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Anchorage, Alaska – mercoledì, ore 22.40

Almeno sapeva dove colpire. Evelyn aveva studiato medicina. Se fosse riuscita a recidere una delle arterie carotidee del rapitore, lo avrebbe privato di metà del sangue che gli ossigenava il cervello e lo avrebbe reso incosciente in circa sessanta secondi. Sembrava una cosa estrema perfino per lei, ma era così disperata, che se aveva solo una possibilità doveva giocarsela bene. Quello era l’unico modo per uscire da quella piccola prigione.

L’unico problema era l’arma che avrebbe usato. Una molla affilata, non aveva alcuno spessore. Sarebbe stato facile mancare la carotide, soprattutto se si fossero ritrovati a lottare o se lui avesse sollevato all’improvviso la mano per bloccarla.

Anche se l’avesse colpito nel punto perfetto e fosse scappata, avrebbe avuto solo dieci minuti per chiedere aiuto prima che lui si dissanguasse.

Dieci minuti non sarebbero bastati; probabilmente non sarebbe riuscita a salvarlo.

Poteva sopravvivere a quest’altro incubo che si sarebbe aggiunto agli altri nel suo cervello?

Avrebbe dovuto, non aveva altra scelta. Sapeva cosa provava Bishop per lei, quello che le avrebbe fatto. Doveva fuggire prima che arrivasse, se voleva sopravvivere e salvare anche sua figlia.

Ma avvicinare l’uomo che l’aveva rapita non sarebbe stato così semplice. Doveva fare ben altro che gemere e contorcersi per convincerlo di essere in travaglio. Doveva far credere a quel Maciste che stava per partorire non appena l’avesse vista, doveva essere così convincente da farlo precipitare nella stanza senza un attimo d’esitazione. Solo se fosse stato del tutto impreparato e colto alla sprovvista sarebbe riuscita a colpirlo, soprattutto in un punto così preciso.

Cosa avrebbe potuto allarmarlo fino a quel punto?

Sangue, decise. Solo quello avrebbe potuto farlo entrare da lei.

Per fortuna il sangue era una delle poche cose a cui aveva ancora accesso. Aveva anche una bottiglietta d’acqua mezza piena. Se si fosse tagliata e avesse spremuto il sangue nell’acqua per poi spargere quel miscuglio a terra e sul retro del suo vestito beige avrebbe potuto far sembrare che le si fossero rotte le acque. Poi avrebbe potuto rannicchiarsi lontana dalla porta. E quando sarebbe andato a portarle la colazione e lei non fosse andata a prendere il vassoio lui si sarebbe piegato per vedere cosa stava succedendo e l’avrebbe vista “sofferente” sul letto.

Doveva solo prestare attenzione a spargere il sangue in modo plausibile, si disse, e il modo più semplice per farlo sarebbe stato posizionare la bottiglia tra le gambe prima di svitare il tappo. Poi la soluzione sarebbe sgorgata naturalmente e le si sarebbero macchiate le gambe e i piedi, così sarebbe sembrato tutto ancora più autentico.

Adesso la domanda era… quando avrebbe dovuto fare la sua mossa? Era così spaventata che era tentata di rimandare, sperando invano che qualcosa cambiasse. Che il rapitore l’avrebbe ascoltata e avrebbe reagito alle sue suppliche. Che alla fine la sua coscienza avrebbe avuto la meglio. Che Amarok la trovasse e la liberasse.

Ma Bishop poteva arrivare in ogni momento. Sarebbe stata una stupida ad aspettare…

Adesso. Il momento era adesso.

Fece dei respiri profondi, per cercare di farsi forza e pensare con chiarezza. Poi prese il coltello.

Si impose di non sussultare o gridare, poi si tagliò un dito dopo l’altro, finché nella bottiglia non ci fu abbastanza sangue da colorare l’acqua di un bel colore rosso vivo.

Hilltop, Alaska – giovedì, ore 0.30

Il cielo si stava finalmente oscurando, ma avrebbe fatto buio solo per quattro ore. Le notti erano brevi in quel periodo dell’anno, e a nord erano ancora più corte. Non lontano da Fairbanks la notte non arrivava mai, non in giugno, soprattutto quando si avvicinava il solstizio d’estate.

Amarok odiava vedere il sole sprofondare oltre l’orizzonte. Gli ricordava che il tempo stava trascorrendo in fretta, troppo in fretta, e non aveva ancora trovato Evelyn. Il buio rendeva anche più difficile rimanere sveglio mentre guidava.

Dopo aver parlato con Dax O’Leary era andato da Roxanne’s. Per fortuna aveva trovato parecchie ballerine e qualche cliente che ricordavano il “tizio muscoloso con la cicatrice”. Quello sconosciuto saltava all’occhio, non solo per il viso deturpato, ma anche per la sua stazza.

Amarok non aveva avuto la possibilità di parlare con il buttafuori che era in servizio la notte in cui era stato rubato il furgone. Quel giorno ce n’era un altro, così il direttore del locale gli aveva fornito il numero di Greg.

Amarok aveva cercato di chiamarlo. Erano già le undici passate, ma la pura disperazione eliminava ogni scrupolo nel disturbare qualcuno nel bel mezzo della notte.

Greg alla fine aveva risposto, ma gli aveva detto solo di ricordarsi del tizio e di non sapere chi fosse o da dove venisse.

Dopo essersene andato dal club, Amarok era andato al dipartimento di polizia di Anchorage per vedere se fossero riusciti a scovare qualcosa sul furgone. Sperava l’avessero trovato, che qualcosa sul luogo dov’era stato lasciato gli potesse fornire nuove informazioni. Se fosse stato possibile raccogliere frammenti di DNA o impronte digitali dal veicolo allora, forse, avrebbe potuto scoprire il nome dell’uomo e rintracciarlo attraverso il suo cellulare o le carte di credito, oppure tramite amici e complici.

Poteva fare una grande differenza nel ritrovare Evelyn.

Ma il furgone non era stato localizzato. L’unica cosa che Amarok scoprì fu quella che la detective preposta all’indagine, l’unica specializzata in furti d’auto, gli disse quando la chiamò a casa. Gli aveva detto che secondo lei il furgone era stato rubato mentre il buttafuori si trovava all’interno del locale, a gestire un tafferuglio con un tizio che si era ubriacato e che aveva dovuto allontanare. Dopo quell’episodio nessuno aveva visto l’uomo con la cicatrice, e quando Dax era uscito, un’ora più tardi, il furgone era scomparso.

Amarok poteva solo sperare che lo ritrovassero. Aveva fatto un giro in macchina attraverso i quartieri attorno al Roxanne’s, per cercarlo. Ma era altamente improbabile trovarlo così, a casaccio.

Anziché perdere ancora tempo si era diretto a casa. Aveva già controllato da remoto la segreteria telefonica: non c’erano messaggi di Evelyn o di chiunque l’avesse rapita. Aveva bisogno di una nuova pista e aveva in mente di cercare tra gli scatoloni che Evelyn aveva archiviato sopra il garage, per rivedere le schede dei suoi ex pazienti e capire se i dettagli che aveva trovato fino a quel momento portavano a qualcuno con cui avesse lavorato a Boston.

Più tardi, quando a Boston non fosse stato così presto, avrebbe fatto anche delle telefonate. La prima sarebbe stata alla famiglia di Evelyn. Doveva dire ai familiari cosa stava succedendo prima che lo sentissero al telegiornale.

Mentre cominciava la discesa verso Hilltop la radio ricominciò a funzionare.

«Amarok, mi senti?»

Amarok si rese conto all’improvviso che stava guidando mezzo addormentato e sbatté le palpebre mentre Makita cominciava ad abbaiare, poi, grazie a una nuova scarica di adrenalina, afferrò la ricetrasmittente. «Sono qui, Phil. Che succede?»

Si stava facendo tardi, ma Phil era rimasto alla stazione in caso Evelyn avesse cercato di chiamare o qualcun altro avesse tentato di contattarlo per delle informazioni. «Forse niente.»

Amarok fu quasi sollevato da quelle due parole tanto quanto ne fu deluso. Anche se desiderava una svolta nel caso aveva temuto che Phil gli stesse per dire che era stato trovato il corpo di Evelyn e che, cosa ancora peggiore, presentava segni di tortura e mutilazione. «Che c’è?» gli chiese.

«Ho appena ricevuto una telefonata da un certo Dax O’Leary.»

«È il proprietario del furgone che è stato rubato. Gli ho parlato un paio d’ore fa. Perché ti ha chiamato?»

«Farfugliava da quanto era ubriaco. Era difficile capirlo, ma sono abbastanza sicuro che mi abbia detto di riferirti che il “gladiatore” di cui parlavi si è fatto vedere in un locale, il The Landing Strip.»

Amarok aveva il cuore in gola. Il gladiatore? «Hai detto che Dax ti ha appena chiamato?»

«Esatto. Abbiamo appena messo giù.»

«Dov’è il The Landing Strip?»

«Vicino all’aeroporto. Me l’ha detto lui. Fammi dare un’occhiata.»

Non appena Amarok memorizzò l’indirizzo, fece subito dietro front per tornare di corsa ad Anchorage.

Peccato che Dax non avesse visto prima quel tipo. Così non avrebbe avuto un’ora di strada da percorrere. Vista l’opportunità che gli si era appena presentata sembrava un’eternità. Pregò che non fosse troppo tardi quando sarebbe arrivato.

«Chiama la polizia di Anchorage» disse a Phil. «Spiegagli cosa sta succedendo e digli di mandare subito qualcuno al locale.»

«Ci penso io.»

Minneapolis, Minnesota – giovedì, ore 4.30

Scappare fu molto più semplice di quanto Lyman si fosse aspettato. Ma programmare tutto faceva la differenza tra una buona riuscita e il fallimento, quasi in ogni cosa. Aveva passato mesi a farsi amico Terry, ascoltando i suoi problemi matrimoniali, le angosce economiche, le lamentele sul suo lavoro e così via. Farlo sentire importante aveva reso l’impresa possibile. Non ci sarebbe mai riuscito da solo. Lo aveva saputo fin dall’inizio. E quella sera stava andando tutto secondo i piani.

Era stato utile vestirsi senza dare nell’occhio e mettersi in tasca il telefono usa e getta, la carta d’identità falsa e diversi pezzi da venti, mentre tutti gli altri stavano dormendo, eccetto la guardia e le due infermiere che facevano il turno quella notte. La guardia che si aggirava per i corridoi monitorava ogni attività, soprattutto dopo che i pazienti erano stati messi a letto, ma si atteneva un po’ troppo alla routine. Pranzava sempre alla stessa ora, cosa che la toglieva dalla circolazione a un momento preciso del suo turno. Mentre mangiava chiacchierava con le due infermiere, cosa che le distraeva.

Perché non avrebbe dovuto sentirsi sicura? si chiese Lyman. Era tutto tranquillo. Nei reparti non era successo niente che indicasse che quella sera sarebbe stata diversa dalle altre.

Ironicamente l’unica persona che lo vide andarsene fu Terry, che stava lavando il pavimento del corridoio e fatalità aveva sollevato lo sguardo mentre Lyman usciva dalla sua stanza. Sgranò gli occhi, ma chinò di nuovo in fretta la testa. Aveva già avvisato Lyman sulla posizione delle telecamere e gli aveva detto come superare i punti ciechi per poter raggiungere la porta senza essere ripreso.

Lyman non aveva più bisogno di lui.

In condizioni normali se si apriva la porta sul retro l’allarme sarebbe scattato, ma visto che Terry aveva manomesso il sistema di sicurezza centrale, l’unico rumore che sentì fu la quieta folata d’aria mentre si richiudeva la porta alle spalle.

Si voltò per essere sicuro che si fosse chiusa adeguatamente prima di correre via. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe chiamato un taxi. Solo che non voleva farlo nelle vicinanze del Beacon Point Mental Hospital. Anche se temeva che quella sarebbe stata la parte più difficile del piano – visto che doveva trascinare la gamba sinistra e impiegava secoli per spostarsi – sentiva che era più importante andarsene senza lasciare tracce piuttosto che muoversi in fretta. E comunque non avrebbe potuto allontanarsi molto prima che le banche aprissero, al mattino.

Per fortuna, l’abbraccio della fredda aria notturna e l’eccitazione data dalla libertà gli concessero di camminare per quasi cinque chilometri. A quel punto chiamò un taxi e sollevò il cappuccio della felpa che indossava, così il tassista non avrebbe visto che una parte del suo viso era paralizzata.

Doveva fare un paio di cose prima di partire per l’Alaska. Doveva andare alla sua cassetta di sicurezza e prendere la carta di credito per poter prelevare gli ultimi soldi che aveva sul conto corrente. Poi doveva andare in una filiale dove poter comprare una carta Visa con cui pagare il volo. Ma appena la banca avesse aperto non ci avrebbe messo molto e dopo aver raggiunto l’aeroporto ed essere salito su un aereo lo avrebbe aspettato un volo di cinque ore.

Tra lui ed Evelyn adesso si frapponevano solo quei piccoli ostacoli.

La gente normale dava per scontata la facilità con cui si gestivano certe cose banali, giorno dopo giorno.

Ma Lyman non era normale.

Non lo era mai stato, ictus o meno.

Anchorage, Alaska – giovedì, ore 1.30

Quando Amarok trovò tre auto di pattuglia ferme in vari angoli del parcheggio del The Landing Strip, con le luci lampeggianti accese, frenò sbandando e balzò fuori, lasciando la portiera aperta perché Makita lo seguisse. «Lo avete preso?» chiese al poliziotto che abbassò il finestrino.

Il cuore gli pompava in petto come il pistone di un motore. Se prima era stanco morto adesso era del tutto sveglio, e non aveva percepito un solo attimo di stanchezza durante l’intero viaggio di ritorno. Aveva solo una cosa in mente: riportare a casa Evelyn.

Forse fu per quello che il colpo fu particolarmente duro quando il poliziotto lo guardò, scuotendo la testa. «Temo di no.»

Il dolore alla mano contusa, che aveva percepito appena da quando aveva ricevuto la chiamata di Phil, cominciò a pulsare così forte che gli fece salire la nausea. «Che significa? Vi ho fatti chiamare un’ora fa da un certo Phil Robbins. Non ditemi che siete appena arrivati.»

«Siamo arrivati circa mezz’ora fa, ma se n’era già andato.»

Ad Amarok sembrò che qualcuno gli avesse appena scaricato un’incudine sul petto. «Cosa? Perché?»

«Non lo so. Non c’era.»

Dall’edificio uscirono un poliziotto e Dax O’Leary.

«Eccola qui!» esclamò Dax, e gli si avvicinò, barcollante. «Wow, è grande come cane. Com’è con gli estranei?»

Amarok era così abituato ad avere con sé Makita a Hilltop che non aveva minimamente pensato che la presenza del cane avrebbe potuto rendere nervoso qualcuno. «Non fa niente se non glielo ordino.»

«Bene. Perché cavolo ci ha messo così tanto?»

«Ero a quasi un’ora di distanza. Ho fatto prima che ho potuto.» Indicò gli altri poliziotti. «Loro sono arrivati prima.»

«Già, ma non abbastanza. Dopo che l’ho chiamata e sono tornato nel club quel tizio mi ha visto e fine dei giochi. È corso fuori.»

«Lo ha seguito? Ha visto che macchina guidava? Era il suo furgone?»

«Non lo so» disse Dax. «L’ho seguito solo fino alla porta. Avevo paura di uscire. Ho pensato che magari mi stava aspettando, e non volevo fare a botte.»»

Amarok serrò gli occhi. Non era possibile. Il sospettato era stato a portata di mano e se l’erano fatto sfuggire? Quella tenue speranza per Evelyn poteva essere scivolata via con lui «Per favore ditemi che qualcuno qui l’ha riconosciuto, che sa chi è e dove vive.»

«No» disse il poliziotto che era uscito con Dax. «Ho appena fatto il giro del locale, ho chiesto a tutti. Non l’ha riconosciuto nessuno, a parte lui.» Puntò il pollice dietro la spalla, verso Dax.

«Quante probabilità ci sono?» Amarok bofonchiò tra sé e sé, più abbattuto che mai.

«Me lo sono chiesto anch’io!» Dax alzò la voce più del necessario. «Cioè, si tratta di una coincidenza, no? Stavo bevendo qualcosa e quando l’ho visto c’è mancato poco che non mi strozzassi.»

Dax non poteva telefonare e poi andarsene con discrezione? Perché era rientrato? si chiese Amarok. Dax doveva immaginarselo che se il tizio l’avesse visto si sarebbe spaventato, soprattutto se era stato lui a rubare il furgone.

Ma Amarok non lo chiese. A che pro? Il danno era fatto. Era ovvio che Dax era ubriaco, e non era di certo l’uomo più scaltro del mondo. E poi non aveva molto in ballo. Certo, aveva perso un vecchio furgone e il suo unico mezzo di trasporto, ma non sembrava importargli poi molto. Tanto per cominciare non aveva nemmeno dovuto pagarlo.

«Penso che dovremmo andare negli altri club in città, e magari anche in qualche bar» disse un poliziotto che si chiamava K. McGowen. «Per vedere se è andato da qualche altra parte.»

Amarok continuò a immaginare Evelyn come l’aveva vista due giorni prima, quando l’aveva salutata con un bacio prima di andare al lavoro. Se il suo rapitore era in giro, cosa significava per lei? L’aveva già uccisa e si era liberato del corpo? Adesso stava cercando un’altra vittima? «Non sarà in nessun locale» disse, amareggiato.

L’agente McGowen sbatté le palpebre. «Come fai a saperlo?»

«Sarebbe stupido a correre il rischio.»

«Ha corso il rischio di venire qui» puntualizzò Dax, sentendosi ovviamente importante visto che era riuscito a suscitare una risposta così immediata ed entusiasta da parte della polizia.

«Perché non si aspettava di vederla. Ma adesso si renderà conto che c’è il rischio di incontrarla di nuovo, che la città è piccola più di quanto sembra, e in futuro sarà più cauto.»

«Be’, maledizione» borbottò Dax. «Si comporta come se sia colpa mia che se n’è andato. Sono stato io a chiamarvi.»

Amarok si sfregò il viso con le mani. Non aveva più risorse emotive. Non aveva più risorse, punto. «Se lo rivede ci dica dov’è e poi esca prima che la veda, okay?»

«Come facevo a sapere che mi avrebbe riconosciuto?» gridò, colpito da quella critica.

Amarok gli rivolse un’occhiataccia. «Ha rubato il suo furgone, quindi forse l’ha vista mentre lo parcheggiava. Se era sveglio, avrà tenuto d’occhio il parcheggio, in cerca di qualcuno che entrasse e che non uscisse subito.»

«Non possiamo esserne sicuri» bofonchiò Dax.

«Perché correre il rischio, idiota che non sei altro?»

McGowen posò una mano sulla spalla di Amarok. «Vacci piano. Continueremo a cercarlo e ti faremo sapere se scopriamo qualcosa.»

Amarok annuì. Il nodo che sentiva in gola gli proibì di aggiungere altro. La stanchezza, che aveva tenuto a bada grazie alla breve ma intensa convinzione che quell’incubo sarebbe finito presto, lo stava travolgendo come un’onda di quindici metri.

Doveva andare a casa e rivedere gli appunti di Evelyn. Non gli rimaneva altro da fare; non aveva tempo di rimanere lì a prendersela con chiunque o a leccarsi le ferite.

Ma quando barcollò mentre cercava di tornare al furgone e stava quasi per inciampare, McGowen lo raggiunse di corsa.

«Ehi, non ti metti subito al volante, vero?» gli chiese, esitante.

«Secondo te?» rispose. Non era ovvio? Aveva le chiavi in mano…

Il poliziotto lo guardò perplesso. «A me sembra così. Ma mi sembra anche che tu abbia bevuto, quindi…»

«Bevuto?» ribatté Amarok, scioccato.

«Scommetto che è la mancanza di sonno» intervenne Dax, avvicinandosi. «Come vi ho detto prima che arrivasse, è un po’ scombussolato. E vede la sua mano? Guardi com’è gonfia! Mio fratello mi ha detto che è andato fuori di testa, che dava pugni dappertutto, nel suo furgone. Probabilmente se l’è rotta, quella mano.»

«Ti suggerisco di tenere la bocca chiusa prima che ti dimostri che posso ancora usarla» sbottò Amarok. Sapeva di non doversi comportare come un idiota, ma era scattato per la frustrazione e la spossatezza. Aveva perso il controllo.

McGowen si accigliò. «Perché non ti metti sul retro della mia auto di pattuglia? Ti porto all’ospedale.»

Amarok ricominciò a camminare. «Non vado all’ospedale. Non vado da nessuna parte finché non trovo Evelyn.»

McGowen affrettò il passo per raggiungerlo. «Dovresti farti le lastre alla mano.»

«E allora? La mano è mia. Ci penso io.»

«Non era una richiesta, sergente.» McGowen gli afferrò il braccio e cercò di fermarlo. I suoi occhi azzurri erano determinati, non scherzava. Ma ad Amarok non importava. Era troppo agitato perché gli importasse di quello che qualcuno avrebbe potuto fargli. E a Makita non piaceva quando qualcuno si metteva in mezzo. Ringhiò perché il padrone non venisse minacciato, poi scoprì i denti, e McGowen lasciò immediatamente Amarok.

«Di’ al tuo cane di stare buono» gli disse, ma lui si limitò a sollevare il dito medio e richiamò Makita per salire in furgone e partire a tutta velocità, facendo schizzare la ghiaia.

Per fortuna non lo seguì nessuno. Forse compresero che se l’avessero fatto avrebbero solo peggiorato le cose.