19

Minneapolis, Minnesota – lunedì, ore 17.00

Amarok non si sarebbe arreso. Aveva volato per cinquemila chilometri per parlare con la vedova di Terry Lovett. Non appena si era resa conto che era della polizia si era rifiutata di farlo entrare o di parlarci, ma lui aveva in mente di avvicinare i suoi amici, vicini e familiari. Se l’uomo che stava cercando aveva a che fare con Terry dovevano conoscersi in qualche modo, e Lewis aveva già stabilito che non era stato tramite il lavoro.

Anche se il sole pomeridiano picchiava sul vetro e quindi non riusciva a vederla, sentiva che Bridget lo stava guardando dalla finestra mentre attraversava la strada, anziché salire sulla macchina a noleggio che aveva parcheggiato lungo il marciapiede di fronte a casa sua.

Gli ci volle un momento per svegliare qualcuno, ma alla fine un uomo obeso, con un bastone, rispose al suo bussare.

Amarok si presentò come poliziotto e prese la foto che aveva portato con sé. «Riconosce quest’uomo?»

Il tizio si grattò la folta barba mentre osservava l’immagine. «Non mi pare. Cioè… mi sembra vagamente familiare, ma la foto è così sgranata…»

«Credo che fosse un amico di Terry Lovett. Potrebbe essere che l’abbia visto alla casa dei vicini?»

«No. È difficile per me uscire.» Indicò i piedi, che erano così gonfi che era un miracolo riuscisse ancora a camminare. «Sto spesso per i fatti miei.»

«Quindi vive da solo?»

«Siamo solo io e mia madre.»

«Dov’è sua madre? È possibile parlarle?»

«Non ora. È ancora al lavoro.»

Amarok annotò il loro indirizzo. «Quando sarà a casa?»

«Tornerà da noi?» Sembrava sorpreso.

«Se non le dispiace…» Amarok aveva intenzione di tornare comunque, ma stava cercando di essere gentile.

La pelle che penzolava sotto al mento dell’uomo oscillò quando scosse la testa. «No, certo che no. Ma non credo che sarà in grado di aiutarla. Non è che facciamo feste tra vicini in questo quartiere schifoso. È passato di qua un altro poliziotto quindi abbiamo sentito che il marito della vicina è stato assassinato. E l’abbiamo visto anche sui giornali. E ci dispiace. Ma non la conosciamo molto bene.»

«Ma vorrei comunque che sua madre desse un’occhiata a questa foto. Fa parte del mio lavoro essere scrupoloso.»

«Okay» disse l’altro, con un tono come a dire “fa’ come vuoi”.

Dopo essersene andato, Amarok percorse l’intera strada, bussando a ogni porta. Non tutti erano a casa, ma si annotò quali abitazioni richiedevano un altro sopralluogo. Quando tornò verso casa di Bridget lei era in giardino, a fissarlo con le mani sui fianchi.

«Che sta facendo?» scattò mentre lui la superava.

«Gliel’ho detto. La mia fidanzata è stata rapita. Non so se sia ancora viva, ma anche se non lo è rintraccerò chi l’ha presa, e quest’uomo» sollevò la foto che aveva cercato di mostrarle in precedenza. «Potrebbe essere lui. Credo che avesse un qualche legame con suo marito. Quindi finché non trovo quello che sto cercando parlerò con tutti quelli che la conoscono.»

«Ma è una molestia! Mio marito è appena morto. Perché sta cercando di rendermi la vita più difficile?»

Le avevano assassinato il marito. Non era solo “morto”, eppure le sue parole erano indifferenti, quasi innocue, come se non ci fosse nessuno da biasimare. Introdurre quel tipo di distanza emotiva era un qualcosa che Amarok aveva sempre associato con l’inganno. Una persona innocente non avrebbe detto “Mio marito è appena stato ucciso?”.

«Non sto molestando lei né nessun altro» le disse. «Sto solo cercando di salvare la vita della donna che dovrebbe diventare mia moglie, e la vita di nostra figlia. Evelyn è incinta di sei mesi.»

Bridget sussultò a sentir menzionare il bambino, ma subito dopo sollevò il mento con aria di sfida. «È già passato un altro detective. Ha fatto domande a me e a tutti gli altri sull’uomo in quella foto sgranata.»

Alcune delle persone con cui aveva parlato Amarok gli avevano detto la stessa cosa, ma altre sembravano non sapere niente del caso, cosa che provava che Lewis non era stato caparbio come Amarok. «Se sa qualcosa, e può farmi risparmiare il tempo e la fatica di rintracciare tutti i suoi amici e parenti le sarei molto grato.»

Con un sospiro plateale che suggeriva quanto fosse irritata dalla sua presenza, afferrò la foto e la fissò. «Non ho mai visto quest’uomo in vita mia»» gli disse, e gliela restituì.

Amarok non rispose. Si limitò ad accettare la foto, si voltò e si spostò verso la casa dietro a quella di Bridget.

«Nessuno qui intorno lo riconoscerà!» gridò lei. «Se era un amico di mio marito sono l’unica che lo saprebbe, e le dico che non lo era.»

«Allora non le dispiace se controllo.»

«Sta perdendo tempo. Ecco tutto. E che mi dice della sua fidanzata? Secondo me le serve che faccia qualcosa di più produttivo.»

«Decido io quello che serve alla mia fidanzata. Ma grazie per il consiglio.»

Lei cominciò a corricchiare per raggiungerlo e gli afferrò il braccio per fermarlo. Ma quando lui la scostò Bridget sollevò le mani e rientrò in casa.

Comunque, dopo due ore passate a interrogare il vicinato, Amarok temette che Bridget avesse ragione. Nessuno riconosceva quell’uomo.

Amarok era fermo all’angolo, a fissare il veicolo che aveva parcheggiato di fronte alla casa di Bridget e a chiedersi se dopotutto non potesse usare meglio il proprio tempo quando ricevette una chiamata sul cellulare che aveva comprato da Walmart non appena era arrivato in città. Era il detective Lewis.

«Chi ti ha dato questo numero?» gli chiese non appena rispose. Non era stato lui; aveva pensato che fosse meglio se Lewis non avesse saputo che era in città.

«Phil. Ti ho appena cercato alla stazione di polizia.»

Se Phil gli aveva dato un modo per contattarlo doveva esserci un buon motivo. «Hai qualcosa in mano?»

«Sì, e te lo direi se non fossi così incazzato» disse. «Cosa ci fai a Minneapolis?»

«Sto cercando l’uomo che ha rapito la mia fidanzata.»

«Niente di quello che ho detto o fatto ti ha convinto che sto facendo il mio lavoro?»

Lewis sembrava scocciato, ma ad Amarok non importava. Il detective non era motivato quanto lui, non era altrettanto disperato nel voler riportare a casa Evelyn, e Amarok non si fidava mai completamente che gli altri facessero le cose che per lui erano importanti. «Non offenderti. Non mi fiderei di nessuno. Stiamo parlando di Evelyn.»

«Ma stai perdendo tempo a fare il mio lavoro quando potresti essere in Alaska a fare il tuo.»

Amarok trattenne uno sbadiglio. Il suo corpo sembrava in qualche modo essersi adattato alla modalità “emergenza”, eppure non sembrava riuscire a smettere di sbadigliare. «C’è Phil che mi dà una mano a Hilltop. Mi chiamerà se salta fuori qualcosa.»

«E se succede sarai a ore e ore di distanza. Ti va bene?»

«Devo andare dove mi portano le indagini. Non ho scelta.»

«Non hai scelta? Potresti fidarti di me, no? Sto facendo il mio lavoro! Magari mi crederai quando ti dirò che ho trovato un possibile collegamento tra Terry Lovett e l’uomo nel video del Quick Stop.»

Amarok stritolò quasi il telefono. «Cioè?»

«Hai detto che il tizio che è venuto in città sembrava un ex carcerato, giusto?»

«È quello che indica il tatuaggio che ha sulla mano.»

«Sono d’accordo. Be’, anche Terry Lovett è stato dentro… otto anni per la precisione.»

«Dove?»

«Fairbault, il più grande carcere del Minnesota. Adesso sto andando lì per parlare con il direttore e gli altri dipendenti. Se è stato in carcere lì per un bel po’ qualcuno si ricorderà di lui.»

«Quanto ti ci vorrà?»

«È a un’ora di macchina. Dipende da quello che scopro, con quante persone devo parlare, potrebbe volerci quasi tutto il giorno.»

Amarok stava per replicare, quando vide una Ford Focus azzurra fermarsi di fronte alla casa di Terry Lovett. Scese una bambina, di circa dieci anni. Stava salutando le persone ancora dentro alla macchina quando Amarok disse a Lewis che lo avrebbe richiamato e le si avvicinò di corsa.

«Salve.» Sorrise alla donna al volante e le mostrò il distintivo. «Sono il sergente Benjamin Murphy…»

«Non ho fatto niente di male, vero?» lo interruppe.

«No, certo che no.» Si spostò, così la bambina, che lo guardava incuriosita, rimase tra lui e il veicolo. «Lavoro con il detective Lewis della polizia di Minneapolis su un caso importante riguardante quest’uomo.» Le mostrò la fotografia. «Non è che per caso l’ha visto…»

«No. Non l’ho mai visto» gli disse. «Ma non vivo in questo quartiere.» Indicò la bambina che era a solo mezzo metro da lui. «Magari Estelle lo riconosce. Sono appena andata a prenderla all’allenamento di calcio. Vive qui. Io e sua madre facciamo a turno per andare a prendere le bambine.»

«Posso vederla?» chiese Estelle.

Amarok le porse la foto. «Come no.»

La ragazzina si sollevò gli occhiali sul naso, ma non dovette osservare a lungo la foto. Le si illuminò subito il viso. «Credo di averlo riconosciuto. È mio zio Emmett» disse orgogliosa.

Amarok sentiva il cuore in gola. «Il fratello di tuo padre?»

«No, di mia madre.»

Aveva appena pronunciato quelle parole quando una voce stridula gridò: «Estelle! Entra in casa! Subito!»

Si voltarono entrambi e videro Bridget Lovett in piedi sulla scalinata d’ingresso.

«Devo andare» bofonchiò Estelle. Afferrò lo zainetto e corse in casa, chiaramente spaventata dalla reazione della madre.

«Fuori dalla mia proprietà» disse Bridget ad Amarok, puntando il dito verso la strada. «È una ragazzina. Potrei fare causa a lei e al dipartimento di polizia di Minneapolis per averle parlato senza permesso.»

«Faccia pure» le disse.

Non era preoccupato. Adesso sapeva perché Bridget si era rifiutata di cooperare: stava proteggendo il fratello.

Anchorage, Alaska – lunedì, ore 17.30

Lyman Bishop guardò corrucciato il portatile che aveva lasciato lì Emmett. Vecchio e malconcio, con adesivi di palestre lungo lo schermo, non era il massimo, ma Emmett lo aveva portato con sé in Alaska per poter guardare i film su Netflix mentre aspettava Lyman. La vita di Emmett era stata così semplice. Non riusciva a stare senza svaghi per tre o quattro giorni.

Per Lyman niente era semplice. Non lo era mai stato, soprattutto in quel momento. Nelle ultime ventiquattro ore non era riuscito ad alzarsi dal letto per via dello sforzo fisico fatto per scappare da Beacon Point, ma alla fine era riuscito a dar da mangiare alle due prigioniere (per la prima volta quel giorno, ma non pensava che meritassero un trattamento migliore, non era per niente contento di loro) e si era avvicinato a fatica al piccolo bancone per la colazione nella sala del personale. Era stato così occupato da quand’era un uomo libero, sbrigando una cosa e poi l’altra, che non aveva avuto nemmeno il tempo di pensare a quello che si era lasciato alle spalle nel Minnesota. La sera prima, dopo aver rinchiuso con Evelyn anche la proprietaria di quel posto, si era trascinato fin sul divano, dove si era rannicchiato per cercare di sopportare il dolore che gli pulsava lungo le gambe. Ogni muscolo protestava. Ma si sentiva un po’ meglio, e doveva sapere cosa stava succedendo, cosa sarebbe potuto sopraggiungere.

Non appena digitò il nome di Terry su Google vide che la polizia aveva ordinato un’autopsia sul suo corpo e avevano determinato che la morte non era un suicidio. Che iella. Aveva sperato in un po’ di fortuna, ma non gliene era mai andata bene una. E più indagava più le cose si complicavano. Le autorità sapevano anche che era fuggito da Beacon Point e lo stavano cercando.

Scosse la testa. Adesso era tutto un gran casino.

Desiderò avere la forza per camminare su e giù. Era talmente furioso. Aveva bisogno di sfogarsi. Ma non si sarebbe alzato. Non si era ripreso del tutto, faticava ancora a controllare il lato sinistro del corpo. Un attimo prima si era ritrovato a sbavare come un bambino, e grugnì al pensiero di come si sarebbe sentito se Evelyn avesse visto quello spettacolo. Come se non fosse già abbastanza svantaggiato per via della calvizie. Voleva essere attraente per lei. Sapeva che gli sarebbe piaciuto fare sesso con Evelyn molto di più se avesse potuto verificare che lei lo trovava almeno un po’ piacente. Per non parlare del fatto che a un certo punto la gente avrebbe dovuto credere che stesse con lui volontariamente.

Certo, la bellezza di Evelyn sarebbe sfiorita in fretta. Dopo l’operazione l’aspetto di Beth era peggiorato quasi subito. La perdita di vitalità e intelligenza influiva anche sul fisico.

Si grattò la testa. A cosa stava pensando? Non poteva preoccuparsi di cose come quelle adesso. Ne aveva molte altre da gestire.

«Come faccio a contrastare tutto questo?» mormorò più e più volte, mentre fissava in cagnesco lo schermo del computer e l’ultimo articolo che aveva aperto. Edna Southwick aveva detto che tre delle sue figlie abitavano negli Stati Uniti, il che era un bene. Essendo così lontane era meno probabile che si accorgessero subito della sua sparizione.

Ma la quarta figlia…

La quarta figlia poteva rappresentare un problema. Erano già passate ventiquattro ore.

Si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi mentre si accasciava contro lo schienale dello sgabello e immaginava i vari scenari che potevano presentarglisi. Se la figlia che abitava in Alaska fosse andata a ficcare il naso in cerca della madre avrebbe potuto ucciderla. Ma così il marito avrebbe cominciato a cercarla, e se avesse ucciso anche lui la catena si sarebbe allungata. Alla fine sarebbe arrivata la polizia con un mandato di perquisizione e avrebbe trovato i corpi.

Non poteva gestire a quel modo il problema di Edna Southwick. All’inizio aveva pensato di tenerla con Evelyn finché non fosse nato il bambino. Edna aveva avuto quattro figli; avrebbe potuto aiutare Evelyn quando sarebbe arrivato il momento, e il bambino avrebbe avuto più possibilità di sopravvivere.

Ma non aveva pensato con cognizione di causa. La capacità fisica non era l’unica cosa che aveva perso con quella maledetta emorragia. Aveva perso anche molta lucidità mentale.

Decise che doveva prendere Evelyn e andarsene di lì. Per quanto avesse sperato di rimanere finché non fosse nato il bambino perché era ideale sotto molti punti di vista, non poteva farlo. Alla fine le forze dell’ordine avrebbero messo insieme i pezzi del puzzle, probabilmente si sarebbero perfino resi conto che era stato lui a rapire Evelyn e ad averla tenuta segregata in quel posto per un po’. Ma visto quant’era facile trovare lavoro su Internet come curatore scientifico o ghostwriter, o anche solo facendo trascrizioni mediche, poteva lavorare da casa, dove non sarebbe stato difficile mantenere un basso profilo. Poteva anche farsi consegnare a domicilio il cibo e altre provviste, non avrebbe dovuto vedere nessuno.

Quindi nessuno avrebbe saputo dove fosse andato. E non sarebbero riusciti a trovarlo.

L’unico problema era che trovare la situazione perfetta e mettere a punto il tutto di nuovo, avrebbe potuto richiedere dei giorni.

Poteva solo sperare che ci fosse abbastanza tempo.

Hilltop, Alaska – martedì, ore 8.00

Jasper aveva paura di andare alle docce. Si era aspettato un’imboscata e, dopo quello che gli aveva detto Roland nel giardino domenica pomeriggio, sapeva che probabilmente quello sarebbe stato il posto dove sarebbe potuta succedere. Non c’erano abbastanza ore in un giorno per concedere a tutti i detenuti di fare la doccia separatamente – il governo non era disposto a spendere soldi extra sul numero di docce che sarebbero servite; non è che mettessero un carcerato per cella come in una specie di motel – e questo lo rendeva vulnerabile, soprattutto perché Roland era nel suo stesso blocco. Si facevano la doccia insieme, tre giorni a settimana, fin da quando Roland era arrivato a Hanover House, ma Jasper non si era mai sentito a disagio come adesso.

Anche se sarebbe stata una mossa più intelligente per Roland aggredirlo quando meno se lo aspettava, non era nel suo stile. Aveva quello strano codice etico, cosa della quale parlava di continuo con gli altri, e che chiamava senso di giustizia. Gli sembrava corretto informare il suo bersaglio designato che avrebbe avuto delle grane. Sceglieva solo suoi pari come avversari. Non “colpiva mai nessuno a tradimento” come diceva lui.

Jasper non si faceva simili scrupoli. Avrebbe attaccato Roland a sorpresa in un batter d’occhio, e avrebbe fatto anche di peggio, se ne avesse avuto la possibilità. Sapeva che questo agli occhi degli altri carcerati lo rendeva in qualche modo inferiore a Roland, ma non capiva perché. Roland era uno stupido a sacrificare l’elemento sorpresa. Perché permettere a un avversario di prepararsi?

Jasper non vedeva ragione per rinunciare a qualsiasi vantaggio. Di solito, un preavviso sarebbe stato sufficiente per riuscire a prevalere in uno scontro, visto che adesso sapeva di dover tenere gli occhi aperti. Ma con Roland non era così facile. Quell’uomo aveva molti dalla sua parte. Gli altri carcerati sembravano considerarlo una specie di eroe popolare, e piaceva anche alle guardie, cosa davvero strana. Jasper non aveva mai visto un sostegno così su ampia scala, soprattutto perché, a differenza della maggior parte dei detenuti, Roland non aveva stretto legami con una particolare gang o un gruppo di amici. Rimaneva distaccato, sempre sulle sue, e misurava tutto secondo quel suo particolare codice.

«Nervoso?»

Non era necessario che Jasper si voltasse per sapere chi gli avesse posto quella domanda. Lo capì dalla voce e non poté fare a meno di stizzirsi per il tono di scherno.

Si voltò con molta calma e lo guardò con assoluta noncuranza.

Come previsto, Roland era appoggiato alle sbarre della cella, e lo guardava. Non gli staccava quasi mai gli occhi di dosso dal loro incontro in cortile, non gli aveva dato tregua. Stava cercando di intimidirlo e Jasper lo capiva, odiava che la cosa stesse funzionando, soprattutto perché l’interesse di Roland attirava così tanta attenzione. Non solo gli altri carcerati lo incitavano a fare la sua mossa, facevano anche il tifo per lui.

«Chiudi la bocca, oppure te la chiudo io appena posso» ringhiò Jasper. Ma non poté fare a meno di guardare l’orologio che ticchettava inesorabilmente verso le otto e mezza, quando lo avrebbero portato alle docce insieme a tutti quelli del blocco D.

Poteva rifiutarsi di andare. Lo obbligavano a lavarsi solo due volte a settimana; la terza era a discrezione del detenuto. Ma fingere di stare male o che non gli interessasse non avrebbe retto come scusa. Coglieva ogni possibilità per uscire dalla sua cella e non si era mai rifiutato di farlo.

E poi, non andare alle docce come sempre, avrebbe solo posticipato l’inevitabile. Non valeva la pena perdere la faccia per una simile mossa: una preoccupazione costante in prigione, visto che cadere in basso dalla piramide del potere poteva avere conseguenze ancora più catastrofiche. Non poteva comportarsi come lo stupido ragazzino delle elementari che faceva la spia se qualcuno lo prendeva di mira. Doveva farsi forza e combattere.

«Vuoi davvero così tanto fare sesso con me?» Jasper ricambiò il sorriso di Roland come se non fosse minimamente preoccupato.

L’altro rise piano. «Non io, no. Se fosse per me ti pesterei a morte e fine. Non sono dell’altra sponda. Ma ho un amico che ha espresso interesse, e non vedo perché dovrei negarglielo. Dopotutto è proprio quello che ti meriti, e vederti ricevere quello che meriti è l’unico motivo per cui ci sto.»

Jasper sapeva a chi si riferiva Roland. Rufus Moreno aveva creato una piccola gang che definiva la sua famiglia. Aveva un compagno fisso. Jasper li aveva visti limonare in cortile parecchie volte. Ma Rufus non era affatto esclusivista. Gli piaceva guardare quella che chiamava carne fresca. «Quindi qual è il tuo ruolo? Guarderai e basta?»

Roland sorrise di più, mostrando i denti. «Io ti terrò fermo.»

«Sei un animale.»

A quelle parole la risata di Roland si fece fragorosa, tanto da risuonare attraverso il cavernoso edificio, cosa che fece ridere anche tutti gli altri lì intorno. «Puoi prendertela con gli altri ma non il contrario? È così?»

Jasper cominciò a passeggiare avanti e indietro. Non era una reazione saggia. Senza dubbio Roland percepiva la sua ansia, ma sapeva di aver spaventato Jasper, altrimenti avrebbe già smesso. A quell’uomo non sfuggiva nulla. E non gli importava della propria vita, quindi questo gli dava un vantaggio nei confronti di chi invece ci teneva. «Mi difenderò» lo avvertì Jasper.

«Puoi provarci» gli rispose con un’alzata di spalle.

«Cos’è, dirai ai tuoi amichetti di darti man forte? È per questo che sei così tanto sicuro?»

«Non chiedo aiuto a nessuno. Non mi serve.»

«Credi che Evelyn vorrebbe questo?» gli chiese Jasper.

Roland si strappò una pellicina con i denti e la sputò a terra. «Non credo proprio che le importerebbe. Tu sì?»

«Lei non cerca vendetta. C’è qualcosa di diverso nel mio cervello. Spera di studiarlo.»

«Allora glielo metterò da parte… in un vasetto. E comunque molto probabilmente sarà irrilevante. Dubito che Evelyn torni, e se non torna è per colpa di uomini come te.»

Ecco il punto. Era arrabbiato perché Evelyn se n’era andata, e se la stava prendendo con Jasper.

Jasper smise di camminare e afferrò le sbarre della cella. «Sei stato condannato per omicidio! Non sei il paladino degli innocenti.»

Di fronte a quello scatto Roland rimase perplesso. «Non ho mai ucciso nessuno che non se lo meritasse. Puoi dire lo stesso di te?»

Jasper non riuscì più a trattenere la rabbia. Non era mai stato il suo forte. «Ti ucciderò!» gridò. «Ti ucciderò, anche se è l’ultima cosa che faccio!»

«Fra pochi minuti ne avrai la possibilità» gli disse.

Arrivò il carrello della posta. Jasper respirava così a fatica che sentiva il petto sollevarsi e abbassarsi mentre strappava le lettere dalle mani del detenuto che faceva il giro per consegnarle.

Come sempre aveva una pila di lettere da parte di donne. Era troppo agitato per leggerle subito, pensò di aspettare finché non fosse stato in grado di godersele, se mai quel momento fosse arrivato. Era del tutto possibile che non ritornasse mai più dalla doccia.

«Ehi!» gridò Roland, e sorrise mentre mostrava a Jasper il coltello che aveva costruito, che nascose in fretta dietro alla schiena quando il carcerato che spingeva il carrello si fermò anche a guardare.

Jasper desiderò avere un’arma. Quando si trattava di Roland si sentiva sempre in svantaggio. La parte che più lo faceva infuriare era non riuscire a capire come Roland fosse arrivato a guadagnarsi tanto potere e popolarità in così breve tempo.

Gettò la posta sul letto, con l’intenzione di mettersi ad affilare il suo spazzolino da denti: era l’unica arma che poteva creare nei pochi minuti che gli rimanevano.

E fu in quel momento che la vide. Aveva ricevuto una lettera da Chastity.

Finalmente! Almeno adesso avrebbe saputo cosa aveva scoperto quand’era andata a Beacon Point. O magari gli avrebbe raccontato qualcosa che Amarok aveva condiviso con lei sull’indagine e che lui ancora non sapeva. Era il più interessato a Evelyn, lo era sempre stato, e quello era il modo che aveva per arrivare il più possibile vicino a lei.

Ma la lettera di Chastity diceva molto di più.