VENTITRÉ ANNI PRIMA
Dalinar premette assieme le dita, poi le strofinò, sfregando il muschio secco bruno-rosso. Quel suono raschiante era spiacevolmente simile a quello di un coltello su un osso.
Avvertì immediatamente il calore, come di un tizzone. Un sottile filo di fumo si levò dalle dita callose e lo colpì sotto il naso, poi si divise attorno alla faccia.
Tutto sbiadì: il suono rumoroso di troppi uomini in una sola stanza, l’odore muschiato dei corpi costretti assieme. L’euforia gli si diffuse dentro come un raggio di sole improvviso in una giornata nuvolosa. Esalò un sospiro prolungato. Non se la prese nemmeno quando Bashin gli diede accidentalmente una gomitata.
In molti posti essere altoprincipe gli avrebbe garantito una bolla di spazio, ma al tavolo di legno pieno di macchie, in quel covo malamente illuminato, il rango sociale era irrilevante. Lì, con una buona bevanda e un po’ d’aiuto premuto tra le dita, poteva finalmente rilassarsi. Lì a nessuno importava quanto fosse presentabile o se avesse bevuto troppo.
Lì non doveva stare ad ascoltare i rapporti di ribellioni e immaginarsi su quei campi, a risolvere i problemi nel modo più diretto. Spada in mano. Eccitazione nel cuore…
Sfregò il muschio con maggior vigore. Non pensare alla guerra. Vivi l’attimo, come diceva sempre Evi.
Havar tornò con le bevande. Il magro uomo barbuto esaminò la panca affollata, poi posò i boccali e tirò giù dal suo posto un ubriaco accasciato. Si infilò accanto a Bashin. Havar era un occhichiari e pure di buona famiglia. Era stato uno dei soldati scelti di Dalinar quando ciò significava qualcosa, anche se adesso aveva la propria terra e un incarico di prestigio. Era uno dei pochi che non rivolgevano il saluto a Dalinar con tanta forza da poterlo sentire.
Bashin invece… be’, era un tipo strano. Occhiscuri del primo nahn, quell’uomo corpulento aveva viaggiato per mezzo mondo e aveva incoraggiato Dalinar ad accompagnarlo a vedere l’altra metà. Indossava ancora quello stupido cappello floscio a tesa larga.
Havar grugnì e passò i boccali. «Intrufolarmi accanto a te, Bashin, sarebbe molto più facile se non avessi una pancia che arriva fino alla settimana prossima.»
«Sto solo cercando di fare il mio dovere, luminobile.»
«Il tuo dovere?»
«Gli occhichiari hanno bisogno di persone che gli obbediscano, giusto? Io mi sto assicurando che tu ne abbia parecchie a servirti, almeno come peso.»
Dalinar prese il boccale ma non bevve. Per il momento, il piromuschio stava facendo il suo dovere. Il suo non era l’unico filo di fumo che si levava nella camera di pietra poco illuminata.
Gavilar odiava quella roba. D’altro canto, a suo fratello ora piaceva la sua vita.
Al centro della stanza in penombra, un paio di parshi spinsero da una parte i tavoli, poi iniziarono a posare sul pavimento pezzi di diamante. Gli uomini indietreggiarono, facendo spazio per un grande anello di luce. Due tizi senza camicia si fecero largo a spintoni tra la folla. L’aria generale di conversazioni impacciate nella stanza si trasformò in un clima di ruggente entusiasmo.
«Vogliamo scommettere?» chiese Havar.
«Certo» replicò Bashin. «Punto tre marchi di granato su quello più basso.»
«Accetto la scommessa,» disse Havar «ma non per i soldi. Se vinco, voglio il tuo cappello.»
«Affare fatto! Ah! Così finalmente ammetterai quanto è elegante?»
«Elegante? Tempeste, Bashin! Ti farò un favore e brucerò quell’affare.»
Dalinar si rilassò, la mente annebbiata dal piromuschio.
«Bruciare il mio cappello?» domandò Bashin. «Tempeste, Havar! È crudele. Solo perché invidi il mio profilo distinto.»
«Quel cappello è distinto nel senso che d’istinto fa correre le donne dalla parte opposta.»
«È esotico. Viene dall’Ovest. Tutti sanno che la moda viene da lì.»
«Già. Da Liafor e Yezier. Dove l’hai preso?»
«Al Purolago.»
«Ah, quel baluardo di cultura e moda! Poi andrai a far compere a Bavland?»
«Le cameriere non conoscono la differenza» borbottò Bashin. «Comunque, possiamo guardare l’incontro e basta? Non vedo l’ora di vincerti quei marchi.» Prese da bere, ma si tastò il cappello con apprensione.
Dalinar chiuse gli occhi. Aveva come la sensazione di potersi assopire, forse di sonnecchiare senza pensare a Evi o sognare la guerra…
All’interno dell’anello, i corpi cozzavano l’uno contro l’altro.
Quel suono – i grugniti dovuti allo sforzo mentre i lottatori cercavano di spingersi a vicenda fuori dell’anello – gli ricordò la battaglia. Dalinar aprì gli occhi, lasciò cadere il muschio e si sporse in avanti.
Il lottatore più basso danzò via dalla stretta dall’altro. Si girarono attorno accucciati, le mani pronte. Quando si strinsero di nuovo, quello più basso spinse il suo avversario tanto da fargli perdere l’equilibrio. “Una posizione migliore” pensò Dalinar. “Si è mantenuto basso. Il tizio più alto si è affidato troppo a lungo alla forza e alla taglia. Ha una forma terribile.”
I due si tesero, indietreggiando verso il margine dell’anello, prima che l’uomo più alto riuscisse a far inciampare l’avversario, inciampando a sua volta. Dalinar si alzò mentre altri davanti a lui alzavano le mani ed esultavano.
La contesa. La lotta.
“È stato questo che per poco non mi faceva uccidere Gavilar.”
Dalinar si rimise a sedere.
L’uomo più basso vinse. Havar sospirò, ma fece rotolare alcune sfere lucenti verso Bashin. «Lasci o raddoppi per il prossimo incontro?»
«Nah» disse Bashin soppesando i marchi. «Questo dovrebbe essere sufficiente.»
«Per cosa?»
«Per corrompere alcuni giovani damerini influenti a provare cappelli come il mio» replicò Bashin. «Te lo dico io: quando si spargerà la voce, tutti li indosseranno.»
«Sei un idiota.»
«Mi sta bene, finché sono un idiota alla moda.»
Dalinar allungò la mano verso il pavimento e raccolse il piromuschio. Lo gettò sul tavolo e lo fissò, poi prese una sorsata dal boccale di vino. Iniziò l’incontro di lotta successivo e lui sussultò quando i due contendenti si scontrarono. Tempeste! Perché continuava a mettersi in situazioni del genere?
«Dalinar» disse Havar. «Ancora nessuna notizia su quando andremo alla Faglia?»
«La Faglia?» chiese Bashin. «E per cosa?»
«Sei tonto?» domandò Havar.
«No,» rispose Bashin «ma potrei essere ubriaco. Che succede alla Faglia?»
«Corre voce che vogliano avere il proprio altoprincipe» spiegò Havar. «Il figlio di quello vecchio, come si chiamava…»
«Tanalan» chiarì Dalinar. «Ma non andremo a visitare la Faglia, Havar.»
«Di sicuro il re non può…»
«Noi non andremo» rimarcò Dalinar. «Tu hai degli uomini da addestrare. E io…» Dalinar bevve altro vino. «Io sarò padre. Mio fratello può gestire la Faglia con la diplomazia.»
Havar si appoggiò contro lo schienale, posando con leggerezza il boccale sul tavolo. «Il re non può sedare con la politica una ribellione aperta, Dalinar.»
Dalinar serrò il pugno attorno al piromuschio, ma non lo sfregò. Quanto del suo interesse nei confronti della Faglia consisteva nel dovere di proteggere il regno di Gavilar e quanto invece era legato al desiderio di provare di nuovo l’Eccitazione?
Dannazione. Si sentiva come un uomo a metà, di recente.
Uno dei lottatori aveva spinto l’altro fuori dell’anello, scompigliando la fila di luci. Fu dichiarato il perdente e un parshi si mise attentamente a ridisporre i pezzi. Mentre lo faceva, un maestro-servitore si avvicinò al tavolo di Dalinar.
«Perdono, luminobile» sussurrò. «Ma dovreste saperlo. L’incontro principale dovrà essere annullato.»
«Cosa?» disse Bashin. «Qualcosa non va? Makh non vuole combattere?»
«Perdono» ripeté il maestro-servitore. «Ma il suo avversario ha problemi di stomaco. L’incontro dev’essere annullato.»
A quanto pareva, la notizia si stava diffondendo per la stanza. La folla manifestò la propria disapprovazione con boati e imprecazioni, urlando e svuotando boccali a terra. Un uomo alto e calvo era in piedi da un lato dell’anello, a torso nudo. Stava discutendo con diversi organizzatori occhichiari, indicando lo spazio della lotta con rabbiaspren che ribollivano sul pavimento attorno a lui.
Per Dalinar, quel frastuono assomigliava ai richiami della battaglia. Chiuse gli occhi e inspirò, trovando un’euforia di gran lunga superiore a quella data dal piromuschio. Tempeste! Si sarebbe dovuto ubriacare di più. Stava per scivolare.
Tanto valeva essere rapidi, allora. Gettò via il piromuschio e si alzò, poi si tolse la camicia.
«Dalinar» domandò Havar. «Cosa stai facendo?»
«Gavilar dice che devo essere più preoccupato per le sofferenze della nostra gente» rispose Dalinar, salendo in piedi sul tavolo. «Pare che qui ci sia una stanza piena di sofferenze.»
Havar rimase a bocca aperta, la mascella spalancata.
«Scommetti su di me» continuò Dalinar. «In ricordo dei vecchi tempi.» Balzò giù dal tavolo dall’altro lato, poi si fece largo tra la folla. «Qualcuno dica a quell’uomo che ha uno sfidante!»
Il silenzio si diffuse attorno a lui come un cattivo odore. Dalinar si ritrovò al margine dell’anello in una stanza completamente ammutolita, piena zeppa di uomini fino a poco prima chiassosi, sia occhichiari sia occhiscuri. Il lottatore, Makh, fece un passo indietro, gli occhi verde scuro sgranati e i rabbiaspren che scomparivano. Aveva una corporatura possente e braccia che si gonfiavano come se fossero troppo piene. Si diceva che non fosse mai stato sconfitto.
«Ebbene?» disse Dalinar. «Tu volevi uno scontro e io ho bisogno di un po’ di esercizio.»
«Luminobile» replicò l’uomo. «Questo doveva essere un incontro libero, in cui tutti i colpi e le prese sono concessi.»
«Eccellente» ribatté Dalinar. «Che c’è? Hai paura di ferire il tuo altoprincipe? Ti prometto clemenza per qualunque cosa mi sarà fatta.»
«Far del male a voi?» si sorprese l’uomo. «Tempeste, non è di questo che ho paura.» Rabbrividì visibilmente e una donna thaylenica – forse la sua agente – gli diede un colpo sul braccio. Pensava che fosse stato scortese. Il lottatore si limitò a inchinarsi e si ritirò.
Dalinar si girò attorno per la stanza, trovandosi di fronte a un mare di facce che tutt’a un tratto parvero molto a disagio. Aveva infranto qualche specie di regola.
Il raduno si dissolse, con i parshi che recuperavano le sfere da terra. A quanto pareva, Dalinar era stato troppo frettoloso nel giudicare che il rango lì non aveva importanza. Lo avevano tollerato come spettatore, ma non come partecipante.
Dannazione! Ringhiò piano mentre si dirigeva alla panca, seguito da quei rabbiaspren che si muovevano sul pavimento. Prese la sua camicia da Bashin con un rapido gesto della mano. Quando si trovava con i suoi soldati scelti, qualunque uomo – dal lanciere più umile ai capitani più prominenti – si esercitava o lottava con lui. Tempeste! Aveva affrontato il cuoco diverse volte, con grande divertimento di tutti i presenti.
Ancora fumante di rabbia, si mise a sedere e si infilò la camicia. Aveva strappato i bottoni nel togliersela così in fretta. Sulla stanza calò il silenzio mentre le persone continuavano ad andarsene, e Dalinar rimase seduto lì, teso, il corpo che aspettava ancora lo scontro che non ci sarebbe mai stato. Niente Eccitazione. Nulla che lo riempisse.
Presto lui e i suoi amici si ritrovarono da soli nella stanza, a guardare i tavoli vuoti, i boccali abbandonati e l’alcol versato. Quel posto ora riusciva ad avere un odore perfino peggiore di quando era affollato.
«Probabilmente è meglio così, luminobile» affermò Havar.
«Voglio essere di nuovo tra i soldati, Havar» mormorò Dalinar. «Voglio marciare di nuovo. Il miglior sonno concesso a un uomo è quello dopo una lunga marcia. E, Dannazione, voglio combattere. Voglio affrontare qualcuno che non trattiene i pugni perché sono un altoprincipe.»
«Allora troviamo uno scontro del genere, Dalinar!» esclamò Havar. «Di sicuro il re ci lascerà andare. Se non alla Faglia, allora a Herdaz o a una delle isole. Possiamo portargli terra, gloria, onore!»
«Quel lottatore» disse Dalinar. «C’era… qualcosa nelle sue parole. Era certo che gli avrei fatto del male.» Tamburellò con le dita sul tavolo. «Era spaventato per via della mia reputazione in generale o c’è qualcosa di più specifico?»
Bashin e Havar si scambiarono un’occhiata.
«Quando?» domandò Dalinar.
«Rissa da taverna» replicò Havar. «Due settimane fa. Rammenti?»
Dalinar ricordava una monotonia indistinta rotta dalla luce, un guizzo di colore nella sua vita. Emozione. Espirò. «Mi hai detto che stavano tutti bene.»
«Sono sopravvissuti» precisò Havar.
«Uno… degli attaccabrighe con cui hai lottato non camminerà più» ammise Bashin. «A un altro hanno dovuto amputare il braccio. Un terzo farfuglia come un bambino: il suo cervello non è più a posto.»
«Questo è tutt’altro che bene.»
«Perdono, Dalinar» disse Havar. «Ma quando si affronta lo Spinanera, questo è il minimo che ci si può aspettare.»
Dalinar incrociò le braccia sul tavolo, digrignando i denti. Il piromuschio non stava funzionando. Sì, gli dava una rapida scarica di euforia, ma non faceva altro che indurlo a desiderare l’ebbrezza ancora maggiore dell’Eccitazione. Perfino ora si sentiva teso: provava l’istinto di distruggere il tavolo e tutto quanto si trovava nella stanza. Era così pronto a combattere: aveva ceduto alla tentazione, ma poi quel piacere gli era stato sottratto.
Provava comunque vergogna per aver perso il controllo, ma non l’appagamento di aver potuto davvero lottare.
Dalinar afferrò il boccale ma era vuoto. Folgopadre! Lo gettò e si alzò in piedi, con il desiderio di urlare.
Per fortuna fu distratto dalla porta posteriore che portava al covo dei lottatori: si era socchiusa, rivelando un familiare volto pallido. Toh indossava abiti alethi ora, una delle nuove giacche preferite da Gavilar, ma non gli calzava affatto bene. Era troppo smilzo. Nessun uomo lo avrebbe mai scambiato per un soldato, con quell’andatura cauta e quegli occhi grandi e innocenti.
«Dalinar?» chiese lui, guardando le bevande versate e le lampade a sfere sigillate alle pareti. «Le guardie mi hanno detto che ti avrei trovato qui. C’era… ehm… una festa in corso?»
«Ah, Toh» disse Havar, stravaccandosi sulla sua sedia. «Come avrebbe potuto esserci una festa senza di te?»
Gli occhi di Toh guizzarono verso il pezzo di piromuschio per terra lì vicino. «Non capirò mai cosa ci trovi in questi posti, Dalinar.»
«Vuole solo imparare a conoscere la gente comune, luminobile» commentò Bashin, mettendosi in tasca il piromuschio. «Sapete come siamo fatti noi occhiscuri, sempre a sguazzare nella depravazione. Abbiamo bisogno di buoni modelli di comportamento per…»
Si interruppe quando Dalinar alzò la mano. Non c’era bisogno che i sottoposti lo coprissero. «Cosa c’è, Toh?»
«Oh!» disse l’uomo di Rira. «Stavano per mandare una messaggera, ma volevo recapitare io stesso la notizia. Mia sorella, vedi. È un po’ presto, ma le levatrici non sono sorprese. Dicono che è naturale quando…»
A Dalinar si mozzò il fiato come se gli avessero dato un pugno in pancia. “Presto. Levatrici. Sorella.”
Si precipitò verso la porta e non udì il resto della frase di Toh.
Evi aveva l’aria di aver combattuto una battaglia.
Dalinar aveva visto quell’espressione sulle facce dei soldati molte volte: la fronte sudata, lo sguardo un po’ frastornato e sonnolento. Faticaspren come getti nell’aria. Erano il segno di una persona che aveva superato i limiti di ciò che pensava di poter fare.
Sul viso, Evi aveva un sorriso di tranquilla soddisfazione. Un’espressione di vittoria. Dalinar si fece largo tra levatrici e chirurghi troppo affettuosi, accostandosi al letto. Lei protese una mano fiacca. La sinistra, avvolta solo in una sottile copertura che terminava al polso. Era un segno di intimità per un Alethi. Ma Evi preferiva comunque quella mano.
«Il bambino?» sussurrò lui, prendendogliela.
«Un maschio. Sano e forte.»
«Un maschio. Io… io ho un maschio?» Dalinar crollò in ginocchio accanto al letto. «E dov’è?»
«Lo stanno lavando, mio signore» disse una delle levatrici. «Lo riporteranno a breve.»
«Bottoni strappati» sussurrò Evi. «Hai combattuto di nuovo, Dalinar?»
«Solo un piccolo diversivo.»
«È quello che dici ogni volta.»
Dalinar strinse la mano attraverso la copertura, troppo euforico per ribattere a quel rimprovero. «Tu e Toh siete venuti ad Alethkar perché volevate qualcuno che vi proteggesse. Tu hai cercato un combattente, Evi.»
Lei gli strinse la mano a sua volta. Un’infermiera si avvicinò con un fagotto tra le braccia e Dalinar alzò lo sguardo stupefatto, incapace di alzarsi.
«Ora,» spiegò la donna «sulle prime molti uomini sono in ansia quando…»
Si interruppe quando Dalinar recuperò le forze e le prese il bambino dalle braccia. Tenne il piccolo sollevato con entrambe le mani, lasciandosi sfuggire una risata esultante, con gloriaspren che spuntavano attorno a lui come sfere dorate.
«Mio figlio!» esclamò.
«Mio signore!» disse l’infermiera. «State attento!»
«È un Kholin» ribatté Dalinar, cullando il bambino. «È fatto di un materiale resistente.» Guardò il bimbo dalla faccia rossa che si dibatteva e agitava i pugni minuscoli. Aveva capelli sorprendentemente spessi, un misto di nero e biondo. Un bel colore. Peculiare.
“Che tu possa avere la forza di tuo padre,” pensò Dalinar, sfregando la faccia del bimbo con un dito “e almeno parte della compassione di tua madre, piccolino.”
Guardando quella faccina, colmo di gioia, finalmente comprese. Era quello il motivo per cui Gavilar pensava così tanto al futuro, ad Alethkar, a creare un regno che durasse. Finora la vita di Dalinar lo aveva macchiato di cremisi e gli aveva stracciato l’anima. Il suo cuore era così incrostato di crem che era diventato duro come pietra.
Ma questo bambino… lui poteva governare il principato, appoggiare suo cugino il re e condurre una vita di onore.
«Il suo nome, luminobile?» chiese Ishal, un’attempata fervente della Devoteria della Purezza. «Vorrei bruciare i sigilloglifi adeguati, se vi compiace.»
«Il nome…» disse Dalinar. «Adoda.» Luce. Guardò verso Evi, che annuì concorde.
«Senza un suffisso, mio signore? Adodan? Adodal?»
«Lin» sussurrò Dalinar. Nato alla. «Adolin.» Un buon nome, tradizionale, pieno di significato.
Con rammarico, Dalinar consegnò il bambino alle infermiere, che lo restituirono alla madre, spiegando che era importante per il piccolo imparare a succhiare il prima possibile. Molti presenti nella stanza iniziarono a uscire per consentire un po’ di intimità e, mentre lo facevano, Dalinar notò una figura regale in piedi sul fondo. Come aveva fatto a non accorgersi di Gavilar?
Il fratello lo prese per un braccio e gli diede una bella pacca sulla schiena mentre lasciavano la stanza. Dalinar era così frastornato che la sentì a malapena. Aveva bisogno di festeggiare: pagare da bere a ogni uomo dell’esercito, dichiarare una festività o semplicemente correre per la città urlando di gioia. Era diventato padre!
«Una giornata eccellente» disse Gavilar. «Davvero eccellente.»
«Come fai a contenerlo?» chiese Dalinar. «Questo entusiasmo?»
Gavilar sogghignò. «Lascio che l’emozione sia la mia ricompensa per il lavoro che ho fatto.»
Dalinar annuì, poi studiò il fratello. «Che c’è?» chiese. «Qualcosa non va?»
«Nulla.»
«Non mentirmi.»
«Non voglio rovinare la tua giornata meravigliosa.»
«Continuare a domandarmi di cosa si tratta la rovinerà più di qualunque cosa tu possa dire, Gavilar. Sputa il rospo.»
Il re rimuginò, poi indicò con un cenno del capo lo studio di Dalinar. Attraversarono la stanza principale, superando mobili fin troppo appariscenti: variopinti, con motivi floreali e cuscini morbidi. In parte la colpa era del gusto di Evi, anche se di recente era soltanto… vita. La sua vita era morbida.
Lo studio era più di suo gusto. Alcune sedie, un focolare, un tappeto semplice. Un armadietto con vari vini esotici e forti, ciascuno in una bottiglia particolare. Erano di quelli che era quasi un peccato bere, dato che si sarebbe guastata l’esposizione.
«Si tratta di tua figlia» ipotizzò Dalinar. «La sua pazzia.»
«Jasnah sta bene e si sta ristabilendo. Non è quello.» Gavilar si accigliò e assunse un’espressione pericolosa. Aveva acconsentito a portare una corona dopo un lungo dibattito: il Creasole non ne aveva indossata una e le storie dicevano che anche Jezerezeh’Elin le aveva rifiutate. Ma le persone adoravano i simboli, e molti re occidentali portavano la corona. Gavilar aveva optato per un cerchietto di ferro nero. Quanto più i suoi capelli si ingrigivano, tanto più era facile notarlo.
Un servitore aveva acceso il fuoco nel camino, anche se stava ardendo basso, con solo un fiammaspren che strisciava lungo i tizzoni.
«Sto fallendo» disse Gavilar.
«Cosa?»
«Rathalas. La Faglia.»
«Ma io pensavo che…»
«Propaganda» affermò Gavilar. «Fatta per zittire voci critiche a Kholinar. Tanalan sta radunando un esercito e sistemandosi nelle sue fortificazioni. Peggio ancora, penso che gli altri altiprincipi lo stiano incoraggiando. Vogliono vedere come gestisco la faccenda.» Sogghignò. «Dicono che io mi sia rammollito nel corso degli anni.»
«Si sbagliano.» Dalinar l’aveva visto in quei mesi in cui aveva vissuto con Gavilar. Suo fratello non si era rammollito. Aveva ancora sete di conquista come sempre; semplicemente usava un approccio diverso. Scontri di parole, manovre di principati in posizioni in cui erano costretti a obbedire.
I tizzoni sul fuoco sembravano pulsare come il battito di un cuore. «Ti interroghi mai sull’epoca in cui questo regno era davvero grande, Dalinar?» chiese Gavilar. «Quando la gente guardava agli Alethi con rispetto. Quando i re cercavano i loro consigli. Quando eravamo… Radiosi.»
«Traditori» disse Dalinar.
«L’atto di una singola generazione nega forse molte generazioni di dominio? Noi ammiriamo il Creasole quando il suo regno durò solo un batter d’occhio… eppure ignoriamo i secoli sotto la guida dei Radiosi. Per quante Desolazioni difesero l’umanità?»
«Uhm…» I ferventi ne avevano parlato nelle preghiere, giusto? Tirò a indovinare. «Dieci?»
«Un numero privo di senso» commentò Gavilar agitando le dita. «Gli storici dicono semplicemente “dieci” perché sembra significativo. A ogni modo, ho fallito nei miei sforzi diplomatici.» Si voltò verso Dalinar. «È il momento di mostrare al regno che non ci siamo rammolliti, fratello.»
“Oh no.” Poche ore prima avrebbe saltato dall’entusiasmo. Ma dopo aver visto quel bambino…
“Sarai di nuovo trepidante tra qualche giorno” si disse Dalinar. “Un uomo non può cambiare da un momento all’altro.”
«Gavilar» mormorò. «Sono preoccupato.»
«Sei ancora lo Spinanera, Dalinar.»
«Non sono preoccupato del fatto di poter vincere o meno qualche battaglia.» Dalinar si alzò in piedi, gettando all’indietro la sedia nella fretta. Prese a camminare avanti e indietro. «Sono come un animale, Gavilar. Hai sentito della rissa alla taverna? Tempeste! Non mi si può lasciare tra la gente.»
«Tu sei come ti ha fatto l’Onnipotente.»
«Te lo sto dicendo, sono pericoloso. Certo, posso schiacciare questa piccola ribellione e bagnare Giuramento in un po’ di sangue. Grandioso. Stupendo. E poi? Tornerò qui e mi rinchiuderò di nuovo in una gabbia?»
«Io… forse ho qualcosa che ti aiuterà.»
«Bah. Ho provato a vivere una vita tranquilla. Non riesco a stare in mezzo a una discussione politica interminabile. Mi serve qualcosa di più di semplici parole.»
«Stai solo tentando di contenerti: hai provato a scacciare la sete di sangue, ma non l’hai sostituita con nient’altro. Vai a fare quello che ordino, poi torna e potremo discutere ancora.»
Dalinar si fermò vicino al fratello, poi fece un unico passo deciso nella sua ombra. “Ricordati questo. Ricordati che tu lo servi.” Non sarebbe mai tornato a quel punto che l’aveva quasi spinto ad aggredirlo.
«Quando devo partire per la Faglia?» chiese Dalinar.
«Non lo farai.»
«Ma hai appena detto…»
«Ti sto mandando in battaglia, ma non contro la Faglia. Il nostro regno ha subito pressioni dall’esterno. Una nuova dinastia ci sta minacciando da Herdaz: una casata reshi ha preso il potere lì. E i Veden stanno saccheggiando Alethkar a sudovest. Affermano che si tratta di banditi, ma le forze sono troppo organizzate. È una prova per vedere come reagiamo.»
Dalinar annuì lentamente. «Tu vuoi che vada a combattere ai nostri confini. Che ricordi a tutti che siamo ancora capaci di usare la spada.»
«Esatto. È un momento delicato per noi, fratello. Gli altiprincipi dubitano. Una Alethkar unita vale la fatica? Perché inchinarsi davanti a un re? Tanalan è la manifestazione delle loro domande, ma è stato attento a non sconfinare nell’aperta ribellione. Se lo attaccassi, gli altri altiprincipi potrebbero unirsi ai ribelli. Rischieremmo di far finire in pezzi il regno e dover ricominciare da capo.
«Io non lo permetterò. Io avrò una Alethkar unificata. Perfino se dovessi colpire gli altiprincipi così forte da ridurli a fondersi assieme per il calore del colpo. Hanno bisogno di ricordarselo. Vai prima a Herdaz, poi a Jah Keved. Rammenta a tutti quanti perché ti temono.»
Gavilar incontrò gli occhi di Dalinar. No… non era rammollito. Ora pensava come un re. Ragionava a lungo termine, ma Gavilar Kholin era determinato come sempre.
«Sarà fatto» replicò Dalinar. Tempeste, quel giorno era stato un turbine di emozioni. Si avviò verso la porta. Voleva rivedere il bambino.
«Fratello?» chiese Gavilar.
Dalinar si voltò e lo fissò, inondato dalla luce sbiadita di un fuoco che stava per spegnersi.
«Le parole sono importanti» continuò Gavilar. «Molto più di quanto tu creda.»
«Forse» ribatté Dalinar. «Ma se fossero così potenti, non avresti bisogno della mia spada, giusto?»
«Forse. Non riesco a fare a meno di pensare che le parole sarebbero sufficienti, se solo sapessi quali sono quelle giuste da dire.»