Come le onde del mare devono continuare a sollevarsi, così la nostra volontà continui risoluta.
Da soli.
I Nichiliferi portarono Moash a Revolar, una città nell’Alethkar centrale. Una volta lì, lo lasciarono fuori dell’abitato e lo spintonarono verso un gruppo di parshi inferiori.
Gli facevano male le braccia per essere stato trasportato. Perché non avevano usato i loro poteri per Sferzarlo verso l’alto e renderlo più leggero, come avrebbe fatto Kaladin?
Stiracchiò le braccia e si guardò attorno. Era stato a Revolar molte volte, quando lavorava per una carovana che viaggiava regolarmente a Kholinar. Purtroppo, ciò non significava che avesse visto molto della città. Ogni agglomerato di grandi dimensioni aveva un gruppetto di edifici ai margini per quelli come lui: nomadi dei tempi moderni che lavoravano con le carovane o effettuavano consegne. La gente dei margini: così qualcuno li aveva definiti. Uomini e donne che si muovevano abbastanza vicini alla civiltà da ripararsi dalle intemperie quando la situazione volgeva al brutto, ma che non vi appartenevano davvero.
Da quello che sembrava, Revolar aveva acquisito la cultura dei margini ora… fin troppo. Pareva che i Nichiliferi avessero occupato tutto quel folgorato posto, esiliando gli umani nei sobborghi.
I Nichiliferi lo lasciarono senza una parola, pur avendolo trasportato per tutta quella distanza. I parshi che lo presero in custodia erano una sorta di ibrido tra i guerrieri parshendi e i normali, docili parshi che aveva conosciuto nel corso di parecchi viaggi con la carovana. Parlavano in perfetto alethi mentre lo spintonavano verso un gruppo di umani in un piccolo recinto.
Moash si sistemò per aspettare. Sembrava che i Nichiliferi avessero pattuglie sparse a perlustrare la zona per catturare gli umani rimasti indietro. Alla fine, i parshi scortarono lui e gli altri verso uno dei grossi rifugi antitempesta fuori della città, usati per ospitare eserciti o più carovane durante le altempeste.
«Non create disordini» disse una parshi, guardando proprio Moash. «Non lottate o sarete uccisi. Non provate a fuggire o sarete picchiati. Ora siete voi gli schiavi.»
Diversi umani – coloni, a giudicare dall’aspetto – scoppiarono a piangere. Stringevano forte dei miseri fagotti che i parshi ispezionavano. Moash riusciva a leggere i segni della loro perdita negli occhi arrossati e nelle cenciose proprietà. La Tempesta Infinita aveva spazzato via le loro fattorie. Erano venuti nella grande città in cerca di riparo.
Lui non portava nulla di valore, non più, e i parshi lo spinsero dentro prima degli altri. Entrò nel rifugio provando un senso surreale di… abbandono? Aveva passato il viaggio fin lì supponendo che sarebbe stato giustiziato oppure interrogato. Invece avevano fatto di lui un semplice schiavo? Perfino nell’esercito di Sadeas, tecnicamente lui non era mai stato uno schiavo. Assegnato alle sortite con i ponti, sì. Mandato a morire. Ma non aveva mai portato i marchi sulla fronte. Tastò il tatuaggio del Ponte Quattro sotto la camicia, sulla spalla sinistra.
Il vasto rifugio antitempesta dal soffitto alto aveva la forma di un’enorme pagnotta di pietra. Moash vi passeggiò dentro, le mani infilate nelle tasche della giacca. Gruppi di persone rannicchiate lo fissavano con ostilità, anche se lui non era che un profugo come gli altri.
Era sempre stato trattato in modi ostili, in qualunque folgorato posto andasse. Un giovane come lui, troppo grosso e ovviamente troppo sicuro di sé per un occhiscuri, era considerato una minaccia. Si era unito alle carovane per avere qualcosa di produttivo da fare, incoraggiato dai suoi nonni. Loro erano stati assassinati per i loro modi gentili, e Moash… lui aveva passato la sua vita a fare i conti con sguardi del genere.
Un uomo solo, uno che non potevi controllare, era pericoloso. Lui era intrinsecamente spaventoso solo a causa di ciò che era. E nessuno lo avrebbe mai accolto.
“Tranne il Ponte Quattro.”
Ebbene, il Ponte Quattro era stato un caso speciale e lui aveva fallito quella prova. Graves aveva avuto ragione a dirgli di tagliar via la mostrina. Questo era ciò che era in realtà. L’uomo che tutti guardavano con diffidenza, tenendo stretti i propri figli e facendogli cenno di passare oltre.
Procedette per il centro della struttura, che era così ampia da aver bisogno di pilastri a sostenere il soffitto. Quelli si levavano come alberi, Animutati proprio dalla roccia sottostante. I margini dell’edificio erano affollati di persone, ma il centro era tenuto sgombro e pattugliato da parshi armati. Avevano montato delle postazioni con carri come punti elevati da cui i parshi si stavano rivolgendo alle folle. Moash andò verso uno di essi.
«Nel caso ci sia sfuggito qualcuno,» urlò il parshi «i contadini esperti devono presentarsi a rapporto da Bru all’ingresso della camera. Lui vi assegnerà un appezzamento di terra da lavorare. Abbiamo anche bisogno di lavoratori che portino l’acqua in città e di altri che sgomberino le macerie dell’ultima tempesta. Posso prenderne venti per ogni mansione.»
Gli uomini iniziarono a urlare la propria disponibilità e Moash si accigliò, sporgendosi verso un tizio lì accanto. «Ci offrono un lavoro? Non siamo schiavi?»
«Già» disse quello. «Schiavi che non mangiano se non lavorano. Ci lasciano scegliere cosa preferiamo fare, anche se non è un granché come folgorata scelta. Un tipo di fatica o un altro.»
Con un sussulto, Moash si rese conto che quell’uomo aveva occhi verde pallido. Tuttavia si riscosse, alzò la mano e si offrì di portare l’acqua, sebbene un tempo fosse lavoro da parshi. Be’, quella scena non poteva che rallegrare la giornata di un uomo… Moash si ficcò di nuovo le mani nelle tasche e continuò a girare per la stanza, controllando ciascuna delle tre postazioni dove i parshi offrivano lavoro.
Qualcosa in quei parshi e nel loro alethi perfetto lo turbava. I Nichiliferi erano ciò che si era aspettato, con i loro accenti alieni e manifestazioni plateali di potere. Ma i normali parshi – molti di loro assomigliavano ai Parshendi ora, con quella statura più alta – sembravano sbalorditi dal rovesciamento della sorte quanto gli umani.
Ognuna delle tre postazioni si occupava di una tipologia diversa di lavoro. Quella all’altra estremità cercava contadini, donne che sapessero cucire e ciabattini. Cibo, uniformi, stivali. I parshi si stavano preparando per la guerra. Chiedendo in giro, Moash venne a sapere che avevano già preso fabbri, armaioli e costruttori di frecce, e se qualcuno veniva scoperto a nascondere la propria abilità in uno di quei tre mestieri, la sua intera famiglia si vedeva le razioni dimezzate.
La postazione centrale si occupava dei lavori elementari. Trasportare acqua, pulire, cucinare. L’ultima postazione per Moash era la più interessante. Era riservata ai lavori pesanti.
Si attardò lì, ascoltando un parshi che chiedeva volontari per tirare carri di provviste a seguito dell’esercito quando si fosse messo in marcia. A quanto pareva, non c’erano abbastanza chull per spostare carri per ciò che si prospettava.
Nessuno alzò la mano per quel compito. Sembrava un lavoro terrificante, per non parlare del fatto che avrebbe significato dirigersi verso la battaglia.
“Dovranno costringere le persone a farlo” pensò Moash. “Forse possono radunare un po’ di occhichiari e farli arrancare per le rocce come bestie da soma.” Gli sarebbe davvero piaciuto assistere a quella scena.
Mentre lasciava l’ultima postazione, Moash notò un gruppo di uomini con lunghi bastoni, appoggiati contro la parete. Stivali resistenti, otri in foderi assicurati a una coscia e un set da camminata cucito nei pantaloni dall’altro lato. Sapeva per esperienza cosa conteneva: una scodella, un cucchiaio, una tazza, ago, filo, toppe e acciarino con esche.
Gente delle carovane. I bastoni lunghi servivano per dare dei colpi ai gusci dei chull mentre camminavano accanto a loro. Lui aveva indossato un completo del genere molte volte, anche se parecchie carovane con cui aveva lavorato usavano parshi per tirare i carri invece dei chull. Erano più veloci.
«Ehi» disse, dirigendosi verso i carovanieri. «Guff è ancora in giro?»
«Guff?» chiese uno di loro. «Il vecchio carraio? Alto mezzo giunco? Che impreca ogni due per tre?»
«Proprio lui.»
«Credo che sia laggiù» disse il giovane, indicando con il suo bastone. «Nelle tende. Ma non c’è lavoro, amico.»
«I testadiguscio stanno per mettersi in marcia» osservò Moash, indicando col pollice alle sue spalle. «Avranno bisogno di carovanieri.»
«Le posizioni sono al completo» ribatté un altro degli uomini. «C’è stato uno scontro per vedere chi avrebbe ottenuto quei lavori. Tutti gli altri tireranno i carri. Non attirare troppo l’attenzione altrimenti ti schiafferanno addosso una bardatura. Bada a quello che ti dico.»
Sorrisero a Moash con aria amichevole e lui rivolse loro un vecchio saluto da carovanieri – molto simile a un gesto volgare tanto da essere frainteso da chiunque altro – e si avviò nella direzione che avevano indicato. Tipico. I carovanieri erano una grande famiglia e, proprio come una famiglia, inclini a bisticciare.
Le “tende” erano in realtà alcuni teli che erano stati tirati dal muro fino a delle aste infilate in secchi pieni di roccia per mantenerli stabili. Ciò creava una specie di cunicolo lungo quella parete, e sotto molte persone anziane tossivano e tiravano su col naso. Era quasi buio, solo con qualche pezzo ogni tanto su una cassa rovesciata a dare luce.
Moash distinse i carovanieri dai loro accenti. Chiese di Guff – che era uno degli uomini che aveva conosciuto all’epoca – e gli fu concesso di entrare più in profondità lungo il cunicolo di tende in ombra. Alla fine, trovò il vecchio Guff seduto proprio nel mezzo, come per impedire alla gente di proseguire. Stava levigando un pezzo di legno che poteva sembrare un assale.
Strinse gli occhi nel vedere Moash avvicinarsi. «Moash?» disse. «Davvero? Che folgorata tempesta ti ha portato qui?»
«Non mi crederesti se te lo dicessi» disse Moash, accovacciandosi accanto al vecchio.
«Eri sulla carovana di Jam» ribatté Guff. «In direzione delle Pianure Infrante, vi abbiamo dato tutti per morti. Non avrei scommesso un pezzo spento sul tuo ritorno.»
«Una scommessa saggia» replicò Moash. Si ingobbì in avanti, posando le braccia sulle ginocchia. In quel cunicolo, il brusio di persone all’esterno sembrava distante, anche se era solo la stoffa a separarli.
«Figliolo?» chiese Guff. «Perché sei qui? Cosa vuoi?»
«Mi occorre solo essere quello che ero.»
«Questo ha senso quanto il folgorato Folgopadre che suona il flauto, ragazzo. Ma non saresti il primo che se n’è andato in quelle pianure ed è tornato non del tutto a posto. Ma no, non tu. Quella è la folgorata verità del Folgopadre, che io sia folgorato.»
«Hanno cercato di rovinarmi. Dannazione, mi hanno rovinato. Ma poi lui mi ha ricreato, un uomo nuovo.» Moash fece una pausa. «E io ho gettato via tutto quanto.»
«Certo, certo» disse Guff.
«Lo faccio ogni volta» sussurrò Moash. «Perché dobbiamo sempre prendere qualcosa di prezioso, Guff, e finire per odiarlo? Come se, essendo puro, ci ricordasse di quanto poco ce lo meritiamo. Ho impugnato la lancia e mi sono infilzato con essa…»
«La lancia?» chiese Guff. «Ragazzo, sei un folgorato soldato?»
Moash lo guardò con un sussulto, poi si alzò in piedi, si stiracchiò e gli mostrò la sua giacca dell’uniforme senza mostrina.
Guff strinse gli occhi al buio. «Vieni con me.» Il vecchio carraio si alzò – con difficoltà – e posò il suo pezzo di legno sulla sedia. Condusse Moash con un’andatura traballante più avanti nel cunicolo di stoffa ed entrarono in una parte della zona delimitata da tende che era più simile a una stanza, all’estremità più lontana del vasto rifugio. Lì sedeva un gruppo di una dozzina di persone circa, assorte in una conversazione furtiva, le sedie radunate assieme.
Un uomo presso la porta afferrò Guff per il braccio mentre si accingeva a entrare. «Guff? Tu dovresti essere di guardia, sciocco.»
«Io sono dannatamente di folgorata guardia, pisciasotto» ribatté quello, liberando il braccio con una scrollata. «Il capoccia voleva essere informato se avessimo trovato dei soldati. Ebbene, ho trovato un folgorato soldato, perciò pussa via.»
La guardia rivolse la sua attenzione a Moash, poi i suoi occhi guizzarono alla spalla. «Un disertore?»
Moash annuì. Era vero in più di un senso.
«E questo cos’è?» Uno degli uomini, un tizio alto, si alzò in piedi. Qualcosa nella sua sagoma, in quella testa calva, nel taglio dei vestiti…
«Un disertore, luminobile» rispose la guardia.
«Dalle Pianure Infrante» aggiunse Guff.
“L’altonobile” si rese conto Moash. “Paladar.” Consanguineo e reggente di Vamah, un uomo notoriamente severo. Negli anni passati, aveva quasi svuotato la città, cacciando via molti occhichiari che avevano diritto a viaggiare. Non era passata una carovana senza che qualcuno non si fosse lamentato della cupidigia e della corruzione di Paladar.
«Dalle Pianure Infrante?» chiese Paladar. «Eccellente. Dimmi, disertore, che notizie porti dagli altiprincipi? Sanno dei miei problemi qui? Posso aspettarmi che gli aiuti arrivino presto?»
“L’hanno messo al comando” pensò Moash, notando altri occhichiari. Indossavano abiti eleganti: non seta, naturalmente, ma uniformi su misura. Stivali eccezionali. Sul lato di quella stanza c’era cibo in abbondanza, mentre quelli là fuori dovevano stringere la cinghia e fare lavori pesanti.
Moash aveva cominciato a sperare… Ma naturalmente era stata una speranza stupida. L’arrivo dei Nichiliferi non aveva abbattuto gli occhichiari; i pochi che Moash aveva visto fuori erano soltanto quelli sacrificati. Gli occhiscuri adoranti ai margini lo confermavano. Soldati, guardie, alcuni mercanti favoriti.
Che andassero alla Dannazione! Gli era stata data un’opportunità di sfuggire agli occhichiari e questo non aveva fatto altro che renderli più desiderosi di essere loro servitori! In quel momento, circondato dalla meschinità della sua stessa specie, Moash ebbe una rivelazione.
Lui non era rovinato. Tutti loro lo erano. La società alethi: occhichiari e occhiscuri. Forse l’umanità intera.
«Ebbene?» domandò il reggente. «Parla, uomo!»
Moash rimase in silenzio, sopraffatto. Lui non era l’eccezione, che rovinava sempre ciò che gli veniva dato. Uomini come Kaladin erano la rara, rarissima eccezione.
Quelle persone lo dimostravano. Non c’era alcun motivo per obbedire agli occhichiari. Non avevano alcun potere, alcuna autorità. Gli occhiscuri avevano preso quell’opportunità e l’avevano gettata nel crem.
«Io… io penso che ci sia qualcosa di sbagliato in lui, luminobile» disse la guardia.
«Già» aggiunse Guff. «Forse avrei dovuto precisare che è folgoratamente fuori di testa ora, folgorato pisciasotto.»
«Bah!» esclamò il reggente, indicando Moash. «Gettatelo fuori. Non abbiamo tempo per le sciocchezze se vogliamo ristabilire il mio posto!» Indicò Guff. «Fai picchiare quello e un’altra volta metti una guardia competente, Ked, oppure il prossimo sarai tu!»
Il vecchio Guff lanciò un urlo mentre lo afferravano. Moash si limitò ad annuire. Sì. Ma certo. Così agivano di solito.
Le guardie lo presero sotto le braccia e lo trascinarono dal lato della tenda. Separarono la stoffa e lo trasportarono fuori. Superarono una donna cenciosa che stava cercando di dividere un unico pezzo di panpiatto fra tre bambini in lacrime. Probabilmente si poteva udire il loro pianto dalla tenda del luminobile, dove lui aveva un mucchio di pane impilato.
Le guardie lo gettarono di nuovo in “strada”, quella che correva lungo la metà del grosso rifugio. Gli dissero di stare alla larga, ma Moash le udì a malapena. Si rimise in piedi, si tolse la polvere di dosso, poi si diresse verso la terza delle postazioni, quella che cercava operai per lavoro duro.
Lì si offrì come volontario per il compito più difficile che avessero: tirare carri di provviste per l’esercito dei Nichiliferi.