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Anchorage, Alaska – mercoledì, ore 23.30

Evelyn sentiva del movimento, un dondolio lieve e costante. Sentiva anche il continuo ronzio di pneumatici. Era in un veicolo di qualche tipo, stesa su un fianco, un tappetino scadente che le graffiava il viso. Vedeva solo buio, e non riusciva a muoversi. E la cosa peggiore era che non riusciva a pensare con lucidità.

Cos’era successo? Com’era finita lì? E dove stava andando?

Mentre il suo cervello stordito si sforzava di trovare delle risposte le venne alla mente un’immagine: Lyman Bishop che apriva la cella frigorifera ed entrava.

Se l’era sognato?

Era possibile, ma dato che non si trovava più nella cella non pensava fosse così. Ricordava il desiderio disperato di alzarsi, di mandarlo via, anche di iniziare una colluttazione, se necessario. La porta si era spalancata; finalmente aveva avuto la possibilità di scappare. Ma non era riuscita ad approfittare dell’opportunità, non era riuscita nemmeno a sollevare la testa. Allora come adesso sentiva il corpo troppo pesante.

Lyman le si era accucciato accanto, le aveva sollevato le palpebre per controllarle le pupille con una torcia a stilo, come avrebbe fatto un dottore, mentre Evelyn si imponeva di reagire, di colpirlo, di sferrargli un calcio, di fare qualsiasi cosa pur di metterlo fuori combattimento. Adesso! È la tua possibilità! Le aveva urlato il cervello. Ma non era servito a niente. Quando l’aveva fatta girare di lato per legarle le mani non aveva opposto resistenza, come un sacco di patate.

Aveva ancora le mani legate, o almeno così credeva. Aveva perso la sensibilità agli arti.

La luce proveniente da una macchina o da un furgone riempì lo spazio attorno a lei come una marea che avanzava, per poi ritirarsi mentre il rumore dell’altro motore si allontanava.

Poi capì, e quella consapevolezza fu un duro colpo.

Era di nuovo nel furgone che Emmett aveva usato per rapirla. Riconobbe il nome inciso sulla vernice della parete: Billy, 2012. Non aveva idea di chi fosse Billy o perché quella data fosse stata importante per lui, ma concentrarsi su Billy, facendosi domande sul suo conto, la aiutò a trattenersi dall’urlare quando la sua mente cominciò a produrre altre immagini, più inquietanti.

Edna. Bishop era così furioso quando aveva portato loro la cena che le aveva detto avrebbe ucciso quella puttana di sua figlia, cosa che l’aveva agitata così tanto che aveva mangiato solo qualche boccone.

Alla fine si era addormentata poco prima che Bishop entrasse, o almeno era quello che Evelyn pensava fosse successo. Non ricordava niente dopo aver finito il pasto, non finché aveva sentito la porta aprirsi e si era svegliata abbastanza da vedere Lyman che avanzava verso di lei.

A Bishop non era sembrato importare se Edna fosse sveglia o meno, finché l’anziana non gli si era scagliata contro, gridando come un ossesso. Edna avrebbe potuto scappare mentre lui era impegnato a legare le mani di Evelyn. Quel pensiero aveva colpito Evelyn in quel momento come adesso, e la fece sentire ancora peggio. Edna aveva cercato di opporsi per il bene di Evelyn e della sua bambina. Non aveva pensato solo a se stessa e a sua figlia, altrimenti sarebbe solo corsa via.

Evelyn sentì le lacrime agli occhi mentre ricordava la donna che veniva sbattuta contro il muro. Il modo in cui era caduta…

Cercò di scacciare quel ricordo, deglutendo a fatica. Aveva pregato che Edna si riprendesse o mostrasse qualche segno di vita, ma aveva perso la speranza quando Bishop le si era avvicinato e aveva cominciato a strozzarla. Era furibondo, sputava e imprecava e usava il suo peso per non lasciare alla donna la possibilità di alzarsi o andarsene.

Solo quando Evelyn aveva gridato o aveva emesso una sorta di grugnito, dato che non era in grado di parlare in modo coerente, era riuscita a riportare l’attenzione di Bishop su di sé. E lui si era placato, era diventato di nuovo determinato ed efficiente, ed era tornato da lei per finire di legarle le mani dietro la schiena.

A un certo punto doveva averla anche imbavagliata. Anche se non ricordava quella parte sentiva il tessuto che le premeva ai lati della bocca. Per evitare di sopportare quello che stava accadendo, si era lasciata andare al vuoto oscuro ai margini della coscienza, per tutto il tempo.

Desiderava poter fare lo stesso anche adesso: arrendersi e dormire. Ma doveva combattere per dominare la droga che doveva averle somministrato, altrimenti il passo successivo sarebbe stato ben peggiore di quello che era capitato a Edna.

“Preferirei essere io a morire”, aveva detto l’anziana quando avevano parlato del futuro che avrebbero dovuto affrontare. In quel momento Evelyn non l’aveva ammesso, ma aveva provato la stessa cosa. Avrebbe preferito morire che diventare la prossima “Beth” di Lyman.

Sentì della musica. Canzoni di musical. A Bishop sembravano piacere. Piacevano anche a lei. Erano così familiari che la calmarono, finché lui non cominciò a cantare All I Ask of You tratto da Il Fantasma dell’Opera, ed Evelyn ebbe l’impressione che si identificasse con Raoul anziché con il fantasma. Non si vedeva come un mostro.

In qualche modo quella consapevolezza le fece capire quanto in realtà fosse terribile la sua situazione. L’aveva portata via dalla fabbrica prima che Amarok o qualcun altro la potesse trovare.

Adesso le sue possibilità di farcela erano ridotte al minimo.

Anchorage, Alaska – giovedì, ore 0.05

L’urlo che sentì nella fabbrica di polli trafisse Amarok come una scheggia di vetro.

Era già a metà strada verso Hilltop, ma all’improvviso aveva fatto inversione ed era tornato ad Anchorage. L’istinto gli diceva di non andarsene, e quella sensazione di imminente sventura era peggiorata a ogni chilometro. Convinto che Edna Southwick fosse la chiave per risolvere la scomparsa di Evelyn, aveva deciso che non avrebbe lasciato tutto per correre a Hanover House per vedere Jasper Moore. Se era importante, Jasper avrebbe potuto condividere quello che sapeva con qualcun altro che gli avrebbe riferito l’informazione. In quel momento Evelyn aveva troppo bisogno di lui perché Amarok rischiasse di commettere anche un solo errore, e dato che non sapeva in cosa potesse consistere quell’errore, non in quel momento critico, poteva solo fidarsi dell’istinto.

Quand’era arrivato a casa di Edna Southwick non c’era nessuno. Visto quello che aveva in mente di fare era stato felice di quella privacy. Aveva pensato che avrebbe potuto essere difficile introdursi in casa, che avrebbe potuto incappare nella polizia di Anchorage, se qualcuno li aveva chiamati per Edna, o che il rumore avrebbe attirato l’attenzione di un vicino.

Ma non andò così. Mentre faceva il giro della casa aveva notato che una delle finestre non era chiusa del tutto, così aveva usato il coltellino per tagliare la zanzariera, forzare il pannello di vetro ed entrare. Quello che gli rubò molto tempo fu passare al setaccio l’ufficio della signora Southwick, in cerca del contratto d’affitto che corrispondesse alla ricevuta che la donna aveva inviato a Emmett.

Aveva messo sottosopra l’intera stanza prima di rendersi conto che non era lì, quindi aveva dovuto cercare in tutto il resto della casa. Quel contratto era l’unica cosa che gli serviva, su cui doveva mettere le mani, perché sapeva che doveva contenere l’indirizzo che non si era premurata di copiare sulla ricevuta.

Alla fine l’aveva trovato in una pila di lettere infilata in uno dei cassetti della lavanderia: tra tutti i posti possibili proprio quello. Ma nell’attimo in cui aveva visto il nome di John Edmonson, la cifra di cinquecento dollari e il nome della proprietà – Southwick Family Egg Ranch – aveva capito di aver fatto la cosa giusta.

Era che Emmett aveva portato Evelyn, ne era sicuro.

Restava da vedere se Evelyn fosse ancora lì.

Non appena ottenuto l’indirizzo, era corso al furgone ed era partito a tutta birra. Ma quando era arrivato alla fabbrica aveva dovuto rallentare considerevolmente il suo approccio. Anche se non c’erano veicoli, vedeva una luce accesa nell’edificio. Non aveva idea di cosa stesse succedendo lì dentro. Si stava avvicinando furtivamente da dietro, pistola alla mano, cercando di capire con che cosa avesse a che fare e come poterla affrontare quando aveva sentito l’urlo.

Solo che non proveniva dallo stabilimento, come si sarebbe aspettato.

Proveniva da uno dei lunghi, stretti pollai non lontano da dove aveva scavalcato la recinzione.

Arrivò a quello specifico pollaio in pochi secondi, spalancò la porta e puntò la pistola e la torcia all’interno, aspettandosi di vedere Evelyn, ma rimase di stucco.

Una giovane donna che non riconobbe era inginocchiata a terra, anche lei stava cercando di prendere in mano una pistola. La afferrò quando Amarok invase l’entrata e, per un momento, pensò che gli avrebbe sparato. Gli puntò contro la canna ma per fortuna si rese conto che era un poliziotto e lasciò cadere l’arma.

«Sono il sergente Murphy» le disse, abbassando anche lui la pistola. «Chi sei? E cosa ci fai qui?»

Lei non rispose a nessuna delle domande. Con mano tremante indicò una pila di letame. «C’è… c’è un cadavere» disse, e scoppiò a piangere.

Amarok si stava piegando per raccogliere la torcia che era rotolata lontano dalla donna, la luce che formava un cerchio angosciante sulla parete, quando vide quello che apparentemente l’aveva fatta gridare.

Le afferrò il braccio, la aiutò ad alzarsi e la spinse dietro di sé, per non farle vedere un minuto di più quella scena raccapricciante. Poi afferrò la pala che trovò li vicino e la usò per portare alla luce parte del corpo, quel tanto che bastava per determinare che non si trattava di una donna.

Grazie a Dio!

«Emmett Virtanen» disse.

Per via del rigonfiamento, della pelle che si squamava e dell’attività degli insetti era difficile determinare l’aspetto di quella persona; Amarok era certo che il corpo fosse lì da parecchi giorni. Aveva pensato fosse Emmett perché non era Lyman Bishop e c’erano vaghe somiglianze tra quel corpo e le foto di Emmett che aveva visto nel video sgranato del Quick Stop.

«Chi è?»

«Uno che non vorresti mai incontrare.»

«E l’uomo basso e calvo che zoppica? Sta bene?»

Amarok sentì il cuore pompare a mille. «Zoppica? Stai parlando di Lyman Bishop?»

Lei lo guardò frastornata. «Non si chiama John Edmonson?»

«No. È Lyman Bishop, è un serial killer del Minnesota, e adesso credo si trovi in Alaska. Potrebbe anche essere nella proprietà. Devi uscire di qui.»

«Oddio!» sussurrò lei, portandosi una mano alla bocca. «Avevo ragione. È pericoloso. Me lo sentivo. Mi faceva accapponare la pelle. Non credi che abbia ucciso mia madre, vero?»

«Tua madre?»

«Edna Southwick. Non sei qui per cercarla?»

Non gli diede la possibilità di rispondere, perché aggiunse: «Ti prego dimmi che non la troveremo se… se continuiamo a scavare. Ti prego!» Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre osservava la pila di letame, ma quando fece per prendere la pala come se volesse scoprirlo Amarok la fermò.

Non poteva prometterle che sua madre non fosse morta. Se Edna aveva avuto una discussione con Bishop era probabile che si trovasse nella stessa condizione di Emmett. «Guarderemo appena possibile» le disse. «Ma prima devo vedere chi c’è nell’edificio. Come ti chiami?»

«Ada.»

«Dammi il tuo numero di telefono, Ada.»

Sembrava troppo sconvolta per ricordarlo. «Il mio numero?» ripeté, sconcertata. «Perché?»

Temendo che Bishop o qualcun altro arrivasse e li trovasse lì, Amarok guardò verso la porta. «Perché devo farti uscire dalla proprietà mentre siamo ancora in tempo… ma forse avrò bisogno di contattarti più tardi se… se scopro qualcosa su tua madre.»

Ada si aggrappò a lui, le unghie che gli si conficcavano nel braccio come artigli. «Non vado da nessuna parte senza di te!»

Amarok non avrebbe insistito, visto che era sotto shock. Anzi, aveva già cambiato idea. Per quel che ne sapeva si sarebbe imbattuta in Lyman Bishop mentre tornava alla macchina. Non poteva mandarla da nessuna parte da sola, non in quel posto.

«Bene» le disse. «Puoi starmi vicina finché non saremo al sicuro. Ma rimani dietro di me, non fare rumore e, se succede qualche casino, scappa a gambe levate.»

Anchorage, Alaska – giovedì, ore 0.30

Quando Evelyn rinvenne, il veicolo era fermo.

Tutto era immerso nel buio e nel silenzio.

Cercò di alzarsi abbastanza per vedere cosa stava succedendo. Se Bishop se n’era andato avrebbe potuto avere l’opportunità per scappare. Adesso che Amarok aveva perso la migliore opportunità per ritrovarla doveva essere lei a fare qualcosa. Più si trascinava quella situazione meno era probabile che lei e la sua bambina sopravvivessero.

Ma era ancora legata ed era in una posizione talmente scomoda che non riusciva nemmeno a mettersi in ginocchio.

Spossata per lo sforzo si accasciò di nuovo sul tappetino e cercò di riprendere fiato, cosa non facile per via del tessuto che aveva infilato in bocca, e si sforzò di captare qualche rumore.

Non sentiva nulla di particolare che le dicesse dove si trovava: niente portiere d’auto che si richiudevano o persone che parlavano. Questo la portò a credere che fosse in mezzo al nulla, parcheggiata lungo il ciglio della strada. La stava portando a Fairbanks? Se era così, da Anchorage ci volevano sei ore e mezzo. Quanta strada avevano percorso?

Non potevano essere troppo lontani. Era ancora buio, e in Alaska non faceva buio a lungo, non in quella stagione.

«Bishop?» Il nome le uscì più come un “Be-op”, ma era il meglio che poteva fare con un bavaglio in bocca.

Lui non rispose. Era addormentato sul sedile del guidatore o era andato al bagno, o a prenotare una stanza in un motel o che altro?

Non riusciva a immaginarlo, ma essere fuori dalla cella frigorifera, da qualche parte che sembrava così vicina al resto del mondo, la fece sentire come se potesse scappare, se solo si fosse impegnata.

Chiuse gli occhi e si concentrò nel liberarsi le mani. Fu sollevata nel constatare che Bishop non aveva usato delle fascette. Aveva preferito la corda, alla vecchia maniera, probabilmente perché l’aveva trovata nella fabbrica.

«Andiamo, andiamo» sussurrò tra sé e sé, strattonando i lacci perché non riusciva a raggiungere il nodo, e men che meno slacciarlo, non con le dita intorpidite.

Non aveva idea delle ferite che si stava procurando ai polsi, ma non le importava. Non sentiva dolore; era troppo carica di adrenalina, troppo spinta dal pensiero che se solo fosse riuscita a liberarsi e a capire dove fosse Bishop avrebbe potuto colpirlo con qualcosa, così avrebbe potuto prendere il furgone e scappare.

Il cuore le batteva così forte che lo sentiva pompare contro il petto.

Boom, boom, boom.

Cercò di ignorarlo anche se sembrava riverberarle tutto intorno, così forte che chiunque nelle vicinanze avrebbe potuto sentirlo.

Puoi farcela. Continua a combattere. Spingi. Ruota. Si sentiva come un coniglio in trappola, che si rosicchiava la zampa per scappare, ma era disposta a quel sacrificio. A quel punto era disposta a fare quasi qualsiasi sacrificio, se l’avesse portata verso la libertà.

Con sua sorpresa, riuscì a liberare i piedi ma non le mani. Forse Bishop non li aveva legati così bene. Immaginò che non si fosse preoccupato molto dei piedi, ma Evelyn pregava che quel piccolo errore – il primo, per quanto la riguardava – lo avrebbe portato alla disfatta.

Anche se nel furgone faceva freddo Evelyn stava sudando quando riuscì a districare le caviglie.

I nodi ai polsi si stavano allentando?

O era solo un’illusione?

Si stava ancora divincolando quando la portiera dalla parte del guidatore si aprì con un clangore di metallo arrugginito e la luce nell’abitacolo si accese.

Evelyn trattenne il respiro, avvicinando le caviglie come se fossero ancora legate e rotolando sopra le mani per nascondere ogni traccia di sanguinamento.

Il furgone oscillò quando Bishop salì. Lei teneva gli occhi chiusi, per non vedere se si voltava a guardarla, ma pregò che se lo avesse fatto avrebbe creduto che fosse ancora svenuta.

Quando mise in moto la radio si accese. Altre canzoni di musical. Forse si era svegliata quando il rumore del motore e la musica si erano interrotti di colpo. Per fortuna qualcosa l’aveva ridestata.

Mentre si immetteva in strada cambiò stazione radio, finché non risuonò la voce di Elvis. Bishop canticchiò al ritmo di Burning Love mentre Evelyn cercava di districare le mani dalla corda.

Dopo poco sentì una sostanza viscida e viscosa sulle mani. Okay, stava sanguinando. Ma non si fece scoraggiare. La sua vita, e quella di sua figlia, dipendevano da come avrebbe gestito i minuti successivi. Desiderava solo essere più forte. I farmaci che doveva averle dato la facevano sentire lenta e apatica, oltre che intontita.

Intontita? Si irrigidì. Le aveva già praticato la lobotomia? Bishop voleva aspettare fin dopo il parto, ma con tutto quello che stava succedendo, con quella fuga improvvisa dalla fabbrica, poteva benissimo aver cambiato idea. Forse non era drogata. Forse le aveva sezionato il cervello mentre era stesa sul pavimento della cella frigorifera, così non sarebbe diventata un problema.

Sbatté velocemente le palpebre, cercando di capire se sentisse dolore alle orbite. Una lobotomia aveva effetti diversi sulle persone. Alcune delle tremilacinquecento persone che avevano subìto una lobotomia per mano del dottor Walter Freeman negli anni quaranta e cinquanta avevano condotto vite relativamente normali in seguito, altre no. Le statistiche di Bishop per quanto riguardava la sopravvivenza delle vittime erano molto peggiori, eppure… Se le aveva perforato le orbite avrebbero impiegato qualche giorno per guarire e probabilmente Evelyn aveva due occhi pesti, anche se non aveva perso ogni capacità di pensare e ragionare.

Per fortuna non sentiva alcun dolore o indolenzimento. Ma che le avesse praticato una lobotomia frontale o meno non poteva starsene lì e permettergli di portarla ancora più lontana da Amarok. Doveva usare le facoltà mentali rimaste per scappare.

Le si stavano gonfiando le mani, ostacolando ancora di più i suoi sforzi.

Parecchie volte fu quasi sul punto di arrendersi. Ma più provava, più sanguinava e, alla fine, fu il sangue a fare la differenza, perché agì da lubrificante.

Quando alla fine riuscì a liberarsi le mani, stentava quasi a crederci. Non aveva slegato la corda, ma l’aveva allentata al punto giusto.

All’inizio avere le mani libere non servì a molto. Erano troppo pesanti, era come se stesse cercando di usare due mattoni. Ma quella non era la cosa peggiore. Quando il sangue riprese a circolare le dita e le mani sembrarono incendiarsi.

Resistendo all’impulso di strapparsi subito il tessuto dalla bocca si rannicchiò, cercando di resistere al dolore senza mugugnare. Aveva bisogno di riappropriarsi della sensibilità alle mani se voleva trovare qualcosa nel retro del furgone da usare come arma. Il riverbero delle luci del cruscotto non arrivava fin sul retro, ed era troppo buio per vedere qualcosa. Non poteva far altro che aspettare.

Riacquistare la sensibilità fu un processo più lungo di quanto si fosse aspettata. Oppure era solo che ogni minuto in quel furgone sembrava un’ora. Non riusciva a calcolare bene il tempo quand’era così agitata; aveva troppa paura che arrivassero a destinazione e di perdere la sua opportunità.

Quando sentì di potercela fare prese di nuovo in considerazione l’idea di togliersi il bavaglio. Moriva dalla voglia di farlo, di inumidirsi la bocca e respirare normalmente. Ma resistette all’impulso, in caso Bishop si fosse voltato a guardarla.

Pensò di avvicinarsi a Bishop da dietro con la corda che aveva usato per legarla, avvolgergliela attorno al collo e tirare finché non avesse più rappresentato una minaccia per nessuno. Era abbastanza disperata e infuriata da arrivare a farlo.

Il problema era che quel tentativo sarebbe potuto risultare in un incidente che avrebbe ucciso entrambi. E anche se era pronta a rischiare sul piatto della bilancia non c’era solo la sua, di vita. Aveva intenzione di salvare se stessa e la sua bambina.

Così, invece, cominciò piano a cercare qualcosa a tentoni, una chiave inglese, un’ascia o qualcosa che potesse usare come arma.

Trovò un sacco con delle provviste.

E alcune lenzuola. Questo non l’avrebbe aiutata a scappare, ma era ancora più arrabbiata che Bishop avesse preso delle coperte e non le avesse usate per ricoprire il furgone prima di buttarla lì dentro. Bastardo.

Trovò anche una cassetta per gli attrezzi. Ma all’interno tutti gli utensili erano piccolissimi: chiodi, viti e una livella. C’erano parecchie altre cose che non riusciva a identificare al tatto, riuscì però a trovare un cacciavite e un martello. Potevano essere entrambi letali, nelle giuste circostanze. Ma le circostanze non erano favorevoli. Evelyn preferiva un’arma che poteva brandire e che avrebbe tenuto Bishop a distanza, preferiva qualcosa che le desse maggiori probabilità di successo.

Peccato che non ci fosse nulla. Visto che doveva prendere quello che poteva scelse il cacciavite. Con un’arma come quella poteva almeno spingere dal basso verso l’alto. Senza fare leva un martello sarebbe stato meno efficace. Avrebbe dovuto fingere di essere ancora incosciente, finché Bishop non avesse aperto il retro per farla uscire, e poi aggredirlo.

Il ricordo di quanto fosse terribile uno scontro ravvicinato le fece venire la nausea: quanto fosse stato snervante il solo rumore prodotto da Emmett quando era entrato nella cella, quant’era stata dura non perdere la calma mentre si avvicinava per non farsi scoprire, e come l’adrenalina aveva minacciato di rammollire le sue braccia prima che potesse colpirlo.

Ma non aveva scelta. Se voleva scappare doveva aspettare finché Bishop non le fosse stato accanto. Era esattamente come con il coltello che si era fabbricata. Solo che stavolta c’erano più cose in ballo. Perché se avesse cercato di colpirlo con il cacciavite e in qualche modo avesse fallito Bishop le avrebbe di sicuro fatto una lobotomia, infischiandosene del bambino.

Quella sarebbe stata la fine, in un modo o nell’altro. O sarebbe scappata oppure sarebbe diventata qualcuno che nemmeno lei stessa avrebbe riconosciuto, se mai fosse sopravvissuta.