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Jonah non aveva idea di cosa sarebbe successo quando il furgone avesse urtato la recinzione, ma fare irruzione gli parve l’unica alternativa possibile. Non poteva rischiare di presentarsi a casa di Butch per chiedere aiuto ai suoi familiari. C’era la possibilità che non rispondessero alla porta o si rifiutassero di aiutarlo.

Stava a lui prendere l’iniziativa per soccorrere Francesca, sempre sperando che non fosse troppo tardi.

Pigiò sull’acceleratore a tavoletta e si aggrappò al, volante irrigidendosi per non essere sballottato dagli scossoni del veicolo che sobbalzava sul terreno accidentato. Era già scoppiata una gomma pochi secondi prima e Jonah aveva dovuto faticare per governare il volante e impedire al furgone di sterzare troppo a sinistra. Di sicuro qualche altra gomma avrebbe fatto la stessa fine perché stava guidando sopra i cactus, le bottiglie rotte e chissà che altro.

Però non gli importava, purché le ruote continuassero a girare. Non si sarebbe fermato per niente al mondo. Aveva visto il cane di Butch scattare come una furia nel piazzale verso la sua preda... Francesca.

Se non era morta ci mancava poco; in ogni caso rischiava di essere ferita gravemente.

Continuò a dare gas; la rete metallica era sempre più vicina. All’ultimo momento girò la faccia nel timore che il parabrezza andasse in frantumi. Aveva deciso di forzare il cancello che avrebbe opposto minore resistenza della rete. Inoltre davanti al cancello c’era il piazzale libero, perciò non avrebbe rischiato di andare a sbattere contro qualcosa.

Benché fosse preparato al peggio l’impatto gli fece sbattere i denti. Quando l’airbag si gonfiò ebbe l’impressione di aver ricevuto un pugno in pieno stomaco, ma almeno non aveva fracassato il parabrezza con la testa nel momento in cui era stato proiettato in avanti.

Stordito, sbatté più volte le palpebre per schiarirsi la, vista e vide il vapore che si levava dal motore. Doveva avere spaccato il radiatore, perché sentiva il sibilo.

Udì anche i latrati del cane e si riscosse. Doveva salvare Francesca. Afferrò la maniglia per aprire lo sportello ma la chiusura era incastrata, per cui dovette abbassare il finestrino e strisciare fuori da lì. Nonostante fosse ancora confuso per l’impatto cercò di muoversi in fretta, ma cadde e urtò il ginocchio contro un oggetto appuntito che gli fece vedere le stelle.

Ignorando il dolore si rimise in piedi e scattò di corsa verso il cane agitando le braccia per attirare la sua attenzione.

«Ehi!» gridò.

A circa trenta metri da lui stava succedendo qualcosa. Scorgeva delle sagome che si agitavano e sentiva un certo tramestio ma non vedeva bene tra le ombre.

«Demon!» gridò Vaughn.

Il cane si staccò da Francesca e si slanciò verso Jonah scoprendo i denti in un ringhio feroce, pronto a balzargli addosso.

«Demon!» gridò di nuovo Vaughn.

Jonah non capiva se lo stesse aizzando o tentasse di richiamarlo indietro.

Il dobermann spiccò un salto, pronto ad azzannare Jonah alla gola, e lui capì che aveva un solo secondo di tempo per prendere una decisione e reagire.

Non esitò; tirò fuori la pistola dalla fondina sotto l’ascella, mirò e fece fuoco.

 

Il rumore dello sparo fu assordante, ma Francesca udì la reazione immediata di Butch.

«Hai ucciso il mio cane, bastardo!» gridò mentre Demon cadeva a terra.

Francesca chiuse gli occhi e premette la mano contro il braccio ferito, tenendolo stretto contro il busto e ringraziando mentalmente Jonah per essere intervenuto. Il cane l’aveva morsa mentre tentava di proteggersi il collo e il viso con le braccia, ma per fortuna Jonah aveva fatto irruzione nel deposito prima che Demon potesse tentare di nuovo di azzannarla alla giugulare. Un altro minuto e sarebbe stato suo il corpo disteso a terra immobile e privo di vita.

«Sei stato tu a farlo uccidere» precisò tremando come una foglia. Cercò di alzarsi in piedi ma era così scossa che si accasciò a terra.

Vaughn si voltò di scatto verso di lei come se volesse balzarle addosso, a quel punto Jonah sparò in aria come avvertimento.

«Perché sei tornata?» le urlò. «Perché non mi lasci in pace? Che cosa ti ho fatto? Ti ho detto e ripetuto che non sono stato io a uccidere April Bonner. Non ho ucciso nessuno! Perché ce l’hai con me?»

Francesca si asciugò le lacrime di dolore che le scendevano copiose dagli occhi e boccheggiò in cerca di aria per avere il fiato necessario per parlare. «Hai appena tentato di uccidermi» protestò.

«Non è vero. Il cane ha sentito il tuo odore ed è partito da solo. Io ho tentato di fermarlo, ma non è colpa mia se tu non sai leggere i cartelli. C’è scritto Attenti al cane e anche Proprietà privata» ringhiò fuori di sé.

«Non dire balle, me l’hai aizzato controre lo sai» replicò Francesca stancamente.

«Butch?»

Era Paris che aveva sentito lo sparo e si era affacciata in veranda, preoccupata.

«Che succede?» gridò con voce tremula. «Cos’era quello sparo?»

«Hanno ucciso Demon, gli hanno sparato» esclamò Butch.

«Sali sul furgone» disse Jonah a Francesca indicando la vettura malconcia con un cenno del capo.

Francesca non protestò anche se era sicura che con il furgone in quelle condizioni non sarebbero arrivati da nessuna parte.

Desiderava solo uscire dal deposito al più presto, perciò si fece forza, si alzò in piedi e, zoppicando, passò oltre il corpo privo di vita del dobermann.

«Lei è nei guai, signor Vaughn» stava dicendo Jonah a Butch. «Guai seri.»

«È la Moretti a essere nei guai» replicò lui. «Domani stesso chiederò un ordine restrittivo e la diffiderò dall’avvicinarsi a casa nostra. Deve smettere di perseguitarmi. Le ho restituito la borsa quando l’ho trovata, sono stato gentile e comprensivo e questo è il ringraziamento che ricevo?»

«Wow, ha abbattuto il cancello» osservò una voce inespressiva e distaccata.

Francesca era salita a bordo del furgone. Si asciugò gli occhi e, quando sbirciò attraverso il finestrino, vide che Dean era uscito in veranda e si era fermato accanto alla sorella a guardare la scena. Dal suo tono, sembrava più curioso e divertito che indignato o preoccupato.

Paris era troppo in pena per Butch per badare al fratello. «Vieni qui, non dire una sola parola» gli raccomandò, concitata. «Ci rivolgeremo a un avvocato. Non i possono farci questo! Non abbiamo fatto niente di male a nessuno dei due e loro entrano con la forza e ci uccidono il cane. La pagheranno.»

Butch non diede ascolto ai tentativi di sua moglie di consolarlo e farlo calmare. Guardava fisso Demon. Si chinò, raccolse il cane tra le braccia e si voltò verso Jonah.

«Non avevi il diritto di farlo. Ti sei introdotto con la forza nella mia proprietà e Demon mi ha difeso.»

«Vai a prendere la videocamera» disse Paris a Dean che obbedì prontamente.

Francesca tremava violentemente, e fu ancora più turbata al pensiero che Dean registrasse la scena: il furgone semidistrutto nel piazzale, il cancello abbattuto, il cane morto, l’espressione sconvolta di Butch... La scena sarebbe stata sufficiente per distorcere la realtà dei fatti e dimostrare che erano lei e Jonah gli aggressori. Il video non avrebbe mostrato Butch che la chiudeva nel deposito per intrappolarla e poi ordinava al cane di attaccarla.

Sentendo un liquido caldo e vischioso che le sgocciolava sulla gamba, guardò verso il basso e vide che stava sanguinando copiosamente. Demon le aveva azzannato un braccio e le aveva provocato una lacerazione profonda.

Per arrestare l’emorragia premette il bordo della camicetta sul braccio. Si era pentita di essere venuta al deposito. Il suo intento era quello di smascherare un omicida e invece aveva peggiorato la situazione.

Anche Jonah si era fatto male perché zoppicava vistosamente mentre si allontanava da Butch, indietreggiando circospetto.

«Mi dia subito la borsa» gli intimò. «E stavolta non dica che non ce l’ha, perché l’ho vista. Me la dia altrimenti faccio arrestare lei e tutta la sua famiglia.»

Butch non si mosse, fu Paris a rientrare in casa e a uscire con la borsa di Francesca, seguita da Dean che riprendeva tutto con la videocamera.

«Demon è morto» stava dicendo commentando il filmato. «E questo è l’uomo che gli ha sparato» aggiunse spostando la videocamera su Jonah.

«Io chiamo la polizia» dichiarò Paris buttando la borsetta ai piedi di Jonah.

«Sì, lo faccia» la esortò Jonah raccogliendola.

Salì al volante del furgone e Francesca lo guardò timidamente. «Scusa, è stato un errore» mormorò.

Lui non commentò. «Stai bene?»

«Credo di aver bisogno di qualche punto. Mi fa un male cane.»

«Spero solo che Vaughn abbia fatto al cane tutte le vaccinazioni.»

Girò la chiave ma il motore fece un rumore strano e non si avviò. Jonah ci riprovò dando gas.

«E tu? Sei ferito anche tu» osservò Francesca con espressione preoccupata.

«Non è niente. Andiamo via di qui.»

Mise in moto ma l’auto si spense di nuovo e Jonah non ebbe altra scelta. Chiamò la polizia e richiese un’ambulanza, poi rimase con Francesca ad aspettare nel furgone mentre Dean continuava a filmare e a commentare sottovoce.

Gli ispettori arrivarono contemporaneamente all’ambulanza. Mentre Francesca veniva medicata, sentì Butch che dava ai poliziotti la sua versione dei fatti, avvalorata da Paris.

Jonah si rifiutò di farsi medicare il ginocchio mentre Francesca ascoltava incredula e indignata le bugie di Butch Vaughn.

Hunsacker la fissava con tale rancore che Francesca capì che quella storia non sarebbe finita bene per lei.

Butch intanto dava in escandescenze, minacciando di andare in televisione a denunciare la violazione dei suoi diritti e gli abusi perpetrati ai suoi danni. Francesca era certa che gli ispettori ormai fossero convinti che il suo intervento aveva messo in cattiva luce la polizia, oltre a danneggiare le indagini.

I paramedici la caricarono sull’ambulanza e Jonah la salutò, dicendole che Finch gli avrebbe dato un passaggio fino all’ospedale.

Lei annuì e chiuse gli occhi, esausta.

Solo più tardi, quando fu dimessa dal pronto soccorso dopo che le ebbero messo i punti e fatto l’antitetanica, Francesca ricordò di aver raccolto da terra le mutandine dell’amante di Butch. Jonah l’aspettava nell’atrio ma lei era indecisa se dirgli che cos’aveva fatto. Sottrarre delle possibili prove avrebbe peggiorato una situazione già delicata per lei.

Così riferì a Jonah quello che aveva sentito dire da Paris a proposito di una certa Julia, ma omise il particolare delle mutandine. Preferiva evitare di vedere la reazione di Jonah se avesse saputo che lei aveva raccolto una prova.

 

Jonah era a letto e aveva tolto la suoneria al cellulare. Quando lo sentì vibrare, guardò il display e vide che era l’ufficio di Department 6. Rispose ma portò il telefono in bagno per non svegliare Francesca che dormiva nell’altro letto nella sua camera al motel.

Erano le otto di mattina ma Jonah voleva farla riposare il più possibile dopo quello che era successo la sera prima. Il pronto soccorso era pieno ed erano usciti dall’ospedale alle due di notte.

«Ciao! Novità?» disse.

«Ehi, ho trovato una cosa» gli disse Nate Ferrentino.

Nate non era solito occuparsi del lavoro d’ufficio. Come Jonah, anche lui preferiva essere impegnato sul campo, a indagare. Ma la moglie di Nate, Rachel, anche lei di Department 6, stava per dare alla luce il secondo figlio e Nate aveva evitato di andare in missione per non rischiare di perdere la nascita del secondogenito. Poco più di un anno prima Nate e Rachel avevano avuto il primo figlio e da allora lui era cambiato. Accettava incarichi solo nella zona in cui viveva per poter raggiungere la moglie in qualunque momento.

Per fortuna la sede di Department 6 era vicino a casa sua. A Los Angeles erano a corto di personale perché avevano diversi agenti impegnati e Milton Berger, il proprietario della società, stava aprendo una filiale a Tucson con Roderick Guerrero, il più caro amico di Jonah tra i suoi colleghi, ed era spesso a Tucson con lui.

«Aspetta che cerco il foglio» brontolò Nate. «L’avevo qui un attimo fa... Che disordine!» sbuffò.

«Mentre cerchi, dimmi come sta Rachel.»

«È impaziente. Non vede l’ora che nasca il bambino» gli rivelò.

«Dylan è pronto ad avere un fratellino?»

«Sì, sembra contento, così adesso avrà qualcuno da tiranneggiare.»

Nate e Rachel non avevano in programma una seconda gravidanza così vicina alla prima, ma l’avevano accettata e ora erano contenti.

«Sei sicuro di avere la forza di ricominciare tutto da capo?»

«Scherzi? Non c’è cosa più bella di avere figli. Un giorno mi capirai, amico.»

Il commento di Nate lo indusse a pensare a Summer, come gli capitava sempre quando si parlava di bambini. Ricordava perfettamente quando, dieci anni prima, in una stanza d’ospedale aveva tenuto sua figlia tra le braccia. Non ne faceva mai parola con nessuno, ma sapeva cosa significava essere padre. Purtroppo quel momento che avrebbe dovuto essere felice e speciale si era tramutato in un dolore costante che lo accompagnava in ogni istante della sua vita. Non solo aveva deluso Francesca, ma anche Adriana, perché sapeva che avrebbe voluto da lui più di quanto fosse disposto a darle. E aveva abbandonato sua figlia scegliendo la via più comoda e facile. A quell’epoca non sapeva che liberarsi del peso della paternità avrebbe invece gravato tanto sulla sua coscienza.

«Un giorno, chissà...» sospirò. «Allora, dimmi, trovato qualcosa su Dean Wheeler?»

«Diverse notizie. Il tuo uomo ha passato buona parte della sua vita da una clinica psichiatrica a un’altra.»

«Ed è stato alla clinica Laurei Oaks?»

«Sì.»

Jonah esultò. Avevano un collegamento concreto, finalmente. Almeno la mattina dopo, alla riunione con Finch e Hunsacker, lui e Francesca avrebbero potuto portare la prova che una delle vittime aveva conosciuto il cognato di Butch, e questa notizia forse avrebbe attutito il colpo inferto alle indagini dall’intervento estemporaneo di Francesca al deposito. «Ecco, ho trovato!» esclamò Nate. «Ti leggo. Dunque.. Pare che sia stato ricoverato tre volte, per brevi periodi. Nel 2006 è stato ricoverato per una settimana per un episodio psicotico, nel gennaio del 2007 è stato ricoverato ancora per aver aggredito sua sorella con un coltello in mano. Qui non si dice altro. Comunque, in quell’occasione è stato in ospedale per due settimane, poi affidato ai genitori, ma è rientrato un mese dopo con una diagnosi di depressione.»

«Quindi cos’ha?»

«Un disturbo schizoide con tendenze bipolari.»

«Traduci.»

«Non è una bella diagnosi. Secondo il suo medico curante a volte sente delle voci che gli dicono come comportarsi.»

«E gli ordinano anche di uccidere?»

«Nella relazione del medico si legge che Dean non è un violento. Le voci gli danno istruzioni su come vestirsi, cosa mangiare, dove andare e così via, anche se gli ordini non corrispondono a volte alle sue intenzioni originarie.»

«C’è dell’altro?»

«Un’infermiera della clinica mi ha detto di ricordarlo. Aveva manie di persecuzione. Durante l’ultimo ricovero sosteneva che c’era un assassino che lo braccava e che le voci lo esortavano a tornare a casa per proteggere sua madre.»

«L’infermiera sapeva se Dean era convinto di essere perseguitato da qualcuno dell’ospedale?» «Non so nulla.» «E che farmaci prendeva?» «Un antipsicotico di nuova generazione.»

«Cioè?»

«Un farmaco di nuova formulazione, che inibisce j l’assorbimento di dopamina nel cervello. Non so altro. Inoltre Dean Wheeler prende anche uno stabilizzante dell’umore, che si usa per curare il disturbo bipolare.»

«Hai altre informazioni?»

«No.»

«Grazie, Nate, sei stato in gamba» si complimentò Jonah prima di salutarlo.

Nate gli promise che gli avrebbe mandato un’e-mail con tutti i dettagli, date e nomi. Jonah aveva appena premuto il pulsante per chiudere la comunicazione quando gli arrivò un’altra chiamata.

Stavolta era la sua ex moglie.

A quanto pareva Lori si era stancata d’inviargli SMS a cui lui non rispondeva mai. Poiché neanche tirare in ballo sua madre aveva portato a risultati positivi, si era discostata dal loro abituale modo di comunicare e gli aveva telefonato direttamente.

Jonah si sentiva soffocare e non desiderava altro che essere lasciato in pace.

Sbuffando e mugugnando tra sé e sé, rispose ma giusto per togliersela di torno, sperando che potesse bastare per avere un po’ di pace.