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Hilltop, Alaska – martedì, ore 16.15
«Cosa vuoi da me?» chiese Jasper, palesemente sorpreso quando Amarok entrò nella stanza. Il protocollo per un prigioniero pericoloso come Jasper prevedeva che gli operatori del carcere seguissero certe precauzioni di sicurezza alla lettera, e una di queste era parlare con lui attraverso una parete di plexiglass. Era lì che si sedeva di solito Evelyn quando incontrava i carcerati di quel genere. Ma Amarok non faceva parte dello staff della prigione, e quello era un caso a sé, un caso molto personale. Non avrebbe fatto credere a Jasper che lo temeva.
Non aveva paura. Sperava che Jasper cercasse di fargli del male. Così avrebbe avuto la scusa per dare libero sfogo alla rabbia intensa che provava da tempo per il mostro che aveva fatto così tanto male a Evelyn, per non menzionare la trentina di altre donne che aveva torturato e assassinato negli anni (nessuno a parte Jasper poteva indicarne il numero esatto, e lui non avrebbe mai ammesso nulla).
Ma anziché affrontarlo o minacciarlo, Jasper arretrò. Di sicuro capiva che Amarok quel giorno non stava giocando, che era più che disposto a rischiare una colluttazione fisica. Per dimostrarlo Amarok chiese all’agente fuori dalla porta di entrare e togliere a Jasper le manette e la catena in vita.
«Sei sicuro?» L’agente Hatch era già contrario al fatto che Amarok avesse insistito per incontrare Jasper nella stessa stanza. Non voleva infrangere un’altra misura di sicurezza.
«Sì.»
Hatch fece come gli aveva detto, con riluttanza. «Qualcos’altro, sergente?»
«È tutto.»
L’agente esitò. «Magari potrei rimanere nella stanza, in caso ti servisse aiuto.»
«Non sarà necessario.»
«Ma questo tizio è furbo, signore. Cerca sempre di combinare casini in qualche modo.»
Jasper digrignò i denti, facendo sussultare la guardia per poi scoppiare a ridere, tanto che Hatch gli rivolse un’occhiata minacciosa.
«Non è una buona idea startene qui da solo con lui, e poi non ce n’è bisogno» disse Hatch. «Abbiamo una stanza dove puoi parlare con lui in tutta sicurezza.»
Amarok si impose di sorridere, ed era un sorriso così forzato da fargli male alle guance. «Nessuno conosce meglio di me questo bastardo, agente Hatch. Me la caverò.»
«Evelyn mi conosce meglio di te» cantilenò Jasper. «Dopotutto ho sentito il suo sangue caldo sulle mie mani.»
Quando chiuse gli occhi, quasi a voler assaporare il ricordo, Amarok dovette usare tutta la forza di volontà in suo possesso per non afferrarlo per il colletto della tuta da carcerato e sbatterlo al muro. Sentiva i muscoli tesi, ma non si mosse. Non poteva aggredirlo, per quanto fosse tentato. «Ed è per questo che se le succede qualcosa ti riterrò personalmente responsabile, anche se non è colpa tua.»
Jasper era perplesso. «Mi stai eccitando. Ammetto di non aver mai fatto sesso con un uomo, ma sarei felice di fare un’eccezione per te.»
«Sono fuori dalla tua portata.»
Jasper si fece serio.
«Sergente, davvero, non credo che sia una buona idea.» L’agente guardò con sospetto Jasper per poi spostare l’attenzione su Amarok. Era palese che percepiva l’astio tra i due.
«Puoi andare» disse Amarok.
Con un sospiro come a dire “fa’ come vuoi”, Hatch si diresse verso la porta. «Sono qui fuori se hai bisogno di me.»
«Io no… ma lui forse sì.»
«In tal caso, se sento qualcuno gridare, farò con comodo» mormorò. «Perché non alzerò un dito per salvare quell’animale.»
Quando l’agente si richiuse la porta alle spalle, Jasper arretrò ancora. Non era più tanto presuntuoso, non era più pronto a sbeffeggiare Amarok. Era solo, e lo sapeva. «Allora… alla fine sei venuto a vendicarti?» gli chiese, incerto.
Amarok non aveva voglia di sedersi. Aveva troppa adrenalina in corpo. Ma si sforzò di apparire disinvolto mentre si avvicinava all’unico mobile della stanza: una sedia di metallo assicurata al pavimento. Era posizionata di fronte alla scrivania dall’altra parte del plexiglass, così si sedette di lato, per vedere Jasper. «Dipende…»
«Da…»
«Te.» Amarok non aveva mai provato niente di simile all’odio che sentiva per l’uomo che aveva torturato Evelyn per tre giorni per poi tagliarle la gola e lasciarla lì a morire quando lei aveva solo sedici anni, quindi non era facile parlare in modo civile. Forse era per questo che, dopo averlo arrestato, non era mai andato a fargli visita! Gli investigatori di Peoria gli avevano chiesto se fosse disposto a cercare di ricavare un po’ più di informazioni da quell’uomo, ma Amarok aveva lasciato fare a Evelyn, che comunque in quello era più brava di lui.
Il motivo? Non si fidava di se stesso.
«Perché dipende da me?»
«Se mi dai quello che voglio potremmo non avere problemi. Oggi.»
Jasper lo stava squadrando. Amarok ne era consapevole. Non aveva l’impressione che Jasper avesse esattamente paura di lui. Quel delinquente non sapeva cosa fosse la paura, o almeno non la percepiva come le persone normali. Ma era chiaro che capiva di non avere in pugno la situazione, anche se non era più ammanettato. Visto che Amarok conosceva bene il soggetto, Jasper non poteva usare le sue solite armi: sorpresa, bugie, inganno, adulazione, manipolazione. Nemmeno la forza bruta sarebbe stata un vantaggio come quando la usava per perseguitare le donne; Amarok era più robusto e probabilmente anche più forte. «Cosa vuoi?»
Evelyn aveva parlato ad Amarok degli occhi di Jasper, gli aveva detto quanto fossero privi di emozione, di ogni sorta di umanità. Diceva che era comune tra gli psicopatici. Visto che non provavano le stesse emozioni delle altre persone quella mancanza di sentimenti si rivelava spesso nello sguardo, che appariva spento, come quello di uno squalo.
Ma Amarok fu sorpreso nel vedere giusto l’esatto opposto. Stentava a credere che una persona così contorta potesse sembrare tanto normale, anche nello sguardo. Secondo la sua opinione non c’era nulla in Jasper che avrebbe potuto mettere in guardia chiunque sul fatto che fosse un predatore letale. Senza dubbio quello era parte del motivo per cui era stato un assassino così efficace. Era bello e muscoloso, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Non sembrava affatto pericoloso. «Informazioni.»
L’espressione di Jasper si fece sospettosa. «Va’ al diavolo. Non confesserò niente, e non dirò dove sono sepolte quelle donne.»
«Riguarda tutt’altro.»
«Cosa vuoi ancora da me?»
«Qualcuno ha preso Evelyn.»
L’altro rimase di sasso. «Preso? Vuoi dire che è stata rapita?»
Sembrava realmente allibito. Quello era uno dei motivi per cui Amarok era andato da Jasper; voleva essere sicuro che non fosse coinvolto in alcun modo. «Le prove portano a questo.»
«Quali prove?»
Jasper non sembrava compiaciuto dalla notizia del rapimento. Probabilmente aveva ancora in mente di uccidere Evelyn con le sue stesse mani e non voleva che qualcun altro lo privasse di quel piacere. «Non mi va di parlarne con te» disse Amarok in tono piatto. «Voglio solo sapere se qui dentro hai sentito qualcosa, qualcuno che diceva di avercela con lei, che minacciava di fargliela pagare, che si vantava di vendicarsi a breve o cose del genere.»
Jasper cominciò a ridere. «Lo dicono tutti. La maggior parte degli uomini qui dentro sono dei sadici!»
«Ti sto chiedendo se ti viene in mente qualcosa di particolare, se c’è qualcosa che dovrei sapere.»
«Dio mio! Non sai chi l’ha presa! Non hai neanche il minimo indizio, altrimenti non saresti qui a parlare con me.»
Amarok serrò la mascella. «Hai sentito qualcosa o no?»
«Cosa me ne viene in tasca se te lo dico?»
«Potrei renderti la vita qui dentro molto più facile.» Odiava contrattare con il diavolo, ma in quel momento era così disperato che avrebbe venduto l’anima, se fosse stato necessario. Non aveva il lusso del tempo, aveva bisogno di trovare qualche appiglio.
Jasper cominciò a camminare su e giù per la piccola stanza. «Dimmi cos’è successo. Devi darmi qualche indizio, qualcosa che possa rinfrescarmi la memoria o che mi dia un’idea.»
Amarok era tentato di rifiutare di nuovo. Ma visto che in un certo senso aveva già ceduto confidandosi con Jasper, pensò che poteva anche mettere da parte l’orgoglio. Avrebbe fatto di tutto per salvare Evelyn e la loro bambina, e anche se il colpevole poteva essere qualsiasi stronzo antisociale che lei aveva studiato negli anni – o anche solo consultato marginalmente, magari valutandone il grado di pericolosità o altro – era a Hilltop da tre anni. Era più probabile che il rapimento avesse a che fare con qualcuno legato a Hanover House. «Questo pomeriggio dovevamo incontrarci al Moosehead, e non si è presentata.»
«Quindi…»
«Quando non sono riuscito a raggiungerla al telefono, sono andato a casa per vedere cosa stava succedendo.»
«E…»
Amarok continuò, alquanto riluttante. «E quando sono arrivato, ho trovato il contenuto della sua borsa sparso in giardino e una scarpa sul viale, appena fuori dalla macchina. Ha parcheggiato ed è scesa, ma non è riuscita a entrare in casa.»
«Qualcuno l’ha presa in pieno giorno.»
Amarok sentì una sorta di ammirazione nella sua voce, ma cercò di ignorarla. «In questo periodo dell’anno c’è luce fino a tardi, ma sì… in un momento in cui non ero a casa.»
«Chiunque l’ha presa ti conosce» disse Jasper, semplicemente.
«Sa dove viviamo, ma non è difficile scoprirlo, non in un paese piccolo come Hilltop. Tu ci sei riuscito senza tante difficoltà.»
«E anche Lyman Bishop» disse. «Ha avuto il vostro indirizzo da quella cameriera che ha ucciso e appeso al centro del paese per distrarti e poter arrivare a Evelyn, ricordi?»
Come poteva dimenticarlo? Conosceva da anni Sandy e la sua famiglia. Non avevano perdonato Evelyn per aver portato degli uomini così pericolosi in città. «Non l’hai sentito?»
«Cosa?»
«Gli è venuta un’emorragia cerebrale per le scazzottate che gli hai dato. Adesso è quasi un vegetale.»
All’inizio Jasper sembrò compiaciuto all’idea di aver conciato a quel modo Bishop, poi però serrò gli occhi, scettico. «Chi lo dice?»
Amarok si alzò. «È documentato. Un’emorragia cerebrale si vede con una risonanza magnetica. Hanno le ecografie.»
«Magari ce l’ha avuta davvero un’emorragia. Ma non significa che sia del tutto immobilizzato. Potrebbe aver esagerato gli effetti. Io avrei fatto così. E anche se non avesse finto di stare più male del dovuto le emorragie hanno risultati diversi sulle persone, c’è chi viene colpito di più e chi meno. Potrebbe essere migliorato fino al punto da tramare vendetta.»
Le possibilità che fosse vero erano remote, ed era per questo che Amarok non aveva preso seriamente in considerazione Bishop quando ci aveva pensato, poco prima. Ma forse aveva scartato la possibilità troppo presto. Il Fabbricante di Zombi non era un normale psicopatico. Era stato un ricercatore oncologico, e aveva un quoziente intellettivo altissimo. Era possibile che avesse ancora abbastanza cellule cerebrali per scappare e andare a cercare Evelyn? Oppure, come aveva suggerito Jasper, aveva esagerato l’invalidità fin dall’inizio per evitare di essere rinchiuso in prigione per il resto dei suoi giorni?
Se era così, poteva aver mantenuto un profilo basso per tutto quel tempo, in attesa del momento propizio per colpire; il che significava che aveva avuto un anno e mezzo per riprendersi e prepararsi.
Se dietro alla sparizione di Evelyn c’era lo zampino di Bishop allora lei si trovava ancora più in pericolo di quanto Amarok avesse pensato. Lyman Bishop usava un rompighiaccio per praticare alle sue vittime una lobotomia frontale. Era per questo che gli avevano affibbiato quel soprannome. A volte rimestando il cervello delle vittime finiva per ucciderle; altre volte sopravvivevano, e rimanevano gravemente menomate. Il suo obiettivo non era mai stata la morte. Quello che agognava era una sottomissione totale, un controllo totale, un asservimento totale. «Credi che sia lui?»
«Di sicuro non è uno che sta qui dentro, a meno che qualcuno non sia fuggito e io non lo sappia.»
«Non tutti gli psicopatici sono rinchiusi in cella. Ci sono ancora molte persone come te in giro» disse Amarok, ironico. «Evelyn è stata parecchie volte sui notiziari quando si batteva per aprire questa struttura. La sfida avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualcun altro. Non dev’essere necessariamente Bishop.»
«Vero. Ma devi chiederti: chi altro vorrebbe arrivare a Evelyn più di Bishop?» Jasper pensò alla domanda che aveva appena posto, serrando le labbra… e poi rispose. «Solo io.»
Anchorage, Alaska – martedì, ore 19.00
Evelyn cercò di rimanere calma. Chiunque l’avesse rapita non era Jasper. Non poteva essere lui; era in prigione. E lei non temeva così tanto nessun altro. Questo la consolava, in parte.
Quando non successe niente e non arrivò nessuno per un po’ di tempo cominciò pian piano a rilassarsi, nonostante le domande che le ronzavano in testa. Chi l’aveva rapita? Che intenzioni aveva? E perché non le aveva parlato? Cosa stava aspettando?
Non aveva risposte, e l’essere all’oscuro di tutto la stava facendo impazzire. Per tentare di occupare la mente cominciò a risolvere problemi di matematica. «Se Suzie vuole scaricare un frigorifero dal retro del furgone e il furgone è alto novantasei centimetri da terra e la rampa è lunga un metro e sessanta, qual è la lunghezza della distanza da dove la rampa tocca terra fino al retro del furgone?»
Lo risolse per poi farne degli altri, che richiedevano così tanta concentrazione da impedire a pensieri più spaventosi di farsi largo. Ma aveva saltato la colazione, era stata rapita prima di pranzo e il suo carceriere non le aveva dato una cena sufficiente, quindi aveva ancora fame.
Tornò al vassoio che le aveva lasciato quell’uomo poco prima e mangiucchiò il torsolo della mela che aveva gettato. Era buono, anche se era troppo poco per sfamarla.
Aveva il corpo indolenzito per essere stata seduta a terra. Era rimasta accanto alla porta e voleva così tanto uscire che non aveva osato spostarsi per paura di sprecare anche solo una possibilità. Ma cominciava a credere che fosse solo una perdita di tempo. Quella porta non si sarebbe aperta così presto. Il suo rapitore o i suoi rapitori non sembravano essere lì intorno. E se anche ci fossero stati, allora erano davvero bravi a ignorare la sua presenza in quella che un tempo era stata una cella frigorifera.
Perché qualcuno avrebbe dovuto rapirla senza farle del male?, si chiese. Volevano un riscatto?
Sperò di essere stata rapita per soldi. Se era così magari Amarok poteva racimolare il denaro per riportarla a casa. Non erano benestanti, ma avevano entrambi un lavoro decente. E poteva andare a chiedere aiuto alla sua famiglia e agli amici. I genitori di Evelyn avevano messo da parte un bel gruzzolo. Da un lato odiava il pensiero che qualcuno dovesse sacrificarsi per liberarla, in particolare i suoi dopo tutto quello che avevano passato quand’era scomparsa per tre giorni al liceo, ma se l’unica cosa che il suo aguzzino voleva erano i soldi forse non avrebbe dovuto passare l’inferno che aveva già vissuto una volta.
Decise di credere che chiunque l’avesse fatta prigioniera stesse negoziando con Amarok, che lui stesse cercando di liberarla, e si alzò da terra per andare verso il letto. Era così sfinita che riusciva a malapena a muoversi. La stanchezza era diventata un problema al sesto mese di gravidanza. Non le era mai capitato di voler posare la testa sulla scrivania per schiacciare un pisolino a metà giornata, ma nell’ultima settimana lo aveva fatto due volte.
«Ce la caveremo» sussurrò alla sua creatura mentre si accarezzava il ventre. «Dobbiamo solo essere intelligenti. Mangiare ogni volta che possiamo. Riposare tanto. Conservare le forze per il momento giusto.»
Sentì il calorifero accendersi, l’aria calda che soffiava attraverso il piccolo condotto sul soffitto, e si sentì lievemente rassicurata. Le avevano dato solo una coperta sottile. Era di conforto sapere che al di là di tutto non avrebbe patito il freddo. Se così fosse stato non avrebbe potuto rivolgersi a nessuno. Doveva sopportare quello che qualcuno decideva dall’esterno, anche riguardo alla temperatura.
Si stese a letto, sollevò la coperta sul corpo e si lasciò andare a un sonno agitato.