10
Anchorage, Alaska – giovedì, ore 9.00
Evelyn tremò per la rabbia e la repulsione. Aveva creato la farsa dell’acqua insanguinata. Le inzuppava le gambe e il vestito. Quando si voltò vide la piccola pozza che aveva formato sul pavimento e le gocce che portavano alla branda. Aveva spalmato alcune di quelle gocce con il piede scalzo mentre fingeva di zoppicare fino al letto.
La scena sembrava convincente. Fin troppo. In parte era per questo che stava avendo una reazione così violenta per quello che aveva in mente di fare. Credeva che potesse davvero funzionare, o almeno abbastanza da attirare il suo carceriere nella stanza, il che significava che nel bene o nel male uno di loro probabilmente non sarebbe uscito da quella cella.
Con il passare del tempo si calmò un po’, ma la mano che teneva il coltello cominciò a sudare. Dovevano essere passate parecchie ore da quando le aveva portato la cena, forse dodici? Si sentiva debole e le girava la testa. Dopo essere stata tesa così a lungo si sentiva assonnata nonostante la paura.
Ma doveva rimanere concentrata, determinata.
Arriverà presto, si disse.
Pregò ancora una volta che Amarok apparisse per salvarla. Sapeva che aveva smosso mari e monti per trovarla, ma non era arrivato. L’unica cosa che sentiva era il calore che si diffondeva dal bocchettone con un lieve brusio.
Dondolandosi avanti e indietro fissò la parete bianca che aveva di fronte. Resisti. Devi resistere. Lo stava facendo per salvare la sua bambina. Ma temeva l’arrivo del suo aguzzino quasi quanto quello che sarebbe successo se avesse continuato ad aspettare.
Se l’avesse colpita o le avesse sferrato un calcio sulla pancia…
Il suono del catenaccio fu come una scarica elettrica, che le fece battere il cuore a mille. Oddio! Ci siamo! Non si poteva più tornare indietro, non poteva cambiare idea.
Serrò la mascella e cominciò a gemere mentre continuava a dondolarsi. Quella parte non era difficile. Non era difficile nemmeno far scendere le lacrime lungo il viso. Tremava da capo a piedi.
All’inizio non sentì nulla, solo i propri gemiti. Lo immaginò piegarsi e sbirciare attraverso il pertugio. Come Evelyn, anche lui non aveva una buona visuale da quella fessura, ma era sicura che riuscisse a vederla. Era abbastanza distante dalla porta.
«Cosa cazzo succede?» Gridò lui, infuriandosi all’istante.
Evelyn sentì un rumore metallico, come se la cella frigorifera fosse stata chiusa dall’esterno con una catena e un lucchetto, poi la porta si aprì.
Quando lui entrò Evelyn comincio a tremare ancora più forte. Colpire verso l’alto era sempre più difficile che farlo verso il basso; non poteva far leva su niente.
Sarebbe riuscita a farlo?
Non era più sicura di avere la forza per sollevare il braccio, figuriamoci per infilzargli il coltello nel collo.
In un flash ripensò a tutti i muscoli del collo: sternocleidomastideo, omoioide, sternoioideo e molti altri. Era come se fosse tornata a lezione di anatomia e stesse fissando un cadavere. Poteva recidere ognuno di quei muscoli. Credeva di poter addirittura infilzare l’osso ioide. Se gli avesse colpito la trachea, la giugulare o una delle arterie carotidee avrebbe potuto menomarlo abbastanza da poter scappare. Non doveva colpirgli la mandibola. Se l’avesse fatto lui le avrebbe afferrato la mano, avrebbe preso il coltello e… poi? L’avrebbe uccisa?
Anche se non le era sembrato particolarmente violento, era un ex detenuto. Chissà di cos’era capace?
«Impossibile!» gridò lui. «Non è vero!»
Torreggiò su di lei ed Evelyn vide la sua enorme ombra proiettata sul muro.
Continuò a piangere e a tremare, stringendo ancora di più il coltello. Non credeva di riuscire a parlare. Ma niente di quello che avrebbe potuto dire lo avrebbe convinto più di quello che stava vedendo.
«Ehi, maledizione! Cosa sta succedendo? Mi senti?» Si piegò per afferrarle la spalla, cercando di farla voltare perché lo guardasse.
In quel momento fu tentata di pregarlo perché la lasciasse andare. Ma non poteva essere sicura che avrebbe dimostrato un briciolo di compassione. E non poteva rischiare di perdere l’unica possibilità che aveva di scappare. Forse Lyman stava già arrivando, ed Evelyn non avrebbe permesso che lei o sua figlia diventassero una delle sue vittime.
«Il bambino sta nascendo adesso?» le chiese.
La parola “adesso” la spinse ad agire. Si voltò verso di lui più veloce che poté, intravide il suo volto solo per un attimo – il viso di uno sconosciuto con una cicatrice – poi sollevò la mano e gli conficcò il coltello nel collo, proprio nell’incavo sotto all’orecchio.
Non l’aveva colpito alla mandibola. Grazie a Dio!
Lui sgranò gli occhi, tanto che sembrarono schizzargli dalle orbite. Mosse la bocca, ma ne uscì solo un gemito stridulo.
Cercò di afferrare l’arma, ma Evelyn non la lasciò nel suo collo. La estrasse e lo colpì ancora e ancora.
Non riusciva a fermarsi.
Perché non crollava a terra?
Evelyn gridò a ogni coltellata, un grido disperato e animalesco, e la forza che le mancava tornò a farsi sentire.
Alla fine lui riuscì a superare lo shock e il dolore e prese il coltello, così Evelyn lo lasciò andare e lo superò di corsa. La porta era aperta, un invito alla libertà, e lei riusciva solo a pensare ad Amarok che era a Hilltop, che la cercava inutilmente, spaventato a morte per lei e la loro bambina.
Sto arrivando.
Aveva raggiunto la porta aperta.
Sarebbe sopravvissuta.
Mancava così poco.
Cercò di richiuderla alle spalle ma qualcosa glielo impedì. Rimbalzò all’indietro, ma non osò attardarsi per capire il perché.
L’edificio fuori dalla cella frigorifera puzzava di uova marce e le venne la nausea. Non era solo l’odore… aveva appena accoltellato un uomo!
Non avrebbe mai dimenticato la sensazione di quella molla affilata che gli si conficcava nella carne o del sangue caldo che le schizzava in faccia.
Ma niente di tutto questo aveva importanza, si disse, mentre cercava disperata una via di fuga. Quel tizio, chiunque fosse, non avrebbe mai dovuto rapirla. Quello che aveva dovuto fargli era colpa sua.
Credeva di riuscire a scappare finché non raggiunse il salotto improvvisato, che si trovava in fondo a un corto corridoio. Ma la prima porta verso la quale corse era sbarrata dall’esterno.
Che posto era? Una fabbrica?
L’odore stantio nell’aria non era un odore industriale.
Forse un’attività dismessa?
Difficile a dirsi, e la penombra non era d’aiuto.
«Merda! Merda, merda, merda!» Doveva uscire.
Un rumore improvviso la fece voltare. Il tizio si stava avvicinando con passo instabile, con il sangue che gli fuoriusciva dal collo e il coltello in una mano. Il bagliore deciso nei suoi occhi iniettati di sangue le fece capire che aveva intenzione di usarlo.
Evelyn cercò di correre, di schivarlo, ma inutilmente. Aveva le gambe così malferme che andò a sbattere contro lo spigolo di un tavolo. Ci si aggrappò per non cadere ma prima che potesse superare il divano sentì la sua mano che la afferrava per i capelli e la trascinava a terra.
Emmett respirava a fatica e aveva la maglietta intrisa di sangue quando alla fine rinchiuse di nuovo Evelyn Talbot nella cella frigorifera. Il coltello che aveva lasciato cadere nella sala del personale, quando l’aveva presa, era solo una spessa molla. Pensò che non poteva avergli causato troppi danni.
Pochi secondi dopo, però, cambiò idea. Non riusciva a riprendersi, non aveva idea di quanto sangue avesse perso. Doveva andare al pronto soccorso.
Prese il cellulare dalla tasca, deciso a chiedere aiuto. Ma non riusciva a pensare chiaramente, quindi si rese conto con un po’ di ritardo che non poteva chiamare un’ambulanza, non poteva far andare lì nessuno, a meno che non volesse farsi medicare in ospedale e farsi accompagnare direttamente in galera.
Avrebbe dovuto andare in macchina fino alla clinica medica più vicina e mentire, dicendo che qualcuno lo aveva aggredito per prendergli il portafoglio. Probabilmente avrebbero comunque chiamato la polizia. Quel tipo di ferite andavano denunciate. Ma per quel che ne sapeva la polizia lui non aveva fatto niente di male. Gli avrebbe rifilato la stessa storia, condita da una descrizione fittizia dell’aggressore. Senza prove a contraddire la sua storia sarebbero andati a cercare un delinquente immaginario e avrebbero lasciato in pace lui.
Sarebbe dovuta andare così, sempre che non avessero fatto ricerche sulla targa del furgone che aveva rubato.
«Lasciami andare!» protestava Evelyn, completamente fuori di testa. Ne percepiva la disperazione nella voce stridula.
Ma non provava alcuna pietà. Non dopo quello che gli aveva fatto. Aveva avuto così tanta paura che entrasse in travaglio, che il bambino morisse, e aveva usato quella paura contro di lui.
Quella puttana era sveglia. Era stato attento, aveva pensato a tutto, eppure era caduto dritto nella sua trappola.
Avrebbe dovuto dirle di chiudere la bocca. L’aveva fatto arrabbiare così tanto che avrebbe potuto ucciderla. Ma Emmett non aveva la forza per gridare, gli mancava l’aria. Respirava così affannosamente che gli girava la testa.
Si sorresse al muro e cercò di arrivare all’entrata del magazzino vuoto, ma le gambe non volevano sentire ragioni, non sopportavano il suo peso. E mentre si muoveva il senso di vertigine aumentava, fino a fargli temere di perdere i sensi.
«Cosa… cazzo… sta succedendo?» ansimò.
Cercò di fare un altro passo, sforzandosi di non perdere conoscenza. Lyman Bishop stava arrivando. Tutto quello che doveva fare era resistere finché non l’avesse pagato. Poi avrebbe potuto andare via di lì, farla finita con quella porcheria. Lyman Bishop poteva fare quello che voleva con quella puttana gravida. Era maligna come gli psicopatici che studiava.
Si portò una mano alla gola nel tentativo di tamponare il flusso di sangue e riuscì a voltarsi abbastanza da controllare di aver chiuso per bene la cella frigorifera.
Sì, lo aveva fatto. Per fortuna. Vedeva il catenaccio. Non voleva doversi preoccupare che Evelyn Talbot scappasse mentre si trovava in quel casino.
Il fatto che non sarebbe andata da nessuna parte avrebbe dovuto sollevarlo almeno in parte, ma si sentiva talmente uno straccio che credeva niente potesse aiutarlo.
Concentrati! Doveva concentrarsi se voleva raggiungere il furgone. E l’avrebbe raggiunto. Avrebbe avuto i suoi soldi, nonostante quello che era appena successo. Sua sorella aveva bisogno della parte di soldi di Terry per sganciarsi da lui. In parte era quello il motivo per cui Emmett aveva deciso di andare fino in fondo. Terry non aveva idea che Bridget avesse in mente di lasciarlo, ovviamente, ma era quello che aveva detto a lui nell’ultimo messaggio. Quindi cos’altro poteva fare? Bridget era infelice, e lui sarebbe sempre stato dalla sua parte. Il sangue era un richiamo troppo forte, superava ogni amicizia, anche quelle fatte in carcere.
Andò a sbattere contro le pareti del corridoio e raggiunse la parte che un tempo era servita da bottega. Era tentato di sedersi finché la stanza non avesse smesso di vorticare e fosse riuscito a riprendere fiato, ma sentiva di dover continuare a muoversi e andare da un dottore finché era ancora in grado di guidare.
Scavalcò le vecchie casse per le uova e i rottami che aveva scansato tutta la settimana, fino a raggiungere il portone.
Quando lo spalancò il vento lo investì in pieno volto. Intravedeva un pezzo del furgone azzurro, nella tettoia sotto alle piante rampicanti incolte, nascosto dalla strada.
Ma quando cercò di raggiungerlo gli cedettero le ginocchia e cadde con un tonfo doloroso.
Sorpreso dall’incapacità di controllare il proprio corpo fissò l’edificio che lo sovrastava.
Si rese conto che non ce l’avrebbe fatta. Dopo tutto quello che aveva passato – il tempo trascorso in prigione, le lotte con i peggiori nemici – sarebbe morto per colpa di una donna incinta?
No. Stentava a crederci. Ma le orecchie cominciarono a ronzargli e gli si appannò la vista, finché la luce tutto intorno non si raccolse in un minuscolo puntino luminoso.
Che si spense all’improvviso.
La delusione era così forte che Evelyn non riusciva a smettere di singhiozzare. Sentiva il petto oppresso mentre picchiava contro la porta. Si stava comportando come una bambina, ma non le importava. Era arrivata così vicina alla fuga e a salvare la sua vita e quella della sua bambina!
Adesso tutto il coraggio che aveva sprecato, la speranza che l’aveva guidata, il doloroso sforzo per creare quel coltello letale, le ore di terrorizzante attesa…
Aveva fatto tutto per niente.
Almeno non l’aveva uccisa. Quel pensiero alla fine attenuò la disperazione. Avrebbe potuto fare ben di peggio che gettarla di nuovo nella cella e serrare la porta, ma non riusciva a vederla come una gentilezza visto che Lyman Bishop stava per arrivare. Avrebbe preferito essere uccisa subito piuttosto che diventare la prossima schiava zombie di Bishop.
«Fammi uscire!» gridò di nuovo, ma aveva urlato così a lungo che la voce era troppo flebile e roca perché si sentisse.
Priva delle energie necessarie per continuare si accasciò a terra.
Cosa avrebbe fatto?
Si pulì il sangue dal viso mentre guardava la chiazza rossa sulla parete. La farina d’avena che le aveva portato il suo carceriere era sparsa a terra. La banana era finita sotto alla branda. E il vassoio era rovesciato. A quanto pare era quello che l’aveva intralciata quando aveva cercato di chiudere la porta.
Si riduceva tutto a un vassoio di cibo…
E adesso non aveva niente da bere. Aveva usato l’ultima acqua rimasta per ingannarlo e, anche se quel tipo aveva cercato di portargliene altra, era finita fuori dalla cella.
«Che Dio mi aiuti» mormorò. Troppo debole e scoraggiata per alzarsi si trascinò fino al letto e ci salì. Nonostante il sangue e l’acqua sparsi ovunque quel fine materasso era il posto più morbido in cui poter stare, e aveva bisogno del minimo conforto che la branda e la coperta potevano offrirle.
Le si presentarono alla mente le foto del dossier di Bishop che aveva esaminato quand’era arrivato a Hanover House. La fecero sentire male. Come quello che Bishop aveva fatto alla propria sorella.
Evelyn chiuse gli occhi nel tentativo di scacciare quelle immagini.
Non riusciva ad affrontare il futuro, a contemplare quello che la aspettava.