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Hilltop, Alaska – martedì, ore 19.10
Secondo i calcoli di Amarok, Evelyn era sparita più o meno da cinque ore. Per molti aspetti cinque ore non erano molte, ma in quel frangente erano un’eternità. Sulla strada di ritorno dalla prigione si era fermato a casa per passare al setaccio il terreno circostante, nel caso Evelyn fosse stata uccisa in fretta e il suo corpo fosse stato gettato nelle vicinanze. Non vide niente di insolito. Nessun segno di trascinamento lungo il muschio estivo, nessuna impronta a terra. Non c’era niente di diverso dal solito.
Come sempre Makita era con lui, ma non era un cane dell’unità cinofila. Non era stato sottoposto all’addestramento nel New Mexico, come molti cani poliziotto. Quell’addestramento, sommato al costo del cane, poteva ammontare a più di quindicimila dollari: soldi che lo Stato non era disposto a spendere.
Ma Amarok aveva avuto a che fare con i cani da sempre, così aveva addestrato da solo Makita, passo dopo passo, con scrupolosità; gli aveva insegnato a rendersi utile nel far rispettare le leggi venatorie, cosa che occupava gran parte del tempo di un agente in Alaska, soprattutto in un piccolo avamposto come Hilltop. Visto che doveva affrontare gruppi di cacciatori che spesso erano ubriachi e facevano cose illegali come usare torce per stanare gli animali di notte, puntando fari su cervi o orsi per immobilizzarli e poter sparare loro facilmente, aveva insegnato a Makita a nascondersi dietro di lui e a rimanere completamente in silenzio. Se i cacciatori che infrangevano la legge non obbedivano agli ordini verbali e diventavano minacciosi, si davano manforte o cominciavano a sparare, lui sguinzagliava il cane mentre gli altri poliziotti chiedevano rinforzi, e Makita partiva all’attacco dal suo nascondiglio, li prendeva di sorpresa prima che potessero sparare e metteva fine alla schermaglia, il più delle volte prima ancora che cominciasse. Makita sapeva come stendere al tappeto un uomo. Se Amarok si trovava davvero nei guai e gli impartiva un comando preciso, avrebbe messo fuori gioco l’avversario in modo permanente.
Ma adesso che Evelyn era scomparsa, Amarok desiderò aver addestrato Makita come un cane da ricerca, così sarebbe stato più utile nel ritrovarla. Invece, il cane continuava a tornare da lui, quasi a chiedergli quando avrebbero finalmente affrontato quello che considerava un “branco” di cacciatori; voleva dare inizio allo scontro, soprattutto perché quella era stagione di caccia, il periodo dell’anno in cui lavoravano di più, in tandem.
«Evelyn» disse a Makita, facendogli annusare la sua scarpa. «Trova Evelyn.» Ma il cane non capiva, e non trovarono nulla. E nemmeno Phil Robbins, un abitante del posto di mezza età che dava una mano tenendo pulite le strade d’inverno e comportandosi come un agente di pubblica sicurezza nei mesi più caldi. Amarok lo aveva spedito a controllare i fiumi più vicini in varie strettoie, dove di solito si impigliavano i rami spezzati e i detriti trascinati dalla corrente, ma Phil lo aveva chiamato via radio per dirgli che era tornato e i fiumi erano sgombri.
Amarok sperava di ricevere notizie migliori da Shorty, perché anche lui aiutava a mantenere la pace nei mesi estivi, quando l’afflusso di cacciatori e pescatori chiassosi raggiungeva il picco. L’aveva mandato in vari capanni da caccia nelle montagne, e dato che ci voleva parecchio per andare da un capanno all’altro non aveva ancora ricevuto un rapporto via radio.
«Ehi, non mi piace quella faccia» gli disse Phil quando Amarok entrò nella stazione di polizia. «Immagino quello che stai pensando, e non è niente di buono.»
Amarok non rispose, si limitò a chiudere la porta dietro a Makita e a guardare Phil, che era accanto al distributore dell’acqua con in mano un bicchiere di carta.
«Ne abbiamo passate di peggio» aggiunse Phil nel tentativo di incoraggiarlo.
Amarok scosse la testa. «No.»
Il buon umore di Phil si sgretolò di fronte allo sguardo fisso di Amarok. Anziché continuare a essere allegro ed eccessivamente ottimista trangugiò l’acqua, accartocciò il bicchiere e lo gettò nel cestino mentre gli si avvicinava. «La riporteremo a casa, vedrai. E starà bene. La tua dottoressa ne ha già superate tante. Sa come sopravvivere. È più forte di tutti noi messi insieme.»
«Quanto forte può essere al sesto mese di gravidanza, Phil?» Amarok si asciugò il sudore dalla fronte mentre si accasciava su una sedia. «La sera è così stanca che si addormenta sul divano praticamente dopo cena. A volte devo portarla a letto. Le si gonfiano i piedi se non li tiene sollevati abbastanza. Le fa male la schiena se non cambia spesso posizione. Le viene la nausea se non mangia regolarmente. E a volte, se esagera, comincia ad avere i crampi, e il dottore ci ha detto che potrebbe essere grave. Basterebbe anche solo lo stress per quello che sta passando perché entri in travaglio prima del tempo e…» Gli si incrinò la voce, così rimase in silenzio.
Phil gli strinse la spalla. «So cosa c’è in ballo. Ma Evelyn sa che sei qui fuori a fare di tutto per riportarla a casa. Si aggrappa a questo. E anche tu devi credere che puoi farcela. Devi continuare a combattere come se fosse una certezza, e poi rimuginare non ti aiuta.»
Erano parole forti per Phil. Non era tipo da prendere il controllo. Ma aveva ragione.
Amarok annuì e prese il telefono per riprovare a chiamare il Beacon Point Mental Hospital a Minneapolis. Aveva lasciato tre messaggi prima di andarsene dalla prigione, ma la segretaria di turno aveva continuato a insistere nel dire che con le nuove leggi non poteva nemmeno confermargli se avevano ancora un Lyman Bishop tra i loro pazienti.
Amarok le aveva spiegato la situazione e le aveva chiesto di poter parlare con il suo superiore, così lei gli aveva promesso che a breve lo avrebbero richiamato, ma forse per via del fuso orario non sarebbe successo tanto presto, visto che lì erano le dieci passate.
«Pronto?»
Riconobbe la voce della segretaria. «Sarah? Sono di nuovo io.»
«Lo so» rispose lei. «Mi spiace. Ho cercato di contattare qualcuno che possa dirmi cosa fare, ma il dottore in servizio non mi ha ancora risposto.»
Amarok si sforzò di non alzare la voce. «Ho solo bisogno di sapere se Lyman Bishop è lì. Solo questo.»
«Lo capisco. Ma le ho già detto…»
«Sono un poliziotto.»
«È quello che mi dice lei, ma come faccio a sapere che è vero? Chiunque può chiamare e fingere di essere un poliziotto. Le serve un mandato o un’ordinanza del tribunale per ottenere informazioni mediche…»
Amarok sentiva Makita che beveva dalla ciotola dopo le ore che avevano passato all’aperto. «Non sto chiedendo informazioni mediche.»
«Questo è un ospedale psichiatrico. Non posso divulgare nessuna informazione, a meno che non abbia il permesso scritto del paziente o un codice privato.»
«Non ho il permesso di Bishop, né il suo codice privato, perché non sono un suo amico. E non posso ottenere un mandato, perché non ho motivo di credere che un uomo che è stato devastato da una grave emorragia cerebrale e viene nutrito attraverso una cannula a Minneapolis possa avere appena commesso un crimine in Alaska. Sto solo cercando di trovare una pista su una donna che è stata rapita. L’ha già aggredita in passato, quindi devo scartarlo in qualche modo.»
«Capisco.»
«No, non credo. La vita di questa donna è in pericolo… la sua e quella del figlio che porta in grembo. Non vuole essere responsabile della loro morte, vero? La prego, mi dica se Bishop è lì.»
La segretaria era stata irremovibile, del tutto indifferente di fronte alle suppliche di Amarok, ma quando non ribatté all’istante lui ebbe l’impressione che si stesse finalmente ammorbidendo.
«Per favore!» le disse di nuovo. «Le regole sono solo regole. A volte bisogna infrangerle per fare quello che è giusto, quello che è più umano.»
«Sono d’accordo, ma…»
«Quella che è scomparsa non è una donna qualsiasi. Si tratta della dottoressa Evelyn Talbot.» Prima era stato riluttante nel menzionare la cosa, per non dare il via al circo mediatico che ne sarebbe seguito. Chi non credeva nell’operato di Evelyn stava facendo di tutto per trarre vantaggio da ogni intoppo per metterle i bastoni tra le ruote. Ma adesso che non era ricomparsa come aveva sperato non gli importava più di proteggere il lavoro di Evelyn a Hanover House. «Ne ha sentito parlare, vero?»
«Sì. Chiunque lavori nel campo psichiatrico ne ha sentito parlare. Fa ricerche sui serial killer.»
Makita si avviò lentamente verso il suo grande cuscino, ma anche dopo essersi accucciato continuò a sollevare la testa come se stesse cercando di capire cosa fosse cambiato, cosa stesse succedendo.
«Giusto» disse lui. «A Hanover House, in Alaska. E io la sto chiamando dall’Alaska. Lo vede dal prefisso, no?»
«È scomparsa?» disse la donna, incerta.
«Dall’una di oggi. O almeno è a quell’ora che se n’è andata dalla prigione. Erano quasi le quattro quando ho trovato una sua scarpa e il contenuto della sua borsa sparso a terra.»
Seguì una breve pausa. Poi la segretaria disse: «Va bene. Lui è qui, okay? Può smettere di preoccuparsi di Bishop e cercare altrove, perché non è lui. Non lo nutriamo più con la cannula, ma è comunque limitato in quello che fa».
Amarok appoggiò la testa su una mano e cominciò a massaggiarsi la fronte.
«Sergente Murphy?» disse lei. «Mi ha sentita?»
«Sì. Ho sentito. Grazie» rispose, e riagganciò.
Phil lo guardò, ansioso. «Allora? Cos’hanno detto?»
«Non è Lyman Bishop. Non riesco a credere di essermi fatto convincere da Jasper che potesse essere stato lui.»
«E allora chi è stato?»
«Vado a parlare con i Ledstetter.»
«La famiglia di Sandy? Perché? Non hanno mai fatto del male a nessuno.»
«Odiano Evelyn, le danno la colpa per la morte di Sandy. Dovresti vedere come la guardano quando la incontrano al Moosehead o da qualche altra parte. Lei fa finta di non notarlo, ma io vedo che la infastidisce.»
«Sandy è morta diciotto mesi fa, Amarok. Non credi che Davie o Junior avrebbero già fatto qualcosa se avessero voluto?»
Amarok si sfregò il viso con una mano. «Certo. Non ho mai pensato male di Davie e Junior. Ma per il momento è l’unica pista che ho.»
Minneapolis, Minnesota – martedì, ore 23.00
Lyman Bishop sollevò accigliato il telecomando per spegnere il televisore appeso al muro.
«Maledizione!» Terry Lovett, un addetto alle pulizie di circa trentacinque anni, si avvicinò al letto di Lyman. «Perché non l’hanno detto?» chiese, riferendosi all’edizione notturna del telegiornale.
«Perché è troppo presto.» Anche Lyman aveva pensato che la notizia del rapimento di Evelyn sarebbe stata data subito. Ci aveva sperato, ma non poteva tradirsi facendo credere di sapere più del dovuto. L’importante era mantenere la fiducia di Terry, fingere di avere tutto sotto controllo. Comunque apprendere del rapimento in TV quella sera non era fondamentale. Avrebbero solo dovuto aspettare un altro giorno perché si spargesse la voce. Voleva essere a Minneapolis quando la cosa sarebbe stata resa nota.
«Quanto ci vuole?» Il sudore imperlava la fronte di Terry anche se non faceva per niente caldo. E Terry non era sovrappeso. Era solo preoccupato, ansioso.
Lyman gli rivolse un’occhiata curiosa. Trovava quell’ansia piuttosto strana, visto che non era mai stato così nervoso da reagire a quel modo. «Probabilmente fino a domani.»
Terry si voltò verso il muro. «E se così non fosse?»
«Vedrai. La dottoressa Talbot è una figura di spicco. I media parleranno presto della sua scomparsa. Poi, quando il sergente Murphy o chiunque altro che venga coinvolto comincerà a cercarla controlleranno che io sia ancora in questo buco. E una volta che se ne saranno accertati penseranno che non posso essere io il responsabile, che anche solo pensarlo sarà stato un azzardo, e non dovrai preoccuparti che qualcuno punti il dito contro di te quando sparirò.»
«Scapperai quando tutti sapranno che è stata rapita?»
Lyman sollevò gli occhiali sul naso. «Sì. Mi metterò i vestiti che mi hai portato e uscirò dalla porta sul retro.»
«Che io lascerò aperta per te. Hai il cellulare usa e getta che ti ho procurato? L’hai nascosto bene?»
«È attaccato sul fondo del letto con del nastro adesivo. Nessuno ha mai guardato lì da quando sono stato ricoverato.»
«Perché dovrebbero? Sono io l’addetto alle pulizie.»
Esatto. Nemmeno Terry aveva guardato sotto al letto, eppure avrebbe dovuto pulire anche lì. «Infatti.» A Bishop piaceva quell’uomo, ma era senza dubbio pigro.
«Assicurati che la porta si chiuda quando te ne vai» gli disse. «Devo ripristinare l’allarme prima che qualcuno scopra che l’ho disattivato.»
«Non me lo dimentico, no.» Lyman sistemò le coperte. «Non vogliamo mica che i pazzi rinchiusi qui se ne vadano in giro, vero?» Rise per la battuta. Alcuni dei pazienti nell’ala psichiatrica erano spaventosi, e non solo gli schizofrenici. Ma Terry era troppo teso per apprezzare un po’ di leggerezza.
«E se le cose non vanno come previsto e la polizia se ne accorge?»
Lyman fece un gesto di noncuranza. «Non succederà. Penseranno che mi sono alzato, ho vagato in giro e in qualche modo sono riuscito a uscire dall’edificio.»
«In qualche modo dovranno spiegare la cosa. Potrebbero anche chiamare Hanover House per metterli al corrente che sei sparito.»
«Perché dovrebbero? Pensano che sia diventato un pazzo furioso, che non sia capace di sopravvivere da solo.»
Terry prese dell’immondizia che poco prima Bishop aveva gettato nel cestino. «E se ti sbagli?»
Era sempre una possibilità. Non poteva controllare tutto. Poteva solo volgere le cose a suo favore, e statisticamente parlando sentiva di avere buone possibilità. «Lascia che cerchino. Non mi troveranno mai. A quel punto sarò il dottor John Edmonson. La carta d’identità che mi hai procurato è perfetta. Nessuno si accorgerà che è falsa.»
«Dovrebbe essere buona. È costata abbastanza» borbottò lui.
Lyman si lisciò i pochi capelli rimasti. La calvizie stava peggiorando con l’età. «Ti pagherò. Non preoccuparti. Ti pagherò per tutto, non appena uscirò di qui e avrò accesso ai miei soldi.»
«Ci conto. Non conosci mio cognato, ma se non mi paghi ti verrà a cercare.»
Bishop non era preoccupato. Un grammo di cervello la spuntava sempre contro una tonnellata di forza. «Sei stato chiaro.»
Terry riannodò i cordoncini del suo camice. Gli piaceva sembrare uno dello staff medico, probabilmente perché era più prestigioso che essere un addetto alle pulizie. «Se ti trovano promettimi che non mi tirerai in mezzo. Adesso ho una famiglia. Non posso tornare in prigione. Ed Emmett non è il tipo che vorresti come nemico.»
«Mi hai già fatto capire anche questo. Comunque non avrei motivo per portarvi a fondo con me. Ti ho detto di rilassarti. Sta andando tutto secondo i piani.» Il suo, di piano, che doveva ammettere era geniale. Magari la sua mente non era brillante come un tempo. Ma adesso che le crisi epilettiche di cui aveva sofferto subito dopo l’emorragia cerebrale erano cessate, la sua situazione avrebbe potuto essere molto peggiore. Poteva essere seduto nel braccio della morte senza alcuna via di scampo.
«Ci sto provando» disse Terry. «Ma Emmett è scontento. Non gli piace il fatto che la dottoressa sia incinta.»
Bishop trovava quell’aspetto particolarmente allettante, ma non poteva dirlo. Aveva passato troppo tempo a forgiare un’immagine di sé diversa agli occhi di Terry. «Deve aver paura che entri in travaglio.»
«Lo biasimi? Non vuole accollarsi la responsabilità di un parto, o che il bambino muoia mentre se ne sta occupando lui. Mi ha detto che sta per tagliare la corda.»
Lyman si sentì allarmato per la prima, vera volta. Aveva finalmente fatto la sua mossa, aveva preparato ogni dettaglio. Non poteva permettere che Emmett rovinasse tutto. «Sarà meglio che non lo faccia. Avevamo un accordo!»
«Gliel’ho detto, ma se decide di andarsene non posso farci niente.»
«E i soldi? Non gli interessa essere pagato?»
«Sono sicuro di sì, ma…»
«Mi avevi assicurato che era affidabile. Ti ho detto cosa mi serviva e hai detto che potevi farlo.»
«E l’ho fatto. È solo che Emmett è un po’… imprevedibile.»
«Tua moglie è sua sorella. Dille che lo convinca.»
«Stai scherzando? Non ne sa niente di questa faccenda. E poi lui fa quello che vuole, e ha questo strano codice etico. Certe cose le fa senza tanti problemi, altre no.»
«Allora avresti dovuto prendere qualcun altro.»
Terry alzò le mani. «Sono stato fortunato a trovare lui! Quante persone credi che conosca che siano disposte a rapire una donna, soprattutto una come la dottoressa Talbot?»
Lyman giocherellò con la medicina per l’ansia che gli davano ogni sera, assieme a un sonnifero. Le metteva da parte invece di inghiottirle, quasi fin dal giorno in cui era arrivato in quell’ospedale. Lo facevano sentire stanco e intontito, e non poteva permetterselo. «Diecimila dollari sono un sacco di soldi. E io ti sto pagando esattamente questa cifra. Quindi se vuoi accontentare la tua esigente mogliettina faresti meglio ad assicurarti che suo fratello non ci deluda.»
Terry fece un sospiro mentre tornava verso il letto. «Sto facendo del mio meglio. Non pensavo che Emmett sarebbe diventato così nervoso. Faceva tanto il duro quando eravamo in galera. Secondo te quanto deve rimanere ancora?»
«Potrebbe volerci una settimana.»
«Una settimana» ripeté l’altro, come se Lyman avesse detto un anno.
«Perché vada tutto bene dobbiamo avere pazienza. Digli che se rimane gli darò altri duemila dollari.»
«E io?» chiese.
Lyman pensò di dare a lui le medicine, così poteva buttarle o, cosa più probabile, venderle. Ne aveva già accumulate un bel po’. Cose come quelle potevano diventare utili se si aveva a che fare con una prigioniera recalcitrante. Conscio di questo si era preparato fin dall’inizio e le aveva nascoste tutte in una piccola scatola da scarpe che teneva con i suoi pochi effetti personali. Ma all’ultimo secondo decise di tenere anche le ultime pillole. Si disse che non se ne avevano mai abbastanza. «Sei pagato bene» disse, e infilò le pasticche nella tasca della maglia del pigiama.
Terry lo guardò perplesso quando glielo vide fare. «Sai che non puoi tenerle lì. Tra poco l’infermiera verrà a controllare se hai preso tutte le medicine; se fai qualcosa di insolito richiamerai l’attenzione, e non è una cosa che ci serve.»
«Ho intenzione di prenderle» mentì. «Solo che non voglio farlo finché sei qui. Mi stordiranno subito, e allora che compagnia sarei?»
«Fa’ pure» disse Terry. Bastava veramente poco per rassicurarlo. «Tanto devo finire di lavorare. Questo posto non si pulisce mica da solo.» Si avviò verso la porta, fermandosi all’ultimo secondo. «Ho promesso a Emmett che non farai del male a Evelyn Talbot. È così, giusto?»
«Te l’ho già detto mille volte, non ho mai fatto del male a nessuno.»
«Allora quella faccenda del Fabbricante di Zombi… con il rompighiaccio conficcato nell’orbita e tutte quelle macabre stronzate… non eri tu?»
Bishop sapeva di apparire innocuo, lì steso in un letto con mezzo viso paralizzato. Era colto, sembrava un serafico intellettuale, quindi non era affatto come i delinquenti che Terry associava a un comportamento criminale, fatto che continuava a usare a suo favore. «Lo sai che non ero io. Il detective che stava investigando su quegli omicidi ha messo la prova in casa mia. Altrimenti non mi avrebbero scarcerato, ricordi? Ti ho mostrato gli articoli d’archivio online.»
«Me lo ricordo. Vuoi solo che firmi delle carte così puoi riprenderti la tua vita; ho capito.»
Bishop nascose un sorriso. Non era difficile convincere qualcuno disposto a credergli.
«Allora quant’è che la terrai prigioniera?» chiese Terry.
«Non molto. Quando le avrò detto quello che voglio e dopo che mi sarò fatto ascoltare sul serio può andare, se vuole.»
«Se vuole? Una donna del genere non sceglierebbe mai di stare con un uomo come te» lo derise, incredulo.
Bishop sorrise immaginando quanto sarebbe stato facile farle cambiare ciò che aveva in mente, nel senso letterale del termine. «Non si sa mai.»