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Dov’era Francesca?

Non riuscendo a contattarla, Jonah era andato a Chandler guidando come un pazzo. Si era precipitato a casa sua ma lei non aveva aperto la porta. Temendo che le fosse successo qualcosa di grave, aveva rotto una finestra per entrare in casa, poi si era guardato intorno in cerca d’indizi. Non c’erano segni di lotta; il letto era sfatto, cosa un po’ strana per un tipo preciso come lei. Sembrava che fosse uscita in fretta.

L’unico particolare insolito era la bottiglia di tequila sul tavolino del soggiorno. A Francesca non piacevano i liquori e Jonah non riusciva proprio a raffigurarsela intenta a bere, specialmente da sola. Però c’era un unico bicchiere vicino alla bottiglia...

Sentendo vibrare il cellulare in tasca, Jonah rispose senza neanche guardare il display, sperando che fosse lei.

«Pronto?»

«Sono Finch. Abbiamo Vaughn. L’abbiamo fermato venti minuti fa, non lontano dall’abitazione di Kelly. Non ha spiegato cosa facesse fermo in macchina a sorvegliare la sua casa. Non ha quasi aperto bocca, il che mi preoccupa. Ho appena parlato con l’ex vicina di Wanda che mi ha detto di aver visto diverse volte il pickup di Butch parcheggiato davanti alla sua casa, anche se Butch ha detto a Hunsacker di non averla mai sentita nominare. Sei proprio sicuro che dobbiamo concentrarci su Paris e non su Butch?»

«Sicurissimo» rispose Jonah. «Chiedigli se, secondo lui, sua moglie può avere in mente di fare del male a Francesca.»

Finch si staccò dal telefono e Jonah lo sentì riferire la domanda a Butch, ma non sentì la risposta.

«Ha biascicato un insulto che non sto qui a ripeterti» gli riferì Finch.

«Tu cosa ne pensi? Perché Paris dovrebbe avercela con Francesca, se non è una delle amanti di Butch?» osservo Jonah.

Francesca, però, per Paris rappresentava una minaccia per la sua famiglia. Se non si fosse introdotta nel deposito e non avesse tentato ostinatamente di dimostrare la colpevolezza di Butch, le indagini non si sarebbero concentrate su di loro.

«E chi lo sa?» sospirò Finch.

«Di’ a Butch che se non collabora e se Paris uccide Francesca o chiunque altro, farò in modo che finisca sulla sedia elettrica. Lui sarebbe condannato come complice, e allora chi si occuperebbe di Champ?»

«Ho già tentato di giocare questa carta» mormorò Finch, abbattuto.

«Ridiglielo!» insistette Jonah. «Distruggerlo diventerà l’unico scopo nella mia vita se Paris dovesse torcere anche un solo capello a Francesca. Digli che deve pensare al bene del figlio e aiutarvi a fermare quella pazza di sua moglie.»

Jonah sentì Finch riportare il messaggio a Butch, che gridò disperato: «Ma io non so niente!».

Aggiunse qualcos’altro che Jonah non riuscì a capire e che poi Finch gli riferì.

«Ha detto che non ha idea di dove sia sua moglie, altrimenti non sarebbe stato fermo in strada a sorvegliare la casa di Kelly sperando d’intercettarla.»

«E i Wheeler? Sanno qualcosa?»

«Ho parlato con entrambi, ma neanche loro sanno dove sia andata.»

«Cerca di rintracciare il segnale del cellulare di Francesca» gli ordinò Jonah, in tono concitato.

«Ma non sappiamo se sia veramente in pericolo» obiettò l’ispettore.

«Paris non si trova e Francesca è scomparsa. Non ci vuole un genio per capire che occorre muoversi, e alla svelta, prima che sia troppo tardi.»

E con questo Jonah chiuse la comunicazione e fece l’unica cosa possibile: provò a richiamare Francesca.

 

Quando sentì squillare il cellulare, Francesca si mosse per rispondere. Jonah aveva tentato di raggiungerla per tutta la mattina e lei non gli aveva risposto perché non aveva voglia di parlargli, adesso, però, aveva trovato la mazza da baseball e non vedeva l’ora di comunicargli la notizia. Sperava che fosse possibile dimostrare che era l’arma del delitto, una volta effettuate le analisi.

La cosa più importante per il momento era che la mazza poteva essere il primo collegamento con una delle altre vittime oltre a Julia. Quindi la sua ipotesi che gli omicidi di Dead Mule Canyon fossero legati agli abitanti del deposito non era poi così azzardata.

Però Francesca non ebbe modo di dire niente a Jonah. Appena mosse la mano per prendere il cellulare Paris la colpì violentemente con qualcosa.

A Francesca si annebbiò la vista, è capì che Paris aveva usato un Taser, un apparecchio che emetteva una scossa elettrica capace di stordire la vittima.

Disorientata, cercò di capire perché.

Il suo cervello riprese lentamente a funzionare mentre Paris la stava ammanettando e la insultava. Anche se la sua capacità di ragionare era ridotta, Francesca comprese che Paris l’aveva stordita perché aveva intenzione di ucciderla.

«Sei morta, stronza! Credevi di potermi allontanare dalla mia famiglia e aizzare la polizia contro mio marito? Ti faccio vedere che fine fa chi si mette contro di noi!» inveì Paris.

Francesca si rammaricò di non aver aperto lo sportello dall’altro lato dell’auto, quello più vicino alla strada. Non c’era molto traffico ma di tanto in tanto un’auto o un camion passavano. Sentendo il motore di una vettura che sfrecciava accanto a lei, non osò sperare che chi guidava si accorgesse che non era come sembrava e che, anche se l’Impala era accostata al bordo della carreggiata, aveva una gomma a terra.

Fingendo di non riuscire a controllare il corpo per gli spasmi muscolari dovuti alla scossa elettrica, Francesca agitò le braccia.

«Non ti è piaciuto, eh?» sogghignò Paris. «Ora stai ferma e lasciati ammanettare senza fare storie, altrimenti ti do un’altra scossa» la minacciò.

Francesca non poteva permetterglielo. Con le mani immobilizzate non avrebbe potuto difendersi. Tuttavia era distesa sul sedile posteriore a pancia in giù e non sapeva come opporsi.

Era inerme, in balia di una pazza.

Un attimo dopo sentì scattare le manette ai polsi, poi Paris la trascinò fuori dall’auto e, minacciandola con il Taser, le ordinò di avviarsi verso la sua macchina.

Nel momento in cui Paris si fermò a prendere la mazza dalla vettura, Francesca capì cosa stesse per succederle.

«Non ti senti in colpa per aver ammazzato tutte quelle donne?» le chiese mentre camminava barcollando e inciampando sul terreno irregolare.

«E perché dovrei?» Paris l’agguantò per la catenella che univa le manette. «Loro mi hanno fatto soffrire per prime.»

«La colpa è anche di Butch. April non sapeva che fosse sposato. Lui le ha mentito per ottenere ciò che voleva da lei.»

«Zitta, non è vero!»

«È inutile che eviti di guardare in faccia la realtà. Finirai in prigione e quello che stai facendo adesso peggiorerà la tua posizione, credimi.»

«Vedremo» replicò Paris strattonandola.

Francesca capì che Paris era così sicura di non essere considerata una sospetta da non essere impaurita.

Pensava davvero di cavarsela e, a quel punto, Francesca temeva che fosse vero.

Lei e Jonah avevano concentrato i loro sospetti su Vaughn e Dean e l’avevano trascurata completamente, perché cercavano un assassino che fosse anche uno stupratore.

Erano quasi arrivati alla sua auto quando Francesca sentì il rombo del motore di un’auto che si avvicinava e in lei si riaccese una fiammella di speranza che però durò poco perché Paris la fece girare rapidamente per nascondere le manette e l’auto passò oltre. Il conducente aveva lanciato un’occhiata nella loro direzione ma aveva visto due macchine ferme al bordo della carreggiata con due persone vicino, e sicuramente aveva dato per scontato che una delle due stesse dando una mano a quella che aveva forato.

Quando l’auto sparì in lontananza, Paris aprì lo sportello posteriore della BMW di Francesca, la fece salire spintonandola, poi fece il giro per mettersi al volante. Francesca non aveva idea di dove volesse portarla ma sapeva che le sue speranze di sopravvivenza diminuivano con il passare dei minuti. Per ucciderla, Paris non avrebbe avuto bisogno di fermarsi in una stanza di un motel; le bastava semplicemente addentrarsi nel deserto. Era chiaro che aveva scelto quel luogo d’incontro proprio perché era isolato.

Paris mise in moto e partì, poi sterzò allontanandosi dalla carreggiata e s’inoltrò tra i cactus, sobbalzando sul terreno accidentato. Non avrebbe dovuto fare molta strada; sarebbero bastati un paio di chilometri in mezzo al nulla per trovare il luogo perfetto per ucciderla indisturbata, al riparo da sguardi indiscreti.

Francesca decise di provare a saltare dall’auto in corsa finché aveva ancora la possibilità di essere vista da un’auto di passaggio, prima di allontanarsi troppo dalla strada, per cui si contorse per cercare di raggiungere la maniglia nonostante fosse ammanettata.

Quando si accorse di cosa tentava di fare, Paris imprecò sottovoce e si piegò leggermente di lato. Francesca pensò che stesse cercando a tentoni il Taser sul sedile, ma non gliene diede la possibilità. Era molto meglio morire cadendo da un’auto in corsa che farsi fracassare il cranio a colpi di mazza da baseball da una pazza.

Saltare era la sua unica possibilità di salvezza.

In qualche modo riuscì a far scattare la maniglia e a spingere lo sportello per aprirlo, poi chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e si tuffò fuori dall’abitacolo.

Paris aveva frenato ma Francesca piombò ugualmente al suolo con violenza. Il colpo con il terreno duro e irregolare le tolse il fiato. Sentì confusamente Paris che faceva inversione di marcia per tornare verso di lei e investirla e, nonostante fosse stordita dall’urto, si costrinse a rialzarsi e a correre.

Le sembrava di essere precipitata in un incubo.

Si trovava in pieno deserto in un pomeriggio torrido e assolato, inseguita da una pazza pluriomicida che voleva ucciderla. Ma non aveva tempo di pensare; doveva cercare di allontanarsi il più possibile dall’auto. Avrebbe avuto bisogno di qualcosa che la riparasse, ma il terreno era pianeggiante, senza dei massi dietro cui rifugiarsi.

L’Impala di Paris era la sua unica possibilità.

L’auto con Paris al volante si avvicinava inesorabilmente, per quanto Francesca si sforzasse di accelerare la corsa. In pochi secondi l’avrebbe investita, e Francesca impiegò quegli istanti preziosi per tuffarsi sotto la vettura di Paris.

Quando atterrò sul terreno scabro, sentì il tonfo spaventoso di due auto che entravano in collisione e un rumore di lamiere accartocciate sopra di sé.

 

Francesca udì confusamente una voce maschile.

Avrebbe voluto che fosse quella di Jonah, ma capì subito che non era lui. Sforzandosi di sollevare le palpebre pesantissime, pronunciò il suo nome in un flebile gemito.

«Stia tranquilla» disse la voce maschile.

Tra le ciglia Francesca riconobbe l’uniforme di un paramedico, ma non riuscì ad aprire di più gli occhi. Il sole l’abbagliava, i suoi raggi le puntavano dritti in faccia. Capì di essere distesa su una barella.

«Dove sono?» farfugliò.

«Nel deserto appena fuori Wickenburg. Ha subito delle lesioni.»

«Mi fa male tutto...»

«Ora le somministrerò un analgesico, stia calma. Vedrà che poi si sentirà meglio.»

Francesca sentì la puntura di un ago e capì che di lì a poco, insieme al dolore, avrebbe perso anche la lucidità, perciò si sforzò di parlare. Doveva sapere cos’era successo, e anche spiegare cos’aveva fatto Paris.

«Che fine ha fatto la donna che era con me?»

«Ha avuto un trauma cranico ma è in condizioni migliori delle sue.»

Francesca si umettò le labbra riarse. «Ha cercato di uccidermi. Deve farla arrestare!» si agitò mentre caricavano la barella sull’ambulanza.

«Si calmi. L’automobilista che ha chiamato il pronto intervento per denunciare l’incidente è un ex poliziotto. È stato lui a notare l’auto e ad andarle addosso per fermarla prima che potesse investirla. Ha tenuto d’occhio la donna che la inseguiva fino all’arrivo di un’autopattuglia che la sta scortando in ospedale. Dopo essere stata medicata, di lei si occuperà la polizia. È tutto sotto controllo.»

«Devo parlare con Jonah Young...» biascicò Francesca con voce impastata. «Lo trovi, per favore, è molto importante!»

«Per favore, cerchi di non agitarsi» le raccomandò il paramedico.

Le lacrime scesero dagli occhi di Francesca e le bagnarono le tempie e i capelli. Come poteva parlare con Jonah?

Era sempre più disperata ma, un attimo prima che il paramedico chiudesse il portello dell’ambulanza, un agente si avvicinò. Francesca si accorse che parlava al telefono.

«Aspetti» disse il poliziotto al paramedico. «Non chiuda. La signorina è in grado di parlare?»

«È molto confusa, perché?» rispose il paramedico.

«C’è il signor Jonah Young al telefono e insiste per parlarle.»

«Deve aspettare che arriviamo al pronto soccorso. La paziente ha diverse fratture e può aver subito delle lesioni interne. Dobbiamo sottoporla al più presto a degli accertamenti.»

«Aspetti!» Francesca cercò di alzarsi a sedere ma non riusciva a muoversi, trafitta da dolori lancinanti. «Devo parlare con lui!»

Era sempre più confusa e le parole le uscivano a stento dalle labbra, ma si accorse che qualcuno le metteva un cellulare contro l’orecchio e riconobbe la voce di Jonah. «Francesca?»

«Jonah... mi dispiace... Io... io voglio solo stare con te. Ti amo...»

Poi il buio la inghiottì.

 

Quando uscì dall’abisso senza luce in cui era piombata le parve che fossero trascorse ore, se non addirittura giorni. Era in un letto d’ospedale, ma Jonah era al suo fianco.

«Ehi, bentornata! Come ti senti?» le chiese con dolcezza, sorridendo.

Lei sollevò un angolo della bocca. «Ora meglio. Me la caverò?»

«Tornerai come nuova» le promise, chinandosi su di lei per darle un bacio sulla fronte. «È tutto finito, e ora nessuno potrà più separarci. Sono tuo per sempre.»