Posso indicare il momento in cui ho deciso per certo che questo resoconto dovesse essere scritto. Ero sospeso tra i reami, guardando dentro Shadesmar – il reame degli spren – e oltre.
Da Giuramento, prefazione
Kaladin arrancava in un campo di litobulbi silenziosi, pienamente consapevole di essere troppo in ritardo per impedire un disastro. Il suo fallimento gravava su di lui dandogli una sensazione quasi fisica, come il peso di un ponte che fosse costretto a portare tutto da solo.
Dopo così tanto tempo nella parte orientale delle terre tempestose, si era quasi dimenticato di che aspetto avesse un paesaggio fertile. Lì i litobulbi crescevano grandi quasi quanto barili, con viticci spessi quanto il suo polso che si protendevano all’infuori e lappavano acqua dalle pozzanghere sulla pietra. Distese di erba verde brillante, alta circa tre piedi quando stava dritta, si ritiravano in cunicoli davanti a lui. Il campo era chiazzato di vitaspren luccicanti, come granelli di polvere verde.
Vicino alle Pianure Infrante l’erba gli arrivava a stento fino alla caviglia e cresceva in chiazze giallastre sul lato sottovento delle colline. Kaladin rimase sorpreso di scoprire che non si fidava dell’erba più alta e folta che aveva davanti. Lì poteva nascondersi qualcuno in agguato, accovacciandosi per poi attendere che l’erba si rialzasse. Come mai Kaladin non ci aveva mai fatto caso? Aveva corso per campi come quello quando giocava a “prendimi” con suo fratello, cercando di vedere chi era abbastanza veloce da afferrare manciate d’erba prima che si nascondesse.
Kaladin si sentiva svuotato. Consumato. Quattro giorni prima, aveva viaggiato attraverso la Giuriporta fino alle Pianure Infrante, poi aveva volato a tutta velocità verso nordovest. Pieno di Folgoluce fino a scoppiare – e avendone con sé molta altra ancora dentro le gemme – era stato deciso a raggiungere la sua casa, Hearthstone, prima del ritorno della Tempesta Infinita.
Dopo solo mezza giornata, aveva esaurito la Folgoluce da qualche parte nel principato di Aladar. Da allora aveva continuato a camminare. Forse sarebbe potuto volare fino a Hearthstone se solo fosse stato più addestrato nei suoi poteri. Invece aveva percorso oltre mille miglia in mezza giornata, ma per quell’ultimo tratto – una novantina di miglia – aveva impiegato tre strazianti giorni.
Non aveva preceduto la Tempesta Infinita. Era arrivata prima di lui quel giorno, verso mezzodì.
Kaladin notò un detrito spuntare dall’erba e arrancò in quella direzione. Il fogliame si ritrasse cortesemente davanti a lui, rivelando una zangola di legno rotta, di quelle usate per trasformare il latte di scrofa in burro. Kaladin si accucciò e posò le dita sulla scheggia di legno, poi guardò verso un altro pezzo di legno che spuntava sopra le punte dei fili d’erba.
Syl sfrecciò giù come un nastro di luce, passandogli accanto alla testa e ruotando attorno al pezzo di legno.
«È il bordo di un tetto» disse Kaladin. «Il margine che sporge sul lato sottovento di un edificio.» Probabilmente apparteneva a un capanno degli attrezzi, a giudicare dagli altri rottami.
Alethkar non era nelle terre tempestose più inospitali, ma non era nemmeno come un territorio occidentale per gente dalla pelle morbida. Lì gli edifici erano costruiti bassi e tozzi, con i lati più resistenti puntati a est verso l’Origine, come la spalla di un uomo ferma e pronta a sostenere la forza di un impatto. Le finestre si trovavano solo sul lato sottovento, quello rivolto a ovest. Come l’erba e gli alberi, l’umanità aveva imparato a resistere alle tempeste.
Questo perché soffiavano sempre nella stessa direzione. Kaladin aveva fatto il possibile per preparare i villaggi e le cittadine che aveva attraversato all’arrivo della Tempesta Infinita, che avrebbe soffiato nella direzione sbagliata e avrebbe trasformato i parshi in Nichiliferi distruttivi. Nessuno in quelle cittadine possedeva delle distacanne, però, quindi Kaladin non aveva potuto contattare casa sua.
Non era stato abbastanza veloce. Poco prima, aveva trascorso il periodo della Tempesta Infinita all’interno di una tomba che aveva scavato nella roccia usando la sua Stratolama, ovvero Syl stessa che poteva manifestarsi nella forma dell’arma che lui desiderava. Per la verità, quella tempesta non era stata affatto devastante come quella in cui aveva affrontato l’Assassino in Bianco. Ma i detriti che aveva trovato lì dimostravano che aveva provocato abbastanza danni.
Il semplice ricordo di quella tempesta rossa fuori del suo rifugio fece montare il panico dentro di lui. La Tempesta Infinita era così sbagliata, così innaturale, come un bambino nato senza faccia. Alcune cose non sarebbero dovute esistere e basta.
Si alzò in piedi e continuò per la sua strada. Si era cambiato l’uniforme prima di partire: la sua vecchia divisa era lacera e imbrattata di sangue. Ora indossava una generica uniforme di ricambio kholin. Gli sembrava sbagliato non portare il simbolo del Ponte Quattro.
Sormontò una collina e notò un fiume alla sua destra. Degli alberi spuntavano lungo le rive, assetati di acqua supplementare. Doveva trattarsi dell’Hobble. Perciò se avesse guardato dritto a ovest…
Con la mano che gli schermava gli occhi, riuscì a vedere colline che erano state ripulite da erba e litobulbi. Presto sarebbero state ricoperte di seme-crem e i polipi lavis sarebbero cominciati a germogliare. Quel processo non era ancora iniziato; quei giorni avrebbero dovuto essere il Pianto. La pioggia sarebbe dovuta cadere proprio in quel momento, leggera e costante.
Syl sfrecciò di fronte a lui, un nastro di luce. «I tuoi occhi sono di nuovo marrone» osservò.
Bastavano poche ore senza evocare la sua Stratolama. Quando l’avesse fatto, i suoi occhi sarebbero sbiaditi fino a un vitreo azzurro chiaro, quasi lucente. Syl trovava quella mutazione affascinante; Kaladin non aveva ancora deciso cosa provasse al riguardo.
«Siamo vicini» disse Kaladin indicando. «Quei campi appartengono a Hobbleken. Siamo forse a due ore di distanza da Hearthstone.»
«Allora sarai a casa!» disse Syl, il nastro di luce che si attorcigliava e prendeva la forma di una giovane donna in un havah fluente, attillato e abbottonato sopra la vita, con la manosalva coperta.
Kaladin grugnì e si avviò giù per il pendio, desiderando della Folgoluce. Esserne privo ora, dopo averne avuta così tanta dentro di sé, gli faceva avvertire come un vuoto riecheggiante. Avrebbe provato quella sensazione ogni volta che l’avesse esaurita?
La Tempesta Infinita non aveva ricaricato le sue sfere, naturalmente. Né con Folgoluce, né con qualche altra energia, come aveva temuto possibile.
«Ti piace il vestito nuovo?» chiese Syl, agitando la manosalva coperta mentre se ne stava sospesa in piedi per aria.
«Sembra strano su di te.»
«Voglio che tu sappia che ci ho pensato un sacco. Ho passato ore intere a immaginare come… Oh! Quello cos’è?»
Syl si tramutò in una piccola nube temporalesca che schizzò verso un lurg aggrappato a una roccia. Esaminò l’anfibio grande quanto un pugno da un lato e poi dall’altro prima di lanciare un urletto di gioia e trasformarsi in un’imitazione perfetta della creatura, a eccezione del colore bianco-azzurro. Ciò fece spaventare l’esserino e lei ridacchiò, sfrecciando di nuovo verso Kaladin come un nastro di luce.
«Cosa stavamo dicendo?» chiese, prendendo la forma di una giovane donna e posandosi sulla sua spalla.
«Nulla di importante.»
«Sono certa che ti stavo rimproverando. Oh, sì, sei a casa! Evviva! Non sei eccitato?»
Lei non capiva… non se ne rendeva conto. A volte, malgrado tutta la sua curiosità, poteva essere inconsapevole.
«Ma… è casa tua…» disse Syl. Si rannicchiò. «Cosa c’è che non va?»
«La Tempesta Infinita, Syl» spiegò Kaladin. «Avremmo dovuto precederla.» Kaladin aveva sentito il bisogno di precederla.
Di sicuro qualcuno doveva essere sopravvissuto, giusto? Alla furia della tempesta e poi a quella peggiore che ne seguiva? Alla frenesia omicida di servitori trasformati in mostri?
Oh, Folgopadre! Perché non era stato più veloce?
Si costrinse ad accelerare di nuovo il passo, lo zaino appeso in spalla. Il peso era ancora gravoso, terribile, ma scoprì che doveva sapere. Doveva vedere.
Qualcuno doveva essere testimone di ciò che era successo a casa sua.
La pioggia riprese circa un’ora fuori da Hearthstone, perciò almeno gli schemi del clima non erano stati alterati del tutto. Purtroppo ciò significava camminare bagnato per il resto del tragitto. Schizzava tra pozzanghere dove crescevano pioggiaspren, candele blu con un occhio proprio sulla punta.
«Sarà tutto a posto, Kaladin» gli assicurò Syl dalla spalla. Aveva creato un ombrello per sé e indossava ancora il tradizionale abito vorin invece della sua solita gonna da ragazzina. «Vedrai.»
Il cielo si era rabbuiato quando finalmente Kaladin giunse in cima all’ultima collina di lavis e guardò giù in direzione di Hearthstone. Era preparato ad assistere alla distruzione, ma la vista lo turbò comunque. Alcuni degli edifici che ricordava semplicemente… non c’erano più. Altri erano ancora in piedi ma senza il tetto. Non poteva vedere l’intera cittadina da quel punto di osservazione, non nell’oscurità del Pianto, ma molte delle strutture che riusciva a distinguere erano vuote e in rovina.
Rimase lì per parecchio tempo mentre calava la notte. Non notò nemmeno un barlume di luce nella cittadina. Era vuota.
Morta.
Una parte di lui si accartocciò dentro, rannicchiata in un angolo, stanca di essere presa a frustate così spesso. Aveva accettato il suo potere; aveva intrapreso il sentiero di un Radioso. Perché non era stato sufficiente?
I suoi occhi cercarono immediatamente casa sua ai margini della cittadina. Ma no. Perfino se fosse riuscito a vederla nel buio di quella sera piovosa, non voleva andarci. Non ancora. Non era in condizioni di affrontare la morte che avrebbe potuto trovare.
Invece aggirò Hearthstone sul lato nordoccidentale, dove una collina portava fino al maniero del capocittà. Le cittadine rurali più grandi come quella erano una specie di fulcro per le piccole comunità contadine che le circondavano. Per tale motivo, Hearthstone aveva la disgrazia di ospitare un governante occhichiari di un certo prestigio. Il luminobile Roshone, un uomo le cui avide abitudini avevano rovinato più di una vita.
“Moash…” pensò Kaladin mentre arrancava su per la collina verso il maniero, rabbrividendo nel gelo e nell’oscurità. Avrebbe dovuto affrontare il tradimento del suo amico – e l’attentato quasi riuscito ai danni di Elhokar – a un certo punto. Per ora, aveva ferite più urgenti da medicare.
Il maniero era il luogo dove venivano tenuti i parshi della cittadina; dovevano aver cominciato da lì a scatenarsi. Kaladin era piuttosto certo che, se si fosse imbattuto nel corpo maciullato di Roshone, non ne sarebbe stato troppo affranto.
«Wow» disse Syl. «Tristezzaspren.»
Kaladin alzò lo sguardo e notò uno spren insolito che si dibatteva lassù. Lungo, grigio, come una striscia di stoffa sbrindellata al vento. Si attorcigliò attorno a lui, svolazzando. Ne aveva visto uno simile soltanto una o due volte in precedenza.
«Perché sono così rari?» chiese Kaladin. «La gente si sente triste di continuo.»
«Chi lo sa?» disse Syl. «Alcuni spren sono comuni. Alcuni meno.» Gli picchiettò la spalla. «Sono piuttosto certa che a mia zia piacesse cacciare questi spren.»
«Cacciarli?» domandò Kaladin. «Vuoi dire cercare di individuarli?»
«No. Come voi cacciate i grangusci. Non riesco a ricordare il suo nome…» Syl inclinò il capo, ignara del fatto che la pioggia cadesse attraverso la sua forma. «Non era davvero mia zia. Solo un onorespren a cui mi riferivo a quel modo. Che ricordo bizzarro.»
«Sembra che te ne stiano tornando in mente sempre di più.»
«Quanto più tempo sto con te, tanto più accade. Sempre che tu non tenti di uccidermi di nuovo.» Gli scoccò un’occhiata in tralice. Anche se era buio, lei brillava abbastanza da permettergli di distinguere quell’espressione.
«Quante volte hai intenzione di pretendere le mie scuse per quello?»
«Quante volte l’ho fatto finora?»
«Almeno cinquanta.»
«Bugiardo» disse Syl. «Non possono essere più di venti.»
«Mi dispiace.»
Un momento. Era una luce quella più avanti?
Kaladin si fermò sul sentiero. Era una luce e proveniva dal maniero. Sfarfallava irregolare. Un fuoco? Il maniero era in fiamme? No, sembravano esserci candele o lanterne all’interno. A quanto pareva, qualcuno era sopravvissuto. Umani o Nichiliferi?
Doveva stare attento, anche se mentre si avvicinava scoprì di non volerlo essere. Voleva essere avventato, arrabbiato, distruttivo. Se avesse scoperto le creature che gli avevano sottratto la sua casa…
«Stai pronta» borbottò a Syl.
Lasciò il sentiero, che veniva tenuto sgombro da litobulbi e altre piante, e strisciò con cautela verso il maniero. Filtrava luce tra le assi che erano state inchiodate sulle finestre dell’edificio, a rimpiazzare il vetro sicuramente rotto dalla Tempesta Infinita. Kaladin fu sorpreso che il maniero fosse sopravvissuto tanto bene. Il portico era stato strappato via, ma il tetto aveva resistito.
La pioggia mascherava altri suoni e rendeva difficile vedere molto di più, ma dentro c’era qualcuno o qualcosa. Delle ombre si mossero davanti alle luci.
Col cuore che palpitava, Kaladin fece il giro verso il lato settentrionale dell’edificio. Lì doveva esserci l’ingresso dei servitori, assieme agli alloggi dei parshi. Dall’interno del maniero proveniva una quantità insolita di rumore. Tonfi. Movimento. Come una tana piena di ratti.
Dovette procedere a tentoni attraverso i giardini. I parshi erano stati ospitati in una piccola struttura costruita all’ombra del maniero, con un’unica stanza aperta e panche per dormire. Kaladin la raggiunse a tastoni e sentì con le dita un grosso foro squarciato sul lato.
Un rumore raschiante giunse alle sue spalle.
Kaladin ruotò mentre la porta posteriore del maniero si apriva, la sua intelaiatura deformata che sfregava contro la pietra. Si tuffò per nascondersi dietro un cumulo di scistoscorza, ma la luce si riversò su di lui fendendo la pioggia. Una lanterna.
Kaladin allungò la mano da un lato, pronto a evocare Syl, tuttavia la persona che uscì dal maniero non era un Nichilifero, bensì una guardia umana con un vecchio elmo punteggiato di ruggine.
L’uomo sollevò la lanterna. «Ehi» urlò a Kaladin, armeggiando per prendere la mazza che portava alla cintura. «Ehi! Tu laggiù!» Riuscì a staccare l’arma e la tenne in una mano tremante. «Cosa sei? Un disertore? Vieni qui alla luce e lascia che ti veda.»
Kaladin si alzò con cautela. Non riconosceva il soldato, ma doveva essere qualcuno che era sopravvissuto all’attacco dei Nichiliferi oppure faceva parte di una spedizione venuta a investigare dopo il disastro. A ogni modo, era il primo buon segno che avesse trovato dal suo arrivo.
Sollevò le mani – era disarmato tranne per Syl – e lasciò che la guardia lo costringesse a entrare nell’edificio.