12
Francesca seguì Jonah alla centrale. Durante il tragitto lui l’aveva aggiornata sulle scoperte che gli aveva riferito Leslie, riguardo al bigliettino del Pour House trovato a Dead Mule Canyon e all’identificazione di una delle vittime, Bianca Andersen. Queste notizie non avevano certo contribuito a calmarla. Era già sconvolgente pensare che Vaughn potesse essere l’assassino di April Bonner, ma sospettare che avesse ucciso anche altre sette donne la riempiva di paura, alimentata ulteriormente da Jonah che continuava a ripeterle di non avvicinarsi da sola a Butch Vaughn.
Appena entrati alla centrale, Finch andò loro incontro. C’era poco tempo per preparare Francesca.
Hunsacker arrivò con il microfono e una matassa di fili aggrovigliati che consegnò a Jonah insieme a un rotolo di nastro adesivo.
«È difficile nascondere un microfono se non ha un giubbotto o una giacca» osservò guardando Francesca con aria critica.
Lei allargò le braccia. «Scherza? Se mi presento con un giubbotto in piena estate, con quest’afa, la prima cosa che penserà Vaughn è che ho indosso un microfono o una pistola!»
Hunsacker scrollò le spalle, contrariato.
«Lo dicevo solo perché lei è così magra che rischiamo che si veda il filo sotto la camicetta.»
Francesca scosse la testa. Rispetto a Hunsacker, tutti erano magri. «Non ho pensato che avrei dovuto ingrassare di qualche chilo prima di presentarmi qui» replicò, sarcastica.
«Spiritosa! Le piace mettere la polizia in situazioni scomode, eh? Come quando ci ha mandato a cercare un manichino...» insinuò l’ispettore.
Francesca gli sorrise serafica. «Chissà come, la donna che cercavo è spuntata in mezzo a una strada, morta, e ora ci tocca tornare ai deposito. Ride bene chi ride ultimo, no?»
«Forse sarà Butch Vaughn a ridere per ultimo se le farà fare la stessa fine, oggi» sibilò Hunsacker.
«Ora basta» intervenne Jonah.
Hunsacker gli lanciò un’occhiataccia per essersi intromesso ma parve rendersi conto di aver esagerato. «Andiamo, metta quel coso, e non perdiamo altro tempo» disse a Francesca prima di allontanarsi.
Jonah le diede il microfono e le indicò una porta. «Là c’è un bagno.»
Finch, che era al telefono, si scusò con l’interlocutore e alzò una mano per fermare Francesca.
«Ehi, aspetti!» esclamò prima di rivolgersi a Jonah. «Non può metterlo da sola, devi aiutarla, Jonah. Sbrigatevi, è tardi.»
Jonah lo guardò con aria interrogativa, come per fargli capire che avrebbe preferito lasciare a lui quell’incombenza, ma Finch scosse la testa. «Sto cercando di capire se la squadra è in posizione. I finti operai avrebbero dovuto trovarsi davanti al deposito alle otto. Non possiamo arrivare tutti insieme nello stesso momento» gli spiegò.
Infastidita dalla riluttanza di Jonah, Francesca si avviò verso il bagno. «Me la caverò da sola» borbottò.
Sbuffando, Jonah la seguì e la raggiunse in bagno, poi le tolse dalle mani l’apparecchio. «Non preoccuparti, facciamo in un attimo. Tira su la camicetta, forza» le ordinò in tono sbrigativo.
Francesca obbedì e lui le fissò il miniregistratore alla schiena, all’altezza della vita, poi le fece passare il filo davanti. Non poté evitare di sfiorarle la pelle con le dita mentre fissava il cavetto con del nastro adesivo che lei tagliava con i denti e gli porgeva, però tenne sempre la testa bassa, con espressione neutra.
Arrivato davanti, le porse il microfono. «Tieni, prendilo e fallo passare sotto il reggiseno, verso l’alto.»
Francesca annuì, sforzandosi di non farsi turbare dalla sua vicinanza. Prese il microfono e se lo piazzò tra i seni, mentre Jonah si voltava di scatto come se trovasse sgradevole guardarla e toccarla.
Francesca si riabbassò la camicetta dopo aver sistemato il microfono e averlo fissato sotto il reggiseno. Era una sfortuna che fosse proprio Jonah a occuparsi del caso, perché la sua presenza complicava decisamente le cose.
Fecero delle prove per controllare che l’apparecchiatura funzionasse correttamente. Quando furono soddisfatti si avviarono verso il parcheggio. Francesca sarebbe andata da sola con la propria auto; Finch e Jonah l’avrebbero seguita con un’altra macchina in dotazione alle forze dell’ordine per gli appostamenti, senza i contrassegni della polizia per non farsi riconoscere.
«Tutto bene? Sei tranquilla?» le chiese Jonah prima di andare.
Francesca si sforzò di assumere un’espressione disinvolta. «Certo, cosa può fare Vaughn? Al massimo può uccidermi, niente di più.»
Jonah si accigliò, come se non avesse apprezzato affatto la sua battuta. «Non preoccuparti, saremo sempre in ascolto. Se ci accorgiamo che sei nei guai, arriviamo immediatamente.»
Francesca annuì. «Lo faccio solo per recuperare i documenti e risparmiarmi tutta la trafila burocratica per avere un duplicato della patente» borbottò.
Ma Jonah sapeva che non stava rischiando la vita solo per rientrare in possesso della borsetta. Voleva inchiodare Vaughn e sperava di raccogliere delle prove su di lui. Solo così lei e le sue amiche non sarebbero più state in pericolo, e quel bastardo non avrebbe più potuto fare del male ad altre donne.
«Cerca di parlare sempre ad alta voce, con un tono udibile, così possiamo sentire cosa succede. Inoltre ricorda, qualsiasi cosa dica o faccia Vaughn, non entrare in casa. Non possiamo sapere quali siano le sue intenzioni» le raccomandò Jonah.
«Non c’è motivo di allarmarla così» lo interruppe Hunsacker; «Non siamo neanche sicuri che Vaughn sia il nostro uomo.»
Jonah lo zittì con un’occhiataccia. «Meglio essere prudenti che morti» sentenziò.
Francesca era in preda all’ansia, nonostante fosse sicura di essere sotto controllo in ogni istante. Vaughn aveva chiesto al cognato di farla andare a Prescott con un motivo preciso, e di sicuro non era perché si sentiva in colpa per averle rubato la borsa.
Francesca notò con sorpresa che tutta la famiglia era in casa. Davanti all’abitazione erano parcheggiate diverse auto e il bambino stava giocando in cortile. La cosa la rassicurò; di sicuro Vaughn non l’avrebbe aggredita davanti a tutta la famiglia.
Il cognato di Butch aprì la porta un secondo dopo che lei ebbe suonato il campanello, come se la stesse aspettando dietro l’uscio.
«Buongiorno! Prego, entri» la salutò Dean con un sorriso cordiale.
Francesca esitò. Jonah l’aveva avvertita di non mettere piede in casa ma la situazione sembrava meno allarmante di quanto avesse temuto. Tuttavia non riusciva ancora a capire perché Vaughn avesse chiesto al cognato di chiamarla, o gli avesse dato il permesso di riconsegnarle la borsa.
«No, grazie. Se non le dispiace prendo la borsa e me ne vado» rifiutò in tono garbato, decisa a restare sulla soglia.
«Credo che Butch voglia parlarle» insistette Dean.
Francesca ricordò che Vaughn aveva cambiato completamente atteggiamento davanti alla famiglia, per cui guardò il bambino e pensò che non avrebbe corso alcun pericolo finché il figlio fosse rimasto nei paraggi.
D’altronde doveva accondiscendere per avere la possibilità di scoprire qualcosa, altrimenti Hunsacker l’avrebbe presa in giro di nuovo per aver esagerato con le sue paure.
«Va bene, ma non posso trattenermi. Ho un impegno» accettò.
Visibilmente soddisfatto, Dean si scostò per farla accomodare. Francesca entrò in casa pensando al cipiglio contrariato di Jonah che le aveva raccomandato proprio di non farlo.
La casa era una normale abitazione borghese, con un arredamento tradizionale, un tappeto in tinta con il divano, carta da parati a fiori, centrini di pizzo sui tavolini e lampade con le frange di seta.
Francesca pensò che la moglie di Vaughn era troppo giovane per abitare in un posto del genere. Quella doveva essere la casa della coppia anziana che aveva visto quando era tornata con Jonah e Finch.
«Bella casa» commentò.
Dean rise. «Dice davvero?»
«Perché, a lei non piace?»
Dean scrollò le spalle. «Non faccia caso all’arredamento, per me è un ambiente familiare. Ormai mi sono abituato a vederlo così.»
«Da quanto tempo abita qui?»
«Da sempre.»
«È dei suoi genitori?»
«Sì, sono loro i proprietari della casa e del deposito. Butch l’ha preso in gestione quando sono andati in pensione. I miei abitano ancora qui, hanno un appartamentino di sopra. Mio padre avrebbe voluto viaggiare dopo essere andato in pensione, ma mia madre non vuole muoversi.»
«Perché no?»
«Non vuole lasciarmi. Dice che deve tenermi d’occhio perché la sua presenza mi dà stabilità.»
Francesca si rese conto che aveva visto giusto riguardo alla casa, ma anche sul fatto che Dean Wheeler non era esattamente normale.
«È un bene che Butch sia subentrato a loro, così l’attività e la casa sono rimaste in famiglia» osservò Francesca. «I suoi genitori devono apprezzarlo molto.»
Dean si sporse verso di lei come se stesse per confidarle un grande segreto. «In realtà stravedono soprattutto per Champ.»
Francesca rimase interdetta. «Chi è Champ?»
«Il bambino di mia sorella.»
«Ah! Credevo...» Francesca s’interruppe. Non era educato commentare che sembrava un nome da cane.
Ma Dean parve leggerle nel pensiero.
«Sì, lo so che è un nome strano. L’ha scelto Butch. Decide sempre tutto lui, anche come chiamare il cane, Demon. Io preferisco i gatti, a dire il vero, ma Butch è allergico. Avevamo un persiano ma gli ha sparato il giorno stesso in cui è venuto a vivere con noi.»
Francesca aveva ascoltato sempre più esterrefatta quello sproloquio. «E lei non gliel’ha impedito?» esclamò, sbalordita.
Dean scosse la testa.
«Io non ho mai voce in capitolo.»
«Perché?»
Dean la scrutò. «Non si capisce?»
Francesca scrollò le spalle. «No, altrimenti non gliel’avrei chiesto.»
«Ho dei problemi mentali.»
A Francesca parve strano che lo ammettesse così apertamente e tranquillamente. «Sarebbe a dire?»
«A volte non ragiono» le spiegò battendosi con un dito su una tempia. «Ma per fortuna prendo delle pillole che mi fanno stare bene.»
Ora Francesca capiva il motivo del suo sguardo assente quando l’aveva visto la prima volta. Era sotto l’effetto dei farmaci.
Annuì, poi commentò: «Però dev’esserle dispiaciuto che Butch le abbia ammazzato il gatto».
Dean sospirò. «Sì, anche se era vecchio. Era ora di abbatterlo. Comunque mi fa piacere che si sia preoccupata di cosa ho provato. So cosa pensa, che se fosse stata al posto mio sarebbe stata malissimo.»
«Be’, sì...» ammise Francesca.
Dean piegò la testa come per scrutarla da un’altra angolazione. «Lei è intelligente, mi piace» commentò. «Possiamo darci del tu?»
«Ma certo... Dean» sorrise Francesca, circospetta. Non voleva dargli troppa confidenza ma neanche indispettirlo, date le circostanze.
Sulla soglia della cucina si materializzò Paris e Francesca capì che era rimasta nascosta ad ascoltarli da quando lei era entrata in casa.
«Non credevo che fosse venuta qui per fare due chiacchiere» osservò la donna in tono ostile. «Pensavo che volesse la borsetta.»
«Ehi, ci stavamo arrivando» sbuffò Dean. «Gesù, non posso neanche parlare con una bella ragazza ogni tanto?»
Paris fece una smorfia e incrociò le braccia. «Sì, purché tu non scelga quella che ha graffiato la faccia di mio marito. In effetti, capisco perché ti piace. Avete molto in comune, perché è una svitata come te» insinuò, velenosa.
«Come?» esclamò Francesca, indignata.
«Non è ora che accompagni Champ alla partita di baseball?» intervenne Dean prima che la sorella potesse dire altro. «Sai che Butch si arrabbia se Champ fa tardi, perché l’allenatore non lo fa giocare e lo mette in panchina.»
«Ha ragione Butch, perché Champ è bravo e merita di giocare» replicò Paris.
Dean si rivolse a Francesca. «Ignora mia sorella, Francesca» bisbigliò in tono complice. «Non approva che io ti abbia invitata. Secondo me è invidiosa perché non è bella quanto te.»
«Falla finita. Smetti di dire stupidaggini e vai a prenderle la borsetta, Dean, così chiudiamo questa storia» sbottò Paris, ostile.
Prima che il fratello potesse rispondere si sentì sbattere la porta sul retro.
Era entrato qualcuno.
Paris sussultò e la sua espressione astiosa lasciò il posto a uno sguardo allarmato.
«Torno subito» sussurrò, concitata. Tirò fuori dalla tasca dei jeans la chiave della macchina e uscì gridando: «Champ, prendi il borsone e andiamo!».
«Mmh... Butch ottiene sempre ciò che vuole, mi pare. Governa la famiglia con il pugno di ferro, eh?» osservò Francesca.
Dean le strizzò l’occhio. «L’ho detto che sei intelligente, Francesca!» sogghignò.
Lei notò che sembrava provare un particolare piacere a chiamarla per nome, come se non fosse abituato a essere in rapporti di familiarità con le donne. Di sicuro gli era difficile fare nuove conoscenze e avere amiche, nelle sue condizioni, pensò Francesca. Con quella famiglia, poi...
Una sagoma scura apparve sulla porta della cucina, dove fino a pochi istanti prima c’era Paris. Francesca vide Vaughn e pensò che, all’interno dell’abitazione, era ancora più massiccio e imponente che all’aperto.
«Dobbiamo parlare» esordì, cupo.
«Sono tutta orecchi.»
«Non qui, con il ritardato che ci ascolta. Andiamo nel mio ufficio.»
Ora Francesca si sentiva un po’ meno tranquilla. La sua prima impressione quando era entrata in casa si era dissipata all’arrivo di Vaughn. Le persone che considerava la sua assicurazione sulla vita, cioè Paris e il bambino, erano andate via. Era chiaro che Vaughn non aveva alcun rispetto per il cognato, che probabilmente non avrebbe avuto neanche la forza d’intervenire se avesse capito che lei era in pericolo. Inoltre non aveva visto i suoceri di Butch e non sapeva se èrano ancora in casa. Però se erano lì, l’avrebbero sentita urlare se avesse chiesto aiuto, perciò decise di restare dov’era.
«Non vengo da nessuna parte con lei» obiettò.
Vaughn fece un cenno a Dean. «Vai a prendere la borsetta.»
«Dov’è?»
«Dove l’hai messa tu dopo averci frugato dentro ed esserti trastullato con le sue cose.»
Dean si agitò, visibilmente a disagio. «Non ho curiosato» mugugnò arrossendo. «E poi l’ultima ad averla in mano è stata Paris.»
«Allora è in camera. Vai a prenderla, cretino» gli ordinò Vaughn.
Dean si affrettò a obbedire.
Rimasta sola con Butch, lei commentò: «È proprio necessario trattarlo così male?».
«Provi a Vivere con Dean per un giorno e poi vediamo se ha ancora da ridire su come viene trattato quel deficiente» borbottò l’uomo.
«È pur sempre il fratello di sua moglie» insistette Francesca.
«E sicura che vuole perdere tempo a parlare di mio cognato? È un mio problema, non il suo. Pensavo che fosse più interessata ad avere notizie di April Bonner.»
Francesca ebbe un tuffo al cuore. «Quali notizie?»
Vaughn tese l’orecchio e sentì i passi di Dean che tornava. «Non qui. Nel mio ufficio» le disse sottovoce. «Viene?»
Francesca non poteva farsi sfuggire quell’occasione ghiotta. Avrebbe potuto registrare il loro colloquio grazie al microfono, anche se dubitava che lui volesse confessare il delitto. Probabilmente avrebbe inventato una storia per giustificare il suo incontro con April sabato sera. Pero lei sperava che si contraddicesse e desse un appiglio alla polizia per indagare più a fondo, una volta accertato che aveva mentito.
«Ecco, tieni» le disse Dean restituendole la borsa.
«Grazie.»
A Francesca bastò un’occhiata per vedere che il suo umore era cambiato drasticamente. Dean non era più cordiale e mansueto, ma aveva uno sguardo ombroso e sfuggente. D’altra parte la sua irritazione era giustificata, considerato come veniva trattato dal cognato.
«Vai a prendere le medicine» gli ordinò Butch. «Sai che ti fa male saltarle.»
Dean lo fulminò con lo sguardo ma non sollevò obiezioni e uscì dal soggiorno.
Francesca si mise la borsa a tracolla senza badare a controllarne il contenuto. Per il momento aveva preoccupazioni più importanti.
«Allora, che vuole fare?» la pungolò Butch.
Lei gli lanciò uno sguardo di sfida. «Andiamo.»