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Anchorage, Alaska – mercoledì, ore 18.00
Amarok era così felice di essere a casa. Era andato via dall’Alaska solo due volte in vita sua ed Evelyn era stata il motivo per entrambi quei viaggi. La prima volta stava cercando di trovare Jasper Moore, così era volato fino a San Diego per fare visita ai suoi genitori. Aveva sperato di farli parlare, e alla fine era riuscito a carpire qualche informazione, abbastanza da fargli capire che avrebbero potuto dire di più se solo avessero voluto. Ma quell’incontro aveva portato inesorabilmente al loro omicidio. Si sentiva ancora male per quello che era successo dopo che se n’era andato. Anche se avevano aiutato e supportato un noto assassino ed era stato quell’assassino a rivoltarglisi contro, Jasper era loro figlio. Amarok poteva capire il senso di rifiuto che li aveva portati a credere alle bugie che gli aveva raccontato Jasper.
Quella faccenda era stata un’esperienza molto forte. E adesso, solo due anni più tardi, Amarok stava affrontando qualcosa di ben peggiore.
Sentiva le gambe e la schiena rigida mentre trascinava il bagaglio fuori dall’aereo. Odiava essere rinchiuso, non capiva perché tutti volessero vivere in una grande città, piena di traffico, persone e inquinamento. Aveva pensato che si sarebbe sentito malissimo stipato in un aereo, ma dopo un lungo scalo a Denver e un ritardo di circa tre ore aveva dormito dal momento in cui erano decollati finché non erano atterrati. L’assistente di volo alla fine lo aveva svegliato quando tutti ormai erano scesi.
Subito dopo essere uscito dalla passerella, prese il cellulare comprato a Minneapolis e chiamò la stazione di polizia.
Shorty rispose al primo squillo. «Ufficio del sergente Murphy.»
«Dov’è Phil?» chiese lui senza preamboli.
«Ad Anchorage, dove gli hai detto di rimanere.»
«È ancora a casa della signora Southwick?»
«Esatto. Stanotte ha dormito in macchina ed è rimasto lì ad aspettare che arrivasse.»
Phil gli era fedele quasi come Makita. «Non è mai tornata a casa?»
«No.»
«Quand’è stata l’ultima volta che l’hai sentito?»
«Più o meno mezz’ora fa. Voleva sapere se ti avevo sentito.»
«E i vicini di casa? Quelli che abitano di fronte? È riuscito a parlare con loro?»
«No. Torneranno fra due settimane.»
Amarok si tappò un orecchio per poterlo sentire oltre gli altoparlanti dell’aeroporto. «Come fai a saperlo?»
«Phil ha parlato con il postino. Gli ha detto che terranno la posta da parte finché non tornano dalla California.»
Di tutti i momenti che avevano per partire… «Phil riesce a procurarmi il numero di cellulare di tutti quelli della famiglia?»
«E come fa?»
«Chiedendo in giro. È quello che fanno i poliziotti.» Di solito Amarok non era così irascibile, ma non si era mai trovato in una situazione che lo mettesse tanto alla prova.
«Amarok, da quello che mi ha detto Phil questo non è quel tipo di quartiere. È una strada con una manciata di case, alcune distano quattrocento metri l’una dall’altra. La gente che vive così sparpagliata di solito non condivide molte informazioni. Pensano agli affari propri.»
«Bene. C’è una macchina nel vialetto dei vicini? Se riesco ad avere una targa potrei inserirla nel database della motorizzazione.»
«Non appena arriva gli chiedo se ci ha pensato.»
«Sta tornando?»
«Ti aspettavi che rimanesse di più? È fuori da ventiquattro ore. È esausto e deve dare da mangiare a Makita.»
Amarok lasciò cadere il bagaglio ai suoi piedi mentre aspettava la navetta. «Makita è con lui?»
«Sì, il cucciolo voleva andare.»
«Makita vuole sempre andare.»
«Mi sa che era un po’ seccato che l’hai lasciato a casa.»
«Perché non lo faccio spesso. E Sigmund?» L’amato gatto di Evelyn non voleva mai staccarsi dal divano.
«Se ne sta occupando Molly.»
«Lo apprezzo.»
«Nessun problema. Allora stai venendo qui?»
«Non ancora.»
«Dove stai andando adesso?»
«A casa di Edna Southwick.»
«Perché? Te l’ho detto, Phil è appena andato via da lì.»
«Va bene. Adesso riprendo da dove ha lasciato lui.»
«Per fare cosa?» chiese Shorty.
«Do un’occhiata in giro.»
«Cosa puoi fare più di Phil?»
Amarok si era già introdotto in una casa; non si faceva problemi a rifarlo, non se questo significava trovare Evelyn. Sperava che per quando sarebbe andato in galera Evelyn sarebbe stata salva. «Dipende da quanto sono disposto a spingermi oltre, no?»
«Amarok, sta’ attento.»
«Sto sempre attento, Shorty. Lo sai.»
Il proprietario del Moosehead esitò, come se volesse aggiungere altre raccomandazioni, ma alla fine ci ripensò. «Okay, ma prima che tu vada c’è dell’altro.»
Amarok prese il bagaglio. Vedeva avvicinarsi la navetta. «Non dirmi che hai sentito il detective Lewis.»
«Nemmeno una parola.»
La cosa non lo sorprese. Se Lewis aveva i tabulati del telefono di Virtanen stava proseguendo con l’indagine per conto suo. Amarok sperava che coinvolgesse almeno la polizia di Anchorage, così avrebbe avuto un avamposto in Alaska. «Allora che c’è?»
«Mentre eri via Jasper se l’è vista brutta.»
«In che senso?»
«Se l’è meritato, se vuoi che te lo dica. Sai come si dice, il karma è una brutta bestia.»
Amarok desiderava tanto una doccia o qualcos’altro che lo rinvigorisse. Si sentiva uno straccio e soffriva il fuso orario anche se era riuscito a schiacciare un pisolino. «Non mi stai dicendo granché, Shorty.»
«Alcuni detenuti a Hanover House l’hanno aggredito nelle docce. L’hanno conciato davvero male.»
«È morto?»
«Non proprio. Ma ci è mancato poco. E forse non è ancora fuori pericolo.»
«Dove si trova adesso? All’ospedale di Anchorage?»
«No, al centro medico della prigione.»
«Se è messo così male, perché non l’hanno trasferito?» Ne avevano la facoltà. Avevano dovuto trasportare in elicottero una vittima che era stata accoltellata poco dopo l’apertura di Hanover House, quindi si sapeva che potevano farlo.
«Da quello che ho capito lo stavano per fare, ma il medico dello staff pensava di poter gestire la situazione. Cioè, senza mettere in pericolo la gente portando un noto serial killer in una stanza senza sbarre. E pare che sia riuscito a salvare la vita a quel bastardo, perché respira ancora.»
Jasper non aveva ucciso solo estranei; aveva ucciso due persone che Amarok aveva conosciuto e alle quali teneva, due persone di Hilltop per le quali si era sentito in qualche modo responsabile, essendo il poliziotto della città. E poi c’era la sua storia con Evelyn, ovviamente. Amarok non avrebbe mai perdonato Jasper nemmeno per quello. «Anche se dovrebbe dispiacermi, non è così.»
«Non te l’ho detto perché pensavo che ti saresti preoccupato per lui. Gli si sta ingrossando il cervello, quindi lo tengono sedato, ma quando stamattina si è risvegliato continuava a chiedere di te.»
«Di me?»
«Be’, credono che sia questo che voleva dire. Ha la mandibola rotta, quindi gliel’hanno serrata, è difficile capirlo.»
«Chi te l’ha detto?»
«Il dottor Ricardo ha chiamato più o meno un’ora fa.»
«Cosa può volere Jasper adesso?»
«Crede di poterti dire dove si trova Evelyn.»
Amarok trattenne il respiro. «Come?»
«Non ne ho idea. E nemmeno Ricardo.»
La vecchia nemesi di Evelyn doveva mentire per forza, giusto?
Sì. Amarok lo sapeva. Poi però ripensò al modo in cui Jasper aveva guidato l’indagine verso Lyman Bishop fin dall’inizio. «Ricardo gli crede?»
«Non del tutto. Visto lo stato attuale in cui si trova, Moore potrebbe delirare. Oppure ci sta prendendo in giro. Sai quant’è furbo, quanto desidera essere al centro dell’attenzione. Ricardo ha detto che potrebbe cercare di mettersi in mezzo, di far parte della cosa, per sentirsi di nuovo importante.»
«Per non parlare del fatto che se sa qualcosa e vuole davvero dare una mano potrebbe dirlo a qualcun altro.»
«È una grande incognita.»
«Stai dicendo che non lo farà, Shorty? Perché no? Perché proprio io?»
«Bella domanda, ma Ricardo non ha una risposta neanche per questo.»
Amarok sentì il rumore dei freni della navetta e le porte si aprirono. «Non può sapere tutto» disse Amarok, scettico. «Sono stato lì fuori, ho fatto tutto il possibile per trovarla, e ancora non so dove sia.»
«Già. Probabilmente sono tutte cavolate.»
«Esatto.»
Quelli che erano in attesa con lui cominciarono a salire, così Amarok sollevò il bagaglio. Non sarebbe andato a Hanover House. Era meglio rimanere ad Anchorage e seguire la pista che aveva trovato tramite la posta di Emmett. Edna Southwick era la sua migliore possibilità per ritrovare Evelyn.
O no? Jasper Moore non doveva per forza tenere a Evelyn per volerla salvare. Era ossessionato da lei, ed era più o meno la stessa cosa, anche se molto più sinistra.
E aveva già avuto ragione prima.
Amarok imprecò e si lasciò cadere su un sedile della navetta. Lo infastidiva pensare a quanto tempo avrebbe richiesto, ma non appena raggiunse il suo furgone e uscì dall’aeroporto si diresse a Hilltop. Se Jasper stava mentendo, se gli stava facendo perdere ore preziose, Amarok avrebbe dovuto trattenersi dall’uccidere quel coglione con le sue stesse mani.
Hilltop, Alaska – mercoledì, ore 18.35
Quando alla fine l’infermiera tornò nella stanza per misurargli la pressione Jasper allontanò il braccio con uno strattone. Nessuno lo ascoltava, si fidava di lui, gli credeva. E se solo lo avessero fatto lui avrebbe potuto salvare Evelyn. «Lui sta arrivando?»
L’infermiera si portò le mani ai fianchi, guardandolo con aria di rimprovero per averle impedito di fare il suo lavoro. «Sai che non posso capire una parola di quello che dici. Adesso dammi il braccio.»
«Amarok!» gridò lui. Anche questo gli uscì confuso, visto che non poteva aprire la bocca.
Ma Jasper capì che l’infermiera intuì quello che voleva quando disse: «Da quello che so sta arrivando, okay? Sei contento adesso? Mi fai misurare la pressione? Perché a una certa ora vorrei andare a casa, e ho ancora un sacco di altre cose da fare.»
«Sarà qui a breve?» le chiese, concedendole di prendergli il braccio.
Anche se non gli rispose e non tentò di rassicurarlo, Jasper si aggrappò alla promessa che gli aveva già fatto – sta arrivando – mentre la fascia per la misurazione della pressione si stringeva attorno al suo bicipite.
«Credo che ce la farai» gli disse mentre annotava il risultato sulla sua cartella clinica e gli strappava di dosso la fascia.
Jasper non si era reso conto che la sua sopravvivenza fosse stata messa in discussione, non da quando, parecchie ore prima, aveva saputo che gli ufficiali Cadiz e Perez alla fine si erano intromessi per sedare la lite, prima che Lester potesse infilzargli quel coltello nel cuore. Non era stato stuprato o accoltellato, ma il dottore gli aveva somministrato così tanti farmaci che aveva continuato a perdere e riprendere conoscenza per tutto il giorno, senza interagire molto con nessuno, se non con lo staff medico che si trovava nella stanza quand’era sveglio, per supplicarli di chiamare Amarok.
«Quando arriva?» chiese, pressandola di nuovo.
Lei sospirò mentre riavvolgeva la fascia. «Non ti arrendi, eh?»
«Posso salvare Evelyn!» insistette lui.
«Riesco a capire il senso solo di qualche parola. Ti dico cosa faremo.» Rimise la fascia nella custodia. «Ti porto un foglio di carta e una penna.» Sollevò una mano. «So che non dovresti avere una penna, ma tornerò a riprenderla prima di andarmene.»
«Puoi fidarti di me» insistette Jasper.
Lei fece una smorfia. «Non mi fiderò mai. Ma visto come stai non credo che sarai molto pericoloso. Se solo proverai ad alzarti cadrai per terra. Anzi, farai fatica anche a scrivere, ma almeno puoi trasmettere il messaggio che muori dalla voglia di dare al sergente. Magari poi ti rilasserai. Non ti fa bene cercare di rimanere sveglio, sai. Ti sei preso una bella batosta.»
Jasper odiava pensare a come sarebbe stata la vita quando lo avrebbero fatto uscire di lì, se mai avrebbe subìto una seconda aggressione. Come minimo avrebbero sparlato di lui.
Ma l’avrebbe fatta pagare ai carcerati che lo avevano aggredito e ai poliziotti che avevano permesso che succedesse.
Si disse che se ne sarebbe preoccupato più tardi, quando si sarebbe ripreso, e si adagiò sul cuscino. L’infermiera aveva ragione. Non sarebbe stato facile usare una penna nelle sue condizioni. Era così debole. E aveva così tanti tubicini che gli entravano e uscivano dal corpo. Ma almeno non doveva sforzarsi di aprire gli occhi ogni volta che qualcuno entrava nella stanza o preoccuparsi di perdersi il sergente. «Okay.»
Mentre aspettava che l’infermiera tornasse combatté il richiamo del sonno, che minacciava di sopraffarlo.
Proprio quando stava chiamando a raccolta le forze per cominciare a gridare perché pensava che si fosse dimenticata di lui o non le importasse abbastanza per mantenere la promessa, lei entrò nella stanza.
«Ecco qui.» Posò un foglio di carta e una penna sul tavolino semovente, che Jasper si posizionò sulle ginocchia.
«Grazie.»
Gli sollevò il letto in posizione seduta e gli disse che aveva circa venti minuti prima che tornasse a riprendere la penna, poi uscì di corsa.
Quando si piegò in avanti per scrivere vide dei puntini riempirgli la vista. Sapeva cosa gli avrebbe chiesto Amarok. Il sergente avrebbe voluto sapere perché avrebbe dovuto fidarsi delle informazioni che aveva da dargli, quindi doveva comunicargli un bel po’ di cose. Come Chastity avesse capito che poteva trarre più informazioni parlando con gli altri pazienti al Beacon Point che con i medici. Il fatto che il tizio della stanza accanto avesse detto di aver sentito Bishop e l’addetto alle pulizie discutere di un magazzino abbandonato nell’area industriale di Anchorage nei giorni precedenti la fuga di Bishop. E, soprattutto, il fatto che in quella conversazione avessero fatto il nome di Evelyn.
Ma Jasper riuscì a scarabocchiare solo poche parole – e non era certo che nemmeno quelle fossero comprensibili – prima di svenire: vecchio magazzino Fedex ad Anchorage.
Anchorage, Alaska – mercoledì, ore 23.00
Non era ancora buio, ma Ada sentiva che quello era il momento migliore per andare alla fabbrica. Vedeva abbastanza bene, tanto da non dover fare troppo affidamento sulla torcia. Un raggio di luce che ondeggiava fuori dalla finestra avrebbe potuto attirare troppo facilmente l’attenzione di Edmonson; non voleva accenderla, a meno che non fosse stato assolutamente necessario. Nel frattempo il tramonto le forniva una certa copertura.
Quando uscì dalla macchina non poté fare a meno di ricordare l’avvertimento di suo marito di non tornare lì da sola. Gliel’aveva ripetuto quando avevano parlato quella mattina, e, ancora una volta, gli aveva promesso che non l’avrebbe fatto. Ma non aveva ancora avuto notizie di sua madre. E nemmeno le sue sorelle.
La polizia era andata a casa di sua madre alle sei e non aveva trovato niente che indicasse ci fossero stati problemi. In quel momento lei era alla clinica veterinaria – c’era stata un’emergenza poco prima che uscisse, così era rimasta per dare una mano – ma aveva detto loro dove trovare le chiavi, quindi erano potuti entrare. Adesso che avevano perquisito la casa le credevano circa il fatto che non ci fossero prove che Edna avesse comprato un biglietto aereo o fosse andata in crociera, avevano visto con i loro occhi che i suoi trucchi e la valigia erano ancora lì. Adesso stavano cercando l’auto.
O almeno così avevano detto. Ada non li aveva più sentiti da quando avevano finito, alle sei e mezza. Temeva che il poliziotto addetto all’indagine fosse semplicemente tornato dalla sua famiglia dopo aver lasciato l’abitazione di sua madre e avesse lasciato il resto del lavoro per l’indomani mattina.
Cosa poteva fare? Quell’uomo non stava gestendo la situazione con lo stesso grado di allarme perché non era sua madre a essere scomparsa. Questo, più di tutto il resto, era quello che l’aveva convinta che doveva fare tutto il possibile da sola. Se lì alla fabbrica avesse trovato qualcosa di sospetto – la macchina di sua madre, la sua borsa o qualche vestito – forse avrebbero preso la situazione più seriamente. Forse sarebbero anche riusciti a ottenere un mandato.
Il pensiero che Edna fosse stata così depressa da andare da qualche parte in auto per suicidarsi e non essere ritrovata da Ada, le sfiorò la mente, ma si rifiutò di prendere in considerazione quella possibilità. Sua madre si era sentita persa senza suo padre, ma non si era suicidata. Doveva esserci un’altra spiegazione.
Per calmare i pensieri doveva accertarsi di non aver motivo per sospettare di quello strano omuncolo che aveva preso in affitto l’allevamento di polli della madre, perché i due incontri che aveva avuto con lui l’avevano già messa decisamente a disagio.
Guardò in entrambe le direzioni prima di attraversare la strada, ma in zona non c’erano altre macchine o furgoni, probabilmente perché non c’erano nemmeno case lì vicino. Anche se questo le infuse il coraggio per scivolare sul retro dell’edificio e dare un’occhiata ai pollai e anche alla fabbrica – se lo avesse ritenuto sicuro – e tornare alla sua macchina senza essere vista, significava anche che non poteva contare sull’aiuto di nessuno, se ne avesse avuto bisogno.
Però aveva il cellulare con sé. Poteva chiamare la polizia se si fosse trovata nei guai. E se non fossero arrivati abbastanza in fretta? Aveva portato una pistola. Non era una tiratrice particolarmente brava, a differenza di suo marito, ma non pensava sarebbe stato un problema se si fosse ritrovata a pochi metri dal bersaglio.
Aveva indossato un paio di jeans neri, un dolcevita nero e scarpe da tennis nere, aveva raccolto i capelli in una coda e assicurato la Glock 9 millimetri di suo marito alla vita – non avrebbe mai portato il fucile, che era molto più pesante – poi aveva messo in tasca il cellulare e quando era scesa dalla macchina aveva impugnato la torcia con la mano destra. Terrorizzata all’idea che John Edmonson sentisse il rumore dell’auto o che avrebbe visto la luce dei fanali se si fosse avvicinata troppo aveva parcheggiato lungo la strada, più o meno a quattrocento metri di distanza. Ma correva per otto chilometri ogni giorno per tenersi in forma. Poteva tornare indietro velocemente, se fosse stato necessario scappare. Di sicuro sarebbe riuscita a seminare l’uomo che viveva nell’allevamento di polli, visto che zoppicava.
Corse lungo la strada, i piedi che producevano un lieve rumore sulla terra mentre lei si guardava intorno per vedere se ci fosse movimento.
Non c’era nessuno nei paraggi, nessun cenno di vita, finché non spaventò una cerva che stava pascolando nel campo alla sua sinistra con un cerbiatto. Gli animali sollevarono di scatto la testa e la cerva schizzò via, producendo un rumore che le fece quasi venire un infarto.
Non appena vide il perimetro del recinto, rallentò fino a camminare e controllò di nuovo alle sue spalle. Non c’erano garanzie che John Edmonson fosse a casa. Poteva essere uscito a farsi una birra o altro, e se era così, poteva sorprenderla da dietro.
Per fortuna non accadde. Non arrivò nessuno.
Quando raggiunse il cancello vide che era chiuso con un lucchetto. Le sembrò strano che il signor Edmonson fosse così attento alla sicurezza, ma forse lo stava giudicando paragonandolo a suo marito, che pensava di poter gestire qualsiasi cosa. O forse nascondeva qualcosa di illegale, anche se non aveva niente a che vedere con sua madre…
Si sollevò in punta di piedi, cercando di vedere se il furgone che aveva notato in precedenza fosse ancora lì. Ma la tettoia era lontana, su un lato, e con il buio che avanzava e le piante rampicanti che avevano invaso la struttura non poteva esserne sicura.
Comunque vide una fievole luce nell’edificio, quindi probabilmente Edmonson era a casa.
Avrebbe dovuto arrampicarsi sulla recinzione per entrare nella proprietà, ma sarebbe stata un’imprudente a farlo lì, sulla parte anteriore.
Fece il giro fino al retro, lontano dalle finestre, e anche se riuscì a scavalcare atterrò in malo modo, torcendosi una caviglia e lasciandosi sfuggire la torcia.
Trattenne un’imprecazione mentre si controllava il piede per vedere se poteva ancora caricarci il proprio peso. La caviglia le faceva male, ma riusciva a camminare. Anche se era una buona notizia stava cominciando a pentirsi di essere andata fin lì. Sul retro sembrava più buio, per via di tutti quegli alberi che oscuravano gli ultimi raggi del sole.
Il dolore per la caduta cominciò a irradiarsi su per la gamba.
Si accucciò con una smorfia, cercando tentoni la torcia tra le erbacce, e sospirò sollevata quando riuscì a trovarla. Per qualche miracolo non si era sparata scavalcando la recinzione, ma a un certo punto la pistola le aveva premuto forte contro l’addome, ed era per quello che era atterrata male.
Rimise a posto la Glock e avanzò.
I cani cominciarono ad abbaiare non appena si avvicinò al pollaio in cui erano rinchiusi. Anche se si era aspettata la loro presenza e quella reazione, il rumore le sembrò amplificato, come se avesse fatto scattare un allarme nella notte silenziosa. C’erano un sacco di cose che potevano far abbaiare dei cani: una puzzola, un opossum, un lupo, per dirne alcuni. A volte si azzuffavano anche tra loro. Non pensava che quella reazione avrebbe necessariamente fatto scoprire la sua presenza nella proprietà.
Eppure sperava che Edmonson si fosse addormentato o stesse guardando la televisione e non avrebbe notato il baccano. Per ogni eventualità, doveva allontanarsi dai cani e tenersi nell’ombra, così anche se fosse uscito non si sarebbe reso conto di avere compagnia.
Stava correndo lungo la recinzione sul retro, spostandosi da un lungo pollaio in metallo al successivo e accendendo la torcia solo per pochi secondi ogni tanto mentre sbirciava dentro a ciascuno, quando sentì un rumore più definito.
Erano dei passi? Un movimento? Una voce?
Era difficile a dirsi con il caos che facevano i cani, ma all’improvviso si convinse di non essere più sola.
Merda! Con il cuore in gola si addossò contro il muro più vicino e sbirciò di tanto in tanto oltre l’angolo per vedere se riusciva a individuare Edmonson. Non lo vide, e non riusciva nemmeno a sentire nulla. I cani non si calmavano.
Chiuse gli occhi e attese, cercando di fare respiri profondi per placare il panico che la stava assalendo. Pregò che Edmonson andasse a controllare gli animali, pensasse che non c’era nulla di cui preoccuparsi e tornasse in casa. Nonostante la rabbia e la determinazione che aveva sentito solo pochi minuti prima non voleva proprio affrontarlo.
Un tonfo la fece sussultare. Era uno dei cani che cercava di uscire? Edmonson che spalancava la porta? Che cosa?
Cercò di guardare ancora una volta ma da dov’era nascosta non riusciva a vedere niente. Si stava facendo sempre più buio, il che non aiutava.
Guardò la recinzione, chiedendosi se dovesse scavalcarla e tornare alla macchina. Voleva andarsene di lì.
Ma non sarebbe stato saggio cercare di scappare adesso. E se lui l’avesse scoperta mentre si issava sulla rete? Non sarebbe riuscita a usare il cellulare o la pistola.
Era arrivata fino a quel punto, doveva affrontare la cosa.
Spostò la torcia sulla mano sinistra e prese la pistola. Quel peso solido nel palmo le infuse coraggio, anche se sembrava più pesante che mai. Quel coraggio, però, svanì in fretta mentre mille domande cominciarono a bombardarla: sarebbe riuscita a sparare a un altro essere umano? A Edmonson?
E sarebbe stata giustificata nel farlo?
Tutte le zone d’ombra che non aveva preso in considerazione quand’era stata così presa dal suo scopo, le si presentarono alla mente. Tecnicamente si trattava di violazione di domicilio. Come poteva sapere se l’affittuario di sua madre rappresentava una minaccia? Se gli avesse sparato prima che lui chiarisse la cosa avrebbe potuto uccidere un uomo innocente.
Ma se non gli avesse sparato subito e lui si fosse avvicinato abbastanza avrebbe anche potuto avere la meglio su di lei.
Sperò che avrebbe trovato le risposte quando sarebbe arrivato il momento. Intanto l’incertezza la bloccava ancora più della paura. Il palmo sudava contro l’impugnatura della Glock nonostante le piogge recenti e le basse temperature.
Una figura scura che sembrava zoppicare avanzò attraverso la proprietà diretta verso il pollaio dove c’erano i cani, così lei scivolò attorno all’edificio alle sue spalle e corse lungo altre due file di pollai. Poi però pensò un’altra cosa: e se Edmonson avesse liberato i cani?
Potevano inseguirla!
Aveva bisogno di un riparo, un posto dove non potevano raggiungerla. Poi, quando Edmonson sarebbe rientrato in casa, se ne sarebbe andata di lì a gambe levate.
Il letame dei polli le fece arricciare il naso mentre toglieva il catenaccio alla porta dell’ultimo pollaio, ma ignorò la puzza ed entrò. Era cresciuta con quell’odore; non era niente di nuovo. Almeno così non poteva essere vista e i cani non l’avrebbero sbranata se Edmonson li avesse liberati.
Quando richiuse la porta, bloccò all’esterno la poca luce rimasta, e si ritrovò totalmente al buio. Aveva la torcia, ma non voleva accenderla. Adesso che Edmonson sembrava vicino aveva troppa paura che la luce si potesse intravedere tra le fessure agli angoli della costruzione o attorno al tetto. Così si rannicchiò non troppo distante dalla porta, sbattendo le palpebre verso il nulla, in attesa di vedere cosa sarebbe successo.
Sembrò passare un’eternità, ma alla fine i cani si acquietarono.
Mentre la tensione abbandonava il suo corpo cominciò a sentirsi stupida per essersi spaventata tanto. Dov’era tutta la sua spavalderia, la certezza che sarebbe riuscita a sfuggire a un uomo come Edmonson? Anche se non ci fosse riuscita per via della recinzione aveva una pistola, santo cielo. Se anche lui aveva un’arma probabilmente sarebbe stata giustificata nell’usarla.
Fino a quel momento non aveva avuto motivo per essere così agitata. Non c’era niente di minaccioso in un uomo che usciva per controllare i cani. Per quel che ne sapeva, Edmonson non aveva fatto nulla di male.
Smetti di fare la bambina, si rimproverò. Ma attese altri quindici minuti prima di muoversi, per dargli tutto il tempo di tornare in casa.
Quando non sentì più nulla tranne il vento che frusciava contro le pareti ondulate della costruzione accese la torcia. Le vecchie gabbie di ferro che un tempo avevano contenuto quattro o cinque polli ciascuna e il macchinario per nutrirli erano ancora lì. E anche il letame che si era accumulato al di sotto. Il pollaio era abbastanza grande da poter nascondere con facilità la macchina di sua madre su un lato, anche tenendo tutto il resto al suo posto, ma non vide niente che indicasse che Edna fosse stata lì.
Stava per uscire quando vide una pala appoggiata alla parete con quello che sembrava letame fresco sul manico.
Si avvicinò e notò diverse chiazze di una sostanza scura appena oltre la porta.
Si piegò per vedere di cosa potesse trattarsi. Era difficile da capire tra lo sporco. Probabilmente olio per motori, decise. L’odore del letame di pollo era così fastidioso che non voleva trattenersi un minuto di più adesso che le sembrava sicuro andarsene.
Ma quelle chiazze la fecero esitare. Se lì dentro non era entrata nessuna macchina, perché avrebbe dovuto esserci dell’olio per motori?
Seguì le gocce fino al letame sottostante alla fila di gabbie più vicina. Qualcuno ci aveva scavato. La pila di letame non aveva la stessa forma conica delle altre. Perché? Perché qualcuno avrebbe dovuto sopportare quella puzza e sguazzare nella merda di gallina?
Si avvicinò e sollevò un po’ il fascio di luce della pila. Poi lasciò cadere pila e pistola e urlò.
Una mano umana sporgeva dal letame, e la pelle si stava staccando dall’arto.