12
Hilltop, Alaska – giovedì, ore 15.30
Amarok non se la sentiva di chiamare la famiglia Talbot. Era seduto alla sua scrivania, gli occhi così secchi che riusciva a malapena a muoverli, e sperava che Phil gli avrebbe dato la notizia che i ricercatori avevano trovato qualcosa. Si aggrappò con tutto se stesso alla speranza che Evelyn fosse ancora viva, e voleva aspettare per chiamare i Talbot finché non avesse avuto più informazioni. I volontari si erano appena messi in moto. Era stato con loro per assicurarsi che le ricerche cominciassero il prima possibile, ma istruirli aveva comunque richiesto più tempo di quanto avesse pensato.
Non poteva aspettare oltre per avvertire i familiari di Evelyn. La sua scomparsa non era ancora stata annunciata al telegiornale, ma era solo questione di tempo. Penny lo aveva chiamato per dirgli che un cronista di Anchorgae, Ted Bell, aveva cercato di raggiungere Evelyn per tutta la mattina e stava diventando sospettoso, perché la segretaria continuava a tergiversare. Senza dubbio aveva sentito il nome di Evelyn alla radio della polizia la sera prima, quando l’agente McGowen e gli altri erano stati radunati allo strip bar, così aveva cominciato a fare delle ricerche.
Amarok sospirò, prese il telefono e guardò Makita all’altro lato della stanza, steso sul suo grosso cuscino. Ai Talbot non piaceva che la figlia vivesse così lontano. La rivolevano a Boston, ed era per questo che Amarok non era poi tanto sicuro che fossero felici che Evelyn stesse per sposarlo. Sapere come la pensavano rendeva ancora più difficile dare loro la notizia. Non avrebbero più creduto che fosse in grado di prendersi cura di lei.
Posò la testa su un pugno mentre ascoltava il telefono che cominciava a squillare. Perché non aveva fatto di più per proteggerla quando ne aveva avuto la possibilità? Come aveva potuto lasciare che accadesse?
Sapeva che non erano domande del tutto logiche. Non aveva idea che qualcosa sarebbe potuto andare storto, non c’erano state avvisaglie, ma non poteva fare a meno di chiedersi perché non fosse stato comunque più prudente. Si era rilassato troppo da quando avevano preso Jasper.
«Pronto?» La madre di Evelyn sembrava emozionata ma anche leggermente terrorizzata.
Amarok si schiarì la voce, preparandosi per il duro colpo che le avrebbe dato quella conversazione. «Lara, sono Amarok.»
«Oh, sono felice che hai chiamato!» gli disse. «Evelyn è lì con te?»
Lui fece una smorfia. «No. Ho paura che…»
«Oh cavolo» sbottò lei, e ovviamente aveva sentito solo quel no. «L’ho appena cercata alla prigione ma non sono riuscita a trovarla, e a casa non risponde. Dov’è?»
Amarok esitò. «Lara…»
A quanto sembrava aveva posto la domanda senza rifletterci, perché non gli diede il tempo di finire e continuò: «Ho bisogno di parlarle. Brianne sta per partorire. Sto andando in ospedale proprio adesso.»
Amarok era sveglio da così tanto tempo che gli sembrava di trovarsi tre metri sott’acqua e tutto gli arrivava distorto, attutito. Per un attimo si chiese addirittura se stesse avendo delle allucinazioni. Non era mai stato sveglio per così tanti giorni di fila. Gli confondeva le percezioni, i pensieri e, soprattutto, le emozioni.
Allontanò il ricevitore per poterlo guardare ed essere sicuro che fosse reale.
«Pronto?» disse Lara, impaziente. «Hai sentito quello che ho detto?»
Amarok riaccostò il telefono all’orecchio. «Sì.»
«Probabilmente mi chiami per il matrimonio, e non vedo l’ora di sapere tutto. Sapevo che dovevate incontrarvi con qualcuno del Moosehead per il prezzo del menù. Evelyn insiste perché paghiate voi, che è troppo grande per farsi pagare le cose. Ma è una sciocchezza. È la nostra bambina, e le faremo avere un matrimonio come si deve. Non importa anche se facciamo due cerimonie. Le paghiamo noi. Siamo stati noi a chiedervi una seconda festa a Boston, e dovete prendervi ferie dal lavoro e fare il viaggio.»
Qualcuno parlò in sottofondo. Amarok suppose che fosse Grant, il padre di Evelyn.
Lei coprì l’apparecchio. «Lo so, lo so! Arrivo subito.» Tornò in linea. «Grant sta accendendo la macchina. Devo andare se non voglio perdermi la nascita del mio primo nipotino. Puoi dire tu a Evelyn di Brianne? Se posso la chiamo dall’ospedale e le racconto tutto. Mi porto il cellulare, ma quando sono andata in quello stesso ospedale a trovare la mia amica che si è operata il ginocchio non prendeva. Non capisco proprio perché. Là dentro ci sono troppi macchinari o robe del genere. Grant non mi crede, ma io sono convinta che è così. Comunque volevo dire a Evelyn del bambino prima di partire, giusto in caso non riuscissi a chiamarla dall’ospedale.»
Amarok era senza parole. Il bambino di Brianne stava nascendo adesso? Non poteva dire a Lara che Evelyn era stata rapita per la seconda volta in vita sua. Dopo quello che avevano passato i Talbot era il loro peggior incubo. Nell’attimo in cui avesse detto una parola avrebbero ripensato a quello che avevano sopportato più di vent’anni prima, al modo in cui Evelyn aveva sofferto, e avrebbe rovinato quel momento, che doveva essere speciale e apparteneva esclusivamente a Brianne.
Comunque Lara non gli diede il tempo di parlare. Lo salutò in fretta e riagganciò.
Amarok teneva ancora in mano il telefono, chiedendosi se avesse dovuto dirglielo, quando la porta si spalancò e la sorella di Shorty, Molly, entrò di gran carriera, con in mano un sacchetto bianco che profumava di cibo. «Ho visto il tuo furgone qua fuori.»
«Stavo per andare via.» Posò il telefono e stava per fare il giro della scrivania, ma lei lo fermò.
«Oh no, invece. Non ti libererai di me così facilmente. Lo so che stai passando un momentaccio, Benjamin Murphy, e mi dispiace per te. Non sai quanto. Ma non farai del bene a Evelyn sciupandoti così. Ha bisogno che tu rimanga lucido.» Si picchiettò la testa con un dito. «Che ragioni. Che lavori con più profitto. E per farlo devi mangiare.»
Amarok cercò di cacciarla. A casa lo aspettavano ancora tutti quegli scatoloni. «Mangerò qualcosa a casa» le disse, ma Molly non si spostava dalla porta.
Sollevò il sacchetto. «Tu mangi adesso, quindi puoi anche sederti. Ti ho portato un po’ del mio chili fatto in casa. So che ti piace. Lo ordini sempre. Quindi non fare storie.»
A dire la verità Amarok era più stanco che affamato. Aveva ignorato le proteste dello stomaco così a lungo che non sentiva più i morsi della fame.
Ma pensò che non avrebbe avuto la possibilità di un altro pasto tanto veloce, così prese il sacchetto, tornò alla scrivania e lo divorò in pochi minuti. «Grazie.» Una volta finito gettò la ciotola vuota e il cucchiaio di plastica nel cestino e cercò di nuovo di andarsene.
«Non ancora» gli disse. «Adesso dormi per qualche ora. E io me ne starò seduta alla scrivania a guardare quel telefono come un falco, pronta ad afferrarlo al primo squillo. Se qualcuno che ha a che fare con l’indagine prova a chiamare ti sveglio. Hai la mia parola.»
«Molly…»
«Non provarci» rispose. «Mi sono presa cura di quel cocciuto di mio fratello abbastanza da sapere come gestire un uomo testardo. Ti fidi sul fatto che rimarrò all’erta e che ti chiamerò, vero?»
«Certo, ma…»
«Uh uh uh! Allora non si discute.» Indicò il divano. «Stenditi lì.»
«Molly, davvero. Apprezzo quello che stai cercando di fare. Ma non posso riposare adesso. Schiaccerò un pisolino dopo che avrò rivisto tutti i vecchi documenti di Evelyn, okay? Non ci vorrà molto.»
«Ti ci vorrà molto più di quanto credi, se sei in queste condizioni.»
«Non sono messo male come sembro.»
«Be’, mi fa piacere, perché sembri uno straccio.»
«Dormirò un po’ più tardi, oggi pomeriggio.» Cercò di superarla, ma lei lo afferrò.
«No» insistette. «Non me la bevo. O ti stendi subito e riposi oppure chiamo Shorty e gli faccio portare qualche uomo per legarti come un salame.»
Amarok la guardò stupito. «Non puoi essere seria.»
Lei inarcò minacciosa le sopracciglia che sembravano disegnate con una matita nera. «Eccome se sono seria. Non vorrai mica far perdere del tempo prezioso a quelli che stanno cercando Evelyn, vero?»
No. Non voleva farlo, soprattutto visto che Makita sembrava essere d’accordo con Molly. Il cane si limitò a sollevare la testa durante il loro diverbio e poi la abbassò di nuovo.
Amarok si rese conto che avrebbe potuto continuare a litigare, perdere tempo e risorse facendo lo stupido cocciuto, oppure poteva riposare un po’ mentre i suoi amici facevano del loro meglio per dare una mano.
Diede un’occhiata al divano. Odiava soccombere alla stanchezza, preferiva continuare a combattere. Ma temeva di lasciarsi sfuggire qualcosa di importante se non riposava almeno il tempo necessario per sgombrare il cervello dalla nebbia in cui era avvolto. «Okay» disse, cedendo.
«Questo è quello che voglio sentire. Ecco qua» gli disse, e gli diede una lieve spinta nella giusta direzione, come una madre con il figlio assonnato.
Amarok era alto un metro e novanta, non proprio piccolino, quindi avrebbe riso per l’ironia della cosa se non fosse stato troppo scosso.
Si concesse di dormire un’ora per dare al corpo e alla mente una pausa veloce, si stese sul divano e si addormentò così in fretta che non si rese nemmeno conto di quando Molly lo coprì con una coperta, finché il telefono squillò e sentì che lei gli stava scuotendo la spalla.
Hilltop, Alaska – giovedì, ore 16.30
«Che c’è che non va?»
Quando Jasper sentì quella domanda, sbirciò attraverso le sbarre della sua cella e vide l’uomo in quella di fronte alla sua che lo guardava attentamente. Roland Holmes, un nuovo detenuto che era arrivato solo due mesi prima e che era come una mantide religiosa. Si mimetizzava, aspettava la preda e poi poteva essere letale.
Jasper era cauto con lui. A differenza dei molti spacconi che aveva conosciuto fin da quando era entrato a Hanover House Roland non parlava mai molto di sé o dei crimini che aveva commesso, non parlava mai dell’omicidio che lo aveva portato all’incarcerazione.
Ma Jasper aveva sentito quello che gli altri avevano da dire sul suo conto. Aveva ucciso a randellate il suo vecchio quando aveva solo quindici anni. Il giudice non c’era andato giù pesante con lui perché suo padre era stato un coglione violento, ma Roland non si era fermato lì. Aveva ucciso tre carcerati mentre era in prigione perché era stato vittima di un tentato stupro di gruppo, ma forse era solo un pettegolezzo che gonfiava la storia; e quando era uscito, a trentaquattro anni, aveva ucciso il nuovo marito di sua madre perché non gli permetteva di vederla per paura che fosse troppo “pericoloso”.
I detenuti lo rispettavano. E a dire il vero anche Jasper. Ma cercava di non darlo a vedere. Roland odiava gli uomini che stupravano e torturavano le donne, e se veniva a sapere che avevi fatto del male a un bambino eri spacciato. Una volta Jasper gli aveva sentito dire che dare la caccia a una preda così facile e innocente era come uccidere un gatto domestico anziché avere le palle di darsi da fare con qualcosa di più difficile e metteva chiunque commettesse un simile errore nella stessa categoria di suo padre.
Ma Roland non capiva. Jasper non dava la caccia alle donne perché aveva paura degli uomini. Non aveva alcun interesse sessuale negli uomini, non provava piacere al pensiero di torturarli o ucciderli… a meno che non gli restassero solo loro.
Comunque anche Evelyn sembrava rispettare Roland, probabilmente perché l’aveva contattata dalla prigione in cui era rinchiuso e le aveva chiesto di venire a Hanover House. Le aveva detto che voleva sapere perché faceva quello che faceva, perché non aveva paura delle conseguenze, come avrebbe dovuto, e perché non riusciva a gestire meglio gli impulsi.
«Niente.» Jasper voleva dire a Roland di pensare agli affari suoi, ma nessuno si rivolgeva a lui a quel modo. Se lo avesse fatto, Roland avrebbe semplicemente aspettato il momento giusto, e poi avrebbe usato un coltello. Quello era esattamente il tipo di scusa che stava cercando per un uomo che aveva già catalogato come uno che aveva “infranto le regole”.
«Cammini su e giù come un gatto rabbioso.»
Perché pensava sempre ai gatti? «E allora? Sono ansioso. Tu non ti sei mai sentito in ansia?»
«Non senza motivo. Non c’entri niente con il rapimento della dottoressa Talbot, vero?»
Dire di sì sarebbe stata una condanna a morte e Jasper lo sapeva. «No.»
«Sicuro? Perché è incinta. Lo sai.»
Certo che lo sapeva. Come poteva non saperlo? Senza dubbio a Evelyn piaceva l’idea che Jasper fosse spettatore della sua gravidanza, perché simboleggiava la sua felicità e tutto quello che aveva cercato di portarle via. «Lo so eccome.»
«Bene, perché non mi piacerebbe ci fossero dei problemi tra noi due.»
Jasper sentì l’odio attraversarlo, come un serpente velenoso alla bocca dello stomaco. Sarebbe arrivato il momento in cui lui e Roland avrebbero discusso di brutto. Lo sentiva fin nelle ossa. Aveva cercato di stare tranquillo, ma se Roland avesse voluto comunque attaccare briga, Jasper sarebbe stato felice di accettare la sfida. «Ti ho già detto che non c’entro niente. Ecco il punto. Se io non c’entro, allora chi è stato?»
Roland si tolse qualcosa dai denti. «Mi sa che dovremo aspettare e vedere se il sergente Murphy lo scopre.»
«Credo anch’io» disse Jasper, ma Evelyn era scomparsa da due giorni e mezzo. Quali erano le possibilità che fosse viva a questo punto?
Il pensiero che venisse uccisa da qualcun altro gli dava un enorme fastidio. Se era morta l’aveva avuta vinta per sempre. Non sarebbe mai riuscito a pareggiare i conti.
Quindi non aveva nessuna intenzione di starsene con le mani in mano e aspettare Amarok. Aveva già cominciato a fare qualche indagine per conto suo. Sperava solo che i meccanismi che aveva messo in moto cominciassero a muoversi più velocemente.
Hilltop, Alaska – giovedì, ore 17.30
«Chi sei?» Amarok era stato fuori combattimento per tre ore, più di quanto avesse voluto, ma non appena aveva chiuso gli occhi non aveva sentito più nulla, non aveva nemmeno sognato. Aveva dormito così profondamente che avrebbe voluto continuare a galleggiare nell’oblio per una settimana o anche di più. Eppure non si sentiva riposato. Era così intontito che riusciva a malapena a comprendere quello che la voce femminile all’altro capo del telefono gli stava dicendo.
«Mi chiamo Chastity Sturdevant. Vivo a Cedar Rapids, Iowa.»
Amarok sentiva l’accento del Midwest. «E perché mi sta chiamando?»
«Perché me l’ha chiesto Jasper Moore.»
«Il serial killer e lo psicopatico, quel Jasper Moore? Quello che è rinchiuso a Hanover House?»
«Non è così male come lo dipinge» gli disse lei.
«Allora è proprio un’illusa.» Amarok era troppo stanco per fare il diplomatico.
«È quello che pensa lei. Comunque io e Jasper ci scriviamo da un po’. Siamo… ehm… amici.»
L’esitazione nel descrivere il loro rapporto suggeriva che c’era di più di una semplice amicizia. Quello che non capiva era che almeno un’altra dozzina di donne probabilmente pensavano che Jasper si stesse innamorando di loro. «Non capisco perché le ha dato il mio numero.»
«Non me l’ha dato. Ho dovuto cercarlo. Ma nella mail che mi ha inviato mi ha chiesto di venire fino a qui e chiamarla se non fossi riuscita a trovare quel bastardo Fabbricante di Zombi.»
«Chi?» chiese Amarok, balzando in piedi.
«Lyman Bishop!»
Amarok sentì rizzarsi i capelli alla base del collo. «È in Minnesota?»
«Già. Ci ho messo quattro ore per arrivare, e tutto per niente. Sono appena uscita dal Beacon Point Mental Hospital. Lui non è qui.»
«Non è vero» controbatté Amarok. «Ho controllato io stesso.»
«Allora farebbe meglio a ricontrollare perché ho appena cercato di fargli visita e mi hanno detto che non era più un paziente.»
«Perché non possono darle nessuna informazione. Non possono nemmeno dire che è un paziente.»
«Non capisce. Mi sono intrufolata dietro al bancone di sicurezza alla porta e sono salita in ascensore. Ho chiesto a una delle infermiere dov’era mio “padre” – ho detto che doveva essere al terzo piano, ma non riuscivo a trovarlo – e lei ha controllato nel computer. Ha detto che non compariva più come paziente.»
«Dov’è andato?»
«Come faccio a saperlo? L’infermiera non ne aveva idea.»
«Non può essere vero» insistette Amarok, ma il dubbio che gli aveva insinuato gli stava facendo rivoltare lo stomaco.
«Se lo dice lei. Non lo conosco neanche quel tipo, quindi non m’importa. Stavo solo aiutando il mio ragazzo. Comunque devo andare. Mi aspettano ore di macchina.»
Amarok sentì uno schiocco e pensò che la ragazza stesse masticando una gomma. «Quanti anni ha?» le chiese prima che potesse riagganciare.
«Diciotto.»
Lo disse con un tono di sfida, come se stesse anche dicendo “Sono grande abbastanza per fare quel cavolo che voglio”.
«Ragazzina, se sei intelligente, stattene alla larga da Jasper e da quelli come lui» disse Amarok. «Hai sentito cos’ha fatto alla sua ragazza del liceo, vero?»
«Lui la odia, Evelyn» disse la ragazza con una certa noncuranza. «A me non farebbe mai una cosa del genere.»
«Non essere stupida. Lo farebbe, se ne avesse la possibilità» le disse, e riagganciò.
«Che succede?» Molly era ancora lì, e lo guardava da vicino. «Qualcosa che potrebbe aiutare Evelyn?»
«Dipende.» Se Lyman Bishop aveva a che fare con il rapimento di Evelyn forse avrebbe potuto rintracciarlo in qualche modo. Lyman non aveva familiari con cui parlare e probabilmente aveva pochissimi amici, ma tutti hanno bisogno di soldi. Forse sarebbe riuscito a rintracciarlo attraverso le transazioni bancarie o della carta di credito.
Cercò il numero di Beacon Point e telefonò. Impiegò venti minuti a discutere con diverse infermiere e supervisori, ma alla fine venne a sapere quello che “Chastity” aveva cercato di dirgli: Lyman Bishop non si trovava più a Beacon Point, e nessuno sapeva dove fosse andato.
Anchorage, Alaska – giovedì, ore 23.00
Evelyn aveva peggiorato la propria situazione!
Adesso sarebbe morta in quella cella frigorifera, in modo lento e prolungato. Erano passate ore e ore da quando aveva accoltellato l’uomo muscoloso con la cicatrice sull’occhio, e non era arrivato nessuno. Non aveva acqua né cibo, non aveva sentito alcun rumore.
Lo aveva ucciso? O se n’era andato senza dire a nessuno dove poterla trovare?
Se era nei paraggi si sarebbe aspettata qualche sorta di vendetta, a meno che non si stesse vendicando abbandonandola e lasciandola a morire di sete e di fame.
Quando non riuscì più a sopportare la vista di quell’ambiente, raccolse le energie per alzarsi e intingere la giacca nell’acqua del water per ripulire se stessa e le pareti. Ritrovarsi bloccata in una situazione così terribile era già abbastanza difficile; non era necessario vedere quelle gocce rosse ogni volta che apriva gli occhi, né la sensazione del sangue che si rapprendeva sul viso e sulle braccia.
Dopo aver finito, cominciò a sentirsi leggermente meglio, nonostante i morsi della fame, e usò la ciotola di plastica dove prima c’era la farina d’avena per raccogliere altra acqua dal water per risciacquare il pavimento. Spinse con il piede l’amalgama di sangue, farina d’avena e acqua fino allo scarico. Poi sfregò il sangue dalla coperta, risciacquò la giacca e la usò per pulire quello che poteva del materasso.
Mentre aspettava che il tutto si asciugasse, si sedette sul pavimento accanto alla porta e pensò a sua madre, a suo padre e a sua sorella. Sua madre, che aveva sofferto di depressione per anni, era migliorata molto da quando Jasper era stato arrestato. Tutta la sua famiglia aveva voltato pagina e aveva cominciato a riprendersi davvero, per la prima volta da quando Jasper l’aveva aggredita, più di vent’anni prima. Odiava immaginare che dovessero venire a sapere di un’altra sua scomparsa, odiava quello che la notizia avrebbe provocato in loro.
Sua sorella era più avanti di lei nella gravidanza, poteva partorire da un giorno all’altro. Evelyn aveva promesso a Brianne che sarebbe andata a casa quando avrebbe avuto il bambino e si sarebbe fermata per un paio di settimane, quindi si aspettavano tutti di vederla presto.
La sua famiglia era in attesa di molte cose. Nuovi bambini, i primi nipoti dei suoi genitori. Un matrimonio. Anche se il ragazzo di Brianne l’aveva lasciata per un’altra, prima che entrambi sapessero del bambino e lei era stata devastata da quel rifiuto, con il tempo era riuscita a riprendersi. Sembrava andare tutto bene, finché Evelyn non era stata rapita. Adesso la sua famiglia poteva venire a sapere del suo rapimento o, peggio ancora, della sua morte – che significava anche la morte della sua bambina – nella stessa settimana o mese in cui avrebbero accolto al mondo il loro primo nipotino.
Desiderava ci fosse un modo per lasciare loro un messaggio, per dirgli che voleva che fossero felici, al di là di quello che sarebbe successo. Si sentiva male al pensiero che le sue scelte avessero reso le cose così difficili per loro, soprattutto perché non capiva come avrebbe potuto gestire diversamente la sua vita. Se non avesse scelto psichiatria e non si fosse concentrata sugli psicopatici, non avrebbe mai conosciuto Amarok. Ed era stato lui, oltre alla sua stessa determinazione, ad averla salvata da Jasper. Visto che alla fine aveva vinto quella battaglia, forse si era guadagnata un po’ di tempo in più, che altrimenti non avrebbe avuto.
Sperava che sarebbero riusciti a concepire la sua vita e la sua morte a quel modo.
Asciugò la lacrima che stava per colarle dal mento e appoggiò la testa al muro. Non avrebbe mai creduto di voler vedere Lyman Bishop, ma era molto probabile che fosse l’unica persona al mondo a sapere dove si trovava.
E se non fosse arrivato presto, lei non avrebbe avuto alcuna possibilità.