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Francesca Moretti non credeva ai propri occhi. Nel deposito di materiale di recupero c’erano così tanti oggetti sparsi e cianfrusaglie che quello che vedeva poteva essere qualunque cosa. Dopotutto non era così vicina da poter distinguere bene i particolari. Inoltre la sagoma era avvolta in una tela cerata e nascosta in parte da bancali di legno accatastati insieme a cavalletti e a tavole. Tuttavia più lo guardava e più si convinceva, a giudicare da forma e dimensioni, che doveva trattarsi di un corpo umano.

Piena di repulsione, si ritrasse e tornò ad acquattarsi nell’ombra del capanno più vicino. Il sole di luglio, abbacinante e cocente, splendeva impietoso su rottami di auto contorti e arrugginiti, telai di biciclette, attrezzi abbandonati.

Francesca aveva l’impressione di essere in un gigantesco forno. Stava seguendo una pista nella periferia di Prescott, in Arizona, e nonostante il clima torrido, non era il caldo a soffocarla, bensì il panico.

Le sembrava impossibile che potesse succederle di nuovo. Nel suo ultimo caso di una certa importanza, aveva trovato i resti di una donna scomparsa, Janice Grey. Era stata assunta per trovarla e la scoperta di ciò che rimaneva del suo corpo aveva avuto una risonanza nazionale. Probabilmente l’omicidio della donna sarebbe rimasto un caso irrisolto senza l’intervento di Francesca, che invece aveva trovato le prove dell’assassinio e permesso agli inquirenti di incastrare il colpevole.

Tuttavia non capitava spesso che un investigatore privato fosse coinvolto in un caso di omicidio. Eppure ora sembrava proprio che avesse trovato di nuovo un cadavere.

Appena Francesca aveva messo piede nel deposito, un grosso dobermann aveva cominciato ad abbaiare come un forsennato. Per fortuna era legato con una catena dietro la casa per cui non doveva preoccuparsi di essere aggredita mentre cercava di controllare se quello fosse il cadavere della sorella della sua cliente, come sospettava. Le parve di vedere delle ciocche di capelli castani che spuntavano da sotto il telo chiazzato di vernice.

Annusò l’aria e avvertì l’odore della carne in decomposizione. La posizione del corpo era tale da farle sospettare che fosse in pieno rigor mortis. Non serviva avvicinarsi di più. Quello che avrebbe visto l’avrebbe tenuta sveglia di notte e lei preferiva che fosse l’ispettore della Omicidi a occuparsi del caso da quel momento in poi.

Sì, doveva chiedere aiuto alla polizia. Al più presto. Non voleva rischiare di compromettere eventuali prove che avrebbero permesso alla Scientifica di capire chi aveva ucciso April Bonner.

Con mani tremanti frugò nella borsa che portava a tracolla, in cerca dell’iPhone. Aveva il fiato corto e i battiti del cuore accelerati, e s’impose la calma. Era tutta colpa sua, perché aveva aggiunto all’elenco dei servizi investigativi che forniva anche la ricerca di persone scomparse. Il suo intento era quello di risolvere casi difficili, ma il suo obiettivo era di trovarle vive.

Finalmente trovò a tastoni il cellulare e lo tirò fuori. Stava scorrendo la rubrica per cercare il numero dell’ispettore Finch quando sentì dei passi pesanti che si avvicinavano e alzò la testa. Dunque non era sola... Eppure non aveva ricevuto risposta quando aveva bussato alla porta della catapecchia adiacente al deposito, e non aveva sentito arrivare nessuna vettura.

Le gambe la reggevano a stento per l’agitazione, tanto che temeva di non riuscire a correre se fosse stato necessario darsi alla fuga.

Sbirciò dietro l’angolo della costruzione di legno ma non vide chi si stava avvicinando.

Aveva la fronte imperlata di sudore freddo ed era in preda al panico. Che cosa le stava succedendo?

Trovarsi in situazioni pericolose faceva parte dei rischi del mestiere, l’aveva sempre saputo. Però era convinta di essere più forte e di riuscire a mantenersi lucida e calma davanti alle emergenze, come quando era in polizia.

Il ritrovamento dei resti di Janice non le aveva fatto questo effetto, e allora perché adesso era così agitata?

In effetti questa situazione era più delicata. Quando era agente di polizia a Phoenix non si occupava di omicidi e neanche dopo, quando lavorava per lo sceriffo della contea di Maricopa. Il giorno in cui aveva trovato Janice, era con una squadra che doveva perlustrare la zona. Aveva trovato delle ossa, non un corpo martoriato. La violenza di cui era stata vittima Janice non era stata immediatamente visibile.

Quel caso era diverso.

Francesca aveva trovato il corpo di una persona uccisa da poco ed era sola in un posto isolato. Per giunta nessuno era a conoscenza dei suoi movimenti né sapeva che fosse lì, neppure Heather, la sua segretaria, a cui Francesca aveva detto semplicemente che sarebbe stata tutto il giorno fuori a seguire degli indizi.

Abitava a Chandler, che era a due ore di macchina da lì, quindi non conosceva nessuno in quella zona.

«Chi c’è?» gridò un uomo.

A giudicare dal tono ostile, non era affatto contento di avere visite.

La sua voce fece scatenare ancora di più il cane, che continuava a latrare sempre più agitato.

Francesca non aveva intenzione di rispondere, anzi aveva il timore di essere vista se avesse fatto capolino da dietro la baracca, perciò aderì con le spalle alle assi di legno della costruzione.

Il barista di un locale le aveva detto di aver visto una donna che corrispondeva alla descrizione di April salire su una vettura. Al volante c’era il proprietario del deposito, Butch Vaughn. Francesca era venuta lì nella speranza di parlare con Vaughn ma, dopo aver visto quello che sembrava un cadavere sotto il telo, si rendeva conto che non era né il posto né il momento di affrontare un possibile omicida, specialmente se poteva liberare il dobermann contro di lei. Meglio che ci pensasse la polizia.

«So che c’è qualcuno, lo sento da come abbaia Demon» continuò l’uomo.

Demon doveva essere il cane. Nome azzeccato..., pensò Francesca.

«Che modo è d’introdursi in una proprietà privata?» insistette in tono minaccioso.

I suoi passi erano diventati più esitanti, il che significava che non era sicuro di dove fosse l’intruso.

Di solito Francesca era una persona decisa e tenace; faceva parte del suo lavoro. Il suo zelo l’aveva indotta a superare la naturale riluttanza a ficcare il naso negli affari altrui.

Un investigatore privato timido non arrivava a nessun risultato, questo lo sapeva. D’altra parte Francesca non avrebbe mai osato introdursi in quel deposito se il proprietario non fosse stato visto con April, che era scomparsa da tre giorni.

Lanciò un’occhiata alle sue spalle, indecisa. Forse avrebbe potuto tentare di correre alla macchina, ma non era sicura di riuscire a fare il giro della casa e arrivare alla strada prima che l’uomo l’acciuffasse.

Cinque anni prima aveva cominciato a dedicarsi alla corsa per tenersi in forma e scaricare la tensione. Era fiera delle proprie capacità atletiche, ma in quel momento era troppo agitata e non credeva di poter sfuggire a un uomo prestante come Butch Vaughn. Aveva visto il suo profilo sul sito web d’incontri in cui April l’aveva conosciuto sotto il nome di Harry Statham. Se era davvero lui, e la foto che aveva pubblicato sul profilo gli rendeva giustizia, era decisamente in forma...

«Ehi, chiunque tu sia, cos’hai? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» esclamò l’uomo.

Francesca rifletteva. La sua unica alternativa era lo spray al peperoncino. Subito dopo essere stata accettata alla scuola di polizia, suo padre era stato colpito per sbaglio dal proprio collega durante un’operazione antidroga e da allora era ridotto su una sedia a rotelle.

Francesca ne era rimasta traumatizzata e, appena lasciata la polizia per aprire un’agenzia investigativa, aveva smesso di girare armata. Era convinta che non le servisse una pistola e non ne possedeva una. Però aveva bisogno di proteggersi in qualche modo, per cui aveva sempre con sé lo spray al peperoncino.

«Perché stai ficcando il naso a casa mia, amico?» insistette l’uomo.

Doveva essere Butch Vaughn, pensò Francesca. Aveva detto casa mia. Forse aveva capito che lei aveva trovato un cadavere.

Temendo di non riuscire a seminarlo, Francesca infilò la mano in borsa. Intanto i passi si avvicinavano dall’altro lato della costruzione. Vaughn doveva aver indovinato dov’era nascosta. Il rumore delle suole che facevano scricchiolare il terreno arido di quella zona desertica aumentò la sua tensione.

Dov’era lo spray? L’aveva perso? Non aveva mai avuto bisogno di usarlo, ma lo teneva in borsa per precauzione. Pur tastando affannosamente in mezzo al contenuto della borsetta, Francesca non riusciva a trovarlo. Aveva ancora il cellulare in mano per cui compose il numero del pronto intervento ma non osò parlare. Vaughn l’avrebbe individuata appena avesse pronunciato una parola e, anche se fosse intervenuta una volante, non sarebbe arrivata in tempo.

Non le restava che mettersi a correre.

Mentre ruotava su se stessa, pronta a scattare, toccò finalmente la bomboletta di metallo, che si era nascosta tra le innumerevoli cose che aveva nella borsa.

Si preparò ad affrontare Vaughn brandendo lo spray, ma lui non girò l’angolo come Francesca si aspettava. Non sentiva più i passi. Forse Vaughn non aveva capito dove fosse?

Tese l’orecchio, trattenendo il fiato e chiedendosi cosa stesse facendo. Ebbe subito la risposta ai suoi interrogativi. Al suo fianco c’era la finestra della costruzione, con il vetro opaco per lo sporco. Con la coda dell’occhio Francesca colse un movimento all’interno e si rese conto che era un ufficio e che Vaughn lo stava attraversando per coglierla di sorpresa. La porta era proprio accanto a lei!

Balzò di lato con uno scatto fulmineo quando lui spalancò la porta. Cercò di spruzzargli in faccia lo spray ma dalla bomboletta non uscì nulla. Probabilmente era rimasta inutilizzata per così tanto tempo che l’ugello si era otturato. Ma il suo gesto improvviso allarmò l’uomo che sollevò un braccio per proteggersi il volto. Vedendolo da vicino, Francesca ebbe la conferma che il sedicente Harry Statham era Butch Vaughn, come aveva sospettato. L’uomo ritratto nella foto pubblicata sul profilo di Statham sul sito di incontri era identico al proprietario del deposito, che era presumibilmente l’ultima persona ad aver visto viva April.

Francesca gli buttò contro la bomboletta colpendolo in faccia poi corse via ma, per quanto accelerasse il passo, lo sentiva guadagnare terreno.

Il cane ringhiava e abbaiava come un forsennato, tirando la catena, Francesca lo ignorò. Per quanto sembrasse minaccioso, non poteva nuocerle, almeno finché Vaughn non l’avesse liberato.

Tuttavia un attimo dopo Butch riuscì ad afferrare la cinghia della borsa e a tirarla con uno strattone così violento da romperla. Francesca cadde per il contraccolpo e il cellulare le sfuggì di mano. Anche Vaughn perse l’equilibrio e rovinò a terra, ma non si perse d’animo e l’afferrò per una caviglia.

«Chi sei? Che diavolo fai qui?» l’apostrofò, ansante, tirandola verso di lui. L’attrito con il terreno brullo le fece male alle braccia perché indossava una camicetta senza maniche. «Rispondi, stronza!» gridò lui, sempre più in collera.

Rotolarono supini. Francesca si dibatteva nel tentativo di liberarsi e fuggire, anche se le escoriazioni per il contatto con il terreno le bruciavano.

Butch Vaughn era molto più forte di lei e riuscì a immobilizzarla sotto di sé senza troppa fatica. Le bloccò il polso sinistro ma, prima che riuscisse ad afferrare anche il destro, Francesca gli affondò le unghie nella guancia provocandogli un graffio profondo.

Avvertendo una fitta di dolore, lui imprecò e si ritrasse, permettendole così di sfuggire alla sua presa.

Francesca agguantò la borsetta ma lui capì che stava per scappare e afferrò la tracolla un secondo dopo.

Per non perdere il vantaggio, Francesca dovette lasciare la borsa che cadde facendo rovesciare a terra tutto il contenuto.

Si rimise in piedi e corse via, girò l’angolo della casa e puntò dritto verso la sua auto, anche se non aveva le chiavi, che erano rimaste nella borsa o erano cadute a terra. La suola di cuoio liscio dei sandali la fece scivolare più volte sul terreno accidentato, ma riuscì ad arrivare al piazzale davanti alla costruzione. Guardò in entrambe le direzioni, nella speranza di veder passare un’auto e poter fare cenno al conducente di fermarsi per soccorrerla. Il deposito di Vaughn era isolato; non c’erano vicini a cui poter chiedere aiuto.

L’unico vantaggio di Francesca era che, con il suo graffio, aveva leso Vaughn più di quanto si aspettasse. Voltandosi, vide che la inseguiva ancora, ma più lentamente. Barcollava tenendosi una mano premuta sulla guancia insanguinata.

Francesca si preoccupò perché ora Vaughn era ancora più infuriato. Se l’avesse raggiunta forse l’avrebbe uccisa. Per fortuna aveva lasciato l’auto aperta, una pessima abitudine che però ora le tornava utile. Arrivata alla macchina, spalancò la portiera dal lato del passeggero, che era più vicina, salì a bordo e la sbatté proprio mentre Vaughn stendeva il braccio per afferrare la maniglia. Lui ritrasse il braccio di scatto per non farsi schiacciare le dita e Francesca riuscì a premere il pulsante della chiusura centralizzata che bloccava gli sportelli. Vaughn tirò la maniglia ma era troppo tardi.

Francesca chiuse gli occhi e prese un respiro profondo mentre l’uomo batteva con forza sul finestrino. Se avesse rotto il vetro, per lei era finita.

Riaprì gli occhi e lo fissò terrorizzata. Non aveva neanche il cellulare e poteva solo sperare che il centralino del pronto intervento fosse riuscito a localizzare la chiamata. Però non era sicura che mandassero una pattuglia... lei non aveva parlato e, forse, il centralinista aveva pensato che si trattasse di un errore o, peggio, di uno scherzo.

«Perché fai così? Io voglio solo parlare, non intendo farti niente. Voglio sapere per quale motivo sei qui» insistette lui, cambiando strategia.

Vaughn sapeva che Francesca aveva trovato il cadavere. Glielo leggeva nello sguardo. Cercava di convincerla che poteva fidarsi di lui, ma lei non era tanto sciocca.

«Vada via!» gridò, isterica.

Vaughn doveva solo rompere il finestrino per acciuffarla. Non c’era nessuno nei paraggi, nessuno che potesse sentire il rumore del vetro infranto o le sue grida di aiuto.

Lui smise di dare colpi al finestrino, si asciugò il sangue con il palmo della mano che pulì sulla maglietta, poi si allontanò improvvisamente. Francesca lo vide dirigersi verso l’unico albero del cortile. Da un grosso ramo pendeva un’altalena da bambini, e vicino c’era una piscinetta gonfiabile, ma lei non si lasciò ingannare da quei segni della presenza di una famiglia. Spesso i maniaci e gli assassini più cruenti erano mariti irreprensibili e padri affettuosi.

Al tronco era appoggiata una mazza da baseball e a terra c’erano il guantone e la palla. Vaughn afferrò la mazza e tornò verso la sua auto, brandendola con l’intenzione di rompere il vetro.

Prima che potesse sferrare il colpo, però, si udì il rumore di un motore. Si stava avvicinando un’auto, pensò Francesca speranzosa.

Vaughn si fermò e si voltò verso la strada. C’era una vecchia Impala che si dirigeva verso il deposito.

Francesca passò al posto di guida e suonò più volte il clacson per attirare l’attenzione del conducente che, svoltò nel piazzale e parcheggiò con noncuranza in mezzo al cortile, come se fosse il suo.

Alla guida c’era una donna e Vaughn la guardò, chiaramente combattuto.

Vicino alla donna era seduto un bambinetto che agitò la mano sorridendo nel vedere Vaughn.

«Papà! Papà!» gridò attraverso il finestrino.

L’espressione di Butch cambiò all’istante. Buttò la mazza a terra e si avviò verso la vettura. Francesca ne approfittò per sgattaiolare fuori? Non poteva sperare che la donna l’aiutasse, se era la moglie di Vaughn.

Tenendosi bassa per non farsi scorgere, infilò una mano all’interno del paraurti posteriore e, a tentoni, individuò il contenitore magnetico in cui teneva una chiave di scorta. Lo staccò mentre il bambino si buttava addosso a Vaughn e chiedeva di essere preso in braccio.

La donna scese dall’auto e Francesca sentì che gli domandava, meravigliata, cosa gli fosse successo alla faccia. Butch rispose a voce troppo bassa perché lei potesse sentire, ma la donna reagì in tono isterico.

«Che cosa? Ma perché? Chi è?» strillò visibilmente preoccupata.

Francesca pensò che il ritorno a casa della moglie di Vaughn le aveva salvato la vita, ma non aveva di certo il tempo di fermarsi per ringraziarla o per riferirle del corpo nascosto sotto un telo nel cortile sul retro, in mezzo al deposito.

Risalì in macchina e si mise al volante, tirò fuori la chiave dal contenitore che buttò sul sedile accanto, mise in moto e partì a tutto gas.