cosa accadde?» chiese Taravangian.

«Sulle prime non lo racconta» rispose Dalinar. «Nel corso del libro, solleva la domanda più e più volte. Tre di quegli uomini costituivano una violenta minaccia, colpevoli di omicidio premeditato. Uno era innocente. Cosa faresti?»

«Impiccherei tutti e quattro» sussurrò Taravangian.

Dalinar, sorpreso nell’udire tanta sete di sangue in quell’uomo, si voltò. Taravangian sembrava triste, non certo sanguinario.

«Il lavoro del proprietario terriero» continuò Taravangian «è impedire ulteriori omicidi. Dubito che ciò che riporta il libro sia accaduto davvero. È una parabola troppo precisa, troppo semplice. Le nostre vite sono molto più complicate. Ma supponendo che la storia sia avvenuta come affermato e che non ci fosse assolutamente modo di determinare il colpevole… tu devi impiccare tutti e quattro. Giusto?»

«E l’innocente?»

«Un innocente morto, ma tre assassini fermati. Non è la scelta migliore e il modo più efficace per proteggere il popolo?» Taravangian si massaggiò la fronte. «Folgopadre! Sembro davvero un pazzo, eh? Ma non è una follia particolare dover farsi carico di decisioni come questa? È difficile occuparsi di questioni del genere senza rivelare la propria ipocrisia.»

“Ipocrita.” Dalinar sentì Amaram accusarlo nella propria mente.

Lui e Gavilar non avevano addotto valide giustificazioni quando erano andati in guerra. Avevano fatto ciò che facevano gli uomini: conquistare. Solo in seguito Gavilar aveva cominciato a cercare una più alta ratifica ai loro atti.

«Perché non lasciarli andare tutti?» obiettò Dalinar. «Se non puoi dimostrare chi è colpevole, se non puoi esserne certo, io penso che dovresti lasciarli andare.»

«Sì… un innocente su quattro è troppo per te. Anche questo ha senso.»

«No, qualunque innocente è troppo.»

«Tu lo dici» sottolineò Taravangian. «E così molti altri, ma le nostre leggi colpiranno uomini innocenti, poiché tutti i giudici sono fallaci, così come la nostra conoscenza. Prima o poi, tu giustizierai qualcuno che non lo merita. Questo è il fardello che la società deve portare in cambio dell’ordine.»

«Lo detesto» disse Dalinar piano.

«Sì… anch’io. Ma non è solo una questione di moralità, giusto? È una questione di soglie. Quanti colpevoli devono essere puniti prima che tu possa accettare una vittima innocente? Mille? Diecimila? Centomila? Quando ci rifletti, tutti i calcoli sono insignificanti tranne uno. È stato fatto più bene rispetto al male? Se è così, la legge ha svolto il suo compito. E di conseguenza… io dovrei impiccare tutti e quattro.» Fece una pausa. «E piangerei, ogni notte, per averlo fatto.»

Dannazione. Dalinar riconsiderò di nuovo la sua idea di Taravangian. Il re parlava con toni pacati, ma non era tardo. Era semplicemente un uomo a cui piaceva riflettere molto prima di impegnarsi.

«Alla fine Nohadon scrive» disse Dalinar «che il proprietario terriero optò per un approccio più mite. Imprigionò tutti e quattro. Anche se la pena avrebbe dovuto essere la morte, mischiò la colpa e l’innocenza e stabilì che la colpa media dei quattro meritava soltanto la prigione.»

«Non era disposto a impegnarsi» osservò Taravangian. «Non stava cercando giustizia, ma di placare la propria coscienza.»

«Ciò nonostante, scelse un’altra opzione.»

«Il tuo re dice mai cosa avrebbe fatto lui?» chiese Taravangian. «Colui che scrisse il libro?»

«Afferma che l’unico corso possibile era farsi guidare dall’Onnipotente, e lasciare che ogni caso fosse giudicato in modo diverso a seconda delle circostanze.»

«Perciò anche lui non era disposto a impegnarsi» dedusse Taravangian. «Mi sarei aspettato di più.»

«Il libro parlava del suo viaggio» disse Dalinar. «E delle sue domande. Penso che questa fosse una a cui non si diede mai una risposta. Vorrei che l’avesse fatto.»

Rimasero seduti per un po’ presso il non-fuoco; alla fine, Taravangian si alzò e posò una mano sulla spalla di Dalinar. «Capisco» disse piano, poi se ne andò.

Era un brav’uomo, disse il Folgopadre.

«Nohadon?» chiese Dalinar.

Sì.

Sentendosi irrigidito, Dalinar si alzò dalla sedia e attraversò le sue stanze. Non si fermò alla camera da letto, anche se si stava facendo tardi, e si diresse invece sul balcone. Per guardare le nuvole.

Taravangian si sbaglia, disse il Folgopadre. Tu non sei un ipocrita, Figlio di Onore.

«Lo sono» disse Dalinar piano. «Ma a volte un ipocrita non è altro che una persona nel mezzo di un cambiamento.»

Il Folgopadre tuonò. Non gli piaceva l’idea di cambiamento.

Devo muovere guerra agli altri regni” pensò Dalinar “e forse salvare il mondo? O starmene qui e fingere di poter fare tutto questo da solo?”

«Hai altre visioni di Nohadon?» chiese Dalinar al Folgopadre, speranzoso.

Ti ho mostrato tutto ciò che è stato creato affinché lo vedessi, rispose il Folgopadre. Non posso mostrarti altro.

«Allora mi piacerebbe riguardare la visione in cui ho incontrato Nohadon» disse Dalinar. «Ma prima di cominciare, lasciami andare a prendere Navani. Voglio che annoti quello che dico.»

Preferiresti che mostrassi la visione anche a lei? chiese il Folgopadre. Così potrebbe prendere le note lei stessa.

Dalinar rimase di sasso. «Puoi mostrare le visioni ad altri

Mi è stato dato questo permesso: scegliere coloro che avrebbero ricevuto un servigio maggiore dalle visioni. Si interruppe, poi continuò con riluttanza. Per scegliere un Forgialegami.

No, non gli piaceva l’idea di essere vincolato, ma era parte di ciò che gli era stato ordinato di fare.

Dalinar considerò a malapena quel pensiero.

Il Folgopadre poteva mostrare le visioni ad altri.

«Chiunque?» domandò Dalinar. «Puoi mostrarle a chiunque?»

Durante una tempesta, posso avvicinare chiunque io scelga, disse il Folgopadre. Ma tu non devi essere in una tempesta, così puoi unirti a una visione nella quale ho piazzato qualcun altro, perfino se sei distante.

Tempeste! Dalinar proruppe in una risata.

Cos’ho fatto? chiese il Folgopadre.

«Hai appena risolto il mio problema!»

Il problema della «Via dei re»?

«No, quello più grande. Desideravo un modo per incontrarmi con gli altri monarchi di persona.» Dalinar sorrise. «Credo che, durante la prossima altempesta, la regina Fen di Thaylenah vivrà un’esperienza davvero memorabile.»

Giuramento
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