5

Anchorage, Alaska – martedì, ore 22.16

Evelyn non si era mai sentita così esausta ma si impose di non dormire, non le sembrava sicuro. Doveva rimanere il più possibile vigile e fare qualcosa per quella situazione, non poteva starsene con le mani in mano e immaginare che Amarok o qualcun altro sarebbe riuscito a trovarla.

Ma cosa poteva fare?

Si pose quella domanda milioni di volte mentre fissava il soffitto. Sembrava non avere via d’uscita. Non c’erano una porta o una finestra da sfondare. E anche le pareti erano solide; non c’era modo di uscire di lì. Ma quando smise di pensare a un modo per fuggire e cominciò a cercare altre opzioni le venne un’idea. Aveva avuto a che fare con dei detenuti abbastanza a lungo da aver imparato che era possibile costruire un’arma con qualsiasi cosa. E un’impresa faticosissima come scavare un tunnel verso la libertà si poteva ottenere con un minimo progresso ogni giorno, se c’era abbastanza tempo.

Non aveva idea di quanto l’avrebbero tenuta prigioniera, ma nel caso in cui non si fosse trattato di una cosa semplice come un rapimento per ottenere un riscatto non avrebbe perso tempo rimanendo stesa su una branda sudicia, a preoccuparsi e ad aspettare che succedesse il peggio.

Quindi che opzioni aveva? Aveva conosciuto carcerati che scaldavano barrette di cioccolata da gettare addosso al personale carcerario o a membri di gang rivali, procurando loro gravi ustioni; carcerati che avevano costruito dei coltelli con dei giornali o anche con della carta igienica (rafforzata con della cartapesta); e altri ancora che avevano costruito delle lance con il telaio metallico dei letti. La maggior parte limavano semplicemente l’estremità di uno spazzolino da denti. Se gli si imprimeva abbastanza forza poteva essere letale, e sembrava il metodo più semplice. Ma a lei non avevano dato uno spazzolino, aveva solo un rotolo di carta igienica e nessun giornale.

Del resto non aveva nemmeno della cioccolata, figuriamoci qualcosa per scaldarla. La branda era l’unica speranza che aveva per creare un’arma, e sapeva già che non sarebbe stata elaborata come una lancia. Non poteva rimuovere parte del telaio, non senza un cacciavite. Poteva essere addirittura troppo ottimista a pensare di poter rimuovere una delle molle, ma aveva intenzione di provarci.

Sollevò il materasso e studiò le molle intrecciate tra loro. Non sarebbe stato facile, dal momento che poteva usare solo le mani, ma se fosse riuscita a districare uno degli spessi fili di ferro e lo avesse allungato per poi affilarlo levigandolo contro il pavimento, poteva strappare la fodera della giacca e avvolgere per bene il tessuto attorno a un’estremità per creare un manico.

Una volta finito, l’arma sarebbe sembrata un cacciavite. E se avesse strappato un pezzo di cucitura nel materasso avrebbe avuto anche un posto dove nasconderla. Poi, se il suo carceriere avesse cercato di torturarla o stuprarla, avrebbe almeno cercato di difendere se stessa e la sua bambina.

Serrò gli occhi mentre ricordi del passato le affioravano alla mente, e ancora una volta dovette ripetersi che non si trattava di Jasper. Certo, era incinta e quindi non era al cento per cento della forma, ma era anche più matura e più saggia.

Si mise a canticchiare una canzone per non pensare troppo mentre lottava per staccare una delle molle. Le sembrava di non mangiare da ore, ma concentrarsi su qualcos’altro, soprattutto qualcosa di così difficile, la aiutò a ignorare i morsi della fame.

Quando si arrese i pollici le sanguinavano vicino all’unghia. Era riuscita a svitare una estremità, ma non poteva completare l’opera. Era troppo debole, e aveva la nausea.

Riposizionò il materasso, prestando attenzione a piegare la parte della molla che adesso fuoriusciva, così non l’avrebbe bucato. Sperò che dormendo qualche ora il malessere mattutino sparisse, una volta sveglia. Ma non era troppo ottimista, dubitava che la nausea sarebbe passata se non avesse mangiato.

Aveva appena chiuso gli occhi quando sentì il solito rumore fuori dalla porta.

«Ehi?» Rotolò giù dalla branda, quasi inciampando nella fretta di raggiungere la fessura che si apriva.

«Dammi il vassoio.»

Il suo carceriere aveva parlato, ma non ne riconobbe la voce, il che era strano. Per essere una persona disposta a rischiare una lunga condanna per rapimento le sembrava che dovessero avere qualcosa in comune, una vendetta, com’era avvenuto con Jasper. Comunque era l’uomo che aveva visto prima. Lo capiva perché indossava gli stessi pantaloni mimetici e la T-shirt nera.

«Subito» ringhiò. «Altrimenti salterai la cena.»

Lei afferrò il vassoio contenente i semi della mela e lo fece scivolare attraverso il pertugio.

Lui rispose dandole una bottiglia d’acqua e una ciotola di plastica con dei fiocchi d’avena.

«Sembra più una colazione. È mattina?»

«È notte, per tua informazione. Ma questo non è un cazzo di McDonald’s.»

«Come faccio a sapere che ora è?»

«Non serve che tu lo sappia. Mangia quello che ti do e basta.»

«Va bene. Okay. Nessun problema.» Per avere le mani libere e salvare il cibo Evelyn posò tutto sul letto, per poi tornare di corsa verso la fessura. «Mi dici cosa ci faccio qui?» gli chiese. «Cosa devo aspettarmi? È per un riscatto?»

Lui non rispose.

«Chi sei?»

Le diede una banana, che lei accettò di buon grado. Era così affamata che avrebbe mangiato qualsiasi cosa, ma non aveva idea di che sapore avrebbero avuto i fiocchi d’avena, e pensò che la frutta poteva solo migliorarli.

Lui cominciò a chiudere la fessura, ma lei ci inserì le dita, pregando che non gliele frantumasse. «Aspetta! Mi servirà altra acqua. Questa non mi basta. Sono incinta. Devo avere acqua a sufficienza.»

Quando lui tornò con dell’altra acqua, Evelyn prese coraggio. Era la prima volta che riusciva a migliorare la situazione. «È possibile avere un’altra banana?»

«Togli le mani altrimenti ti trancio le dita» ringhiò.

Lei si ritrasse, mentre il suo aguzzino richiudeva la fessura e inseriva il catenaccio.

«Bastardo» sussurrò lei, scivolando a terra e aprendo la bottiglietta d’acqua. Per fortuna era abbastanza sicura che quello che stava per bere era pulito, visto che la bottiglia era sigillata. Le venne il voltastomaco al ricordo delle sostanze che Jasper le aveva fatto inghiottire quando l’aveva tenuta prigioniera in quella baracca. Aveva goduto così tanto nel vedere la sua repulsione, nell’averla in pugno.

Ma ovviamente erano successe cose ben peggiori…

Bevve un’intera bottiglietta, poi si alzò e cominciò a mangiare la banana con i fiocchi d’avena. Non avrebbe definito buono quel cibo. Sentiva che quei cereali erano preparati al momento, probabilmente tostati al microonde. Ma almeno placò i morsi della fame, e la banana ne migliorò il sapore.

Quando finì bevve solo metà dell’altra bottiglietta. Dopotutto non aveva idea di quando sarebbe tornato l’uomo con i pantaloni mimetici. Se quella era la cena avrebbe dovuto aspettare parecchio prima della colazione.

Hilltop, Alaska – martedì, ore 22.30

«Scusa?»

Preparato a tutto, Amarok divaricò le gambe, il piede destro leggermente dietro al sinistro, così non avrebbe perso l’equilibrio se uno dei Ledstetter lo avesse aggredito. Rimase in piedi con Makita a circa un metro e mezzo dalla porta. Erano brava gente, ma Davie, che era sulla cinquantina, e Junior, che aveva trentadue anni come Amarok, erano conosciuti per essere delle teste calde; non erano tipi da prendere alla leggera un insulto di quella portata. «Hai visto Evelyn?» ripeté Amarok.

«Hai centinaia di criminali, soprattutto serial killer – il peggio del peggio – ad appena otto chilometri da qui e ti presenti a casa mia dopo le dieci di sera con questa stronzata del rapimento?» chiese Davie.

«Non ho parlato di rapimento. Ti ho solo chiesto se l’hai vista.»

«Già, be’, ho sentito quello che sta succedendo. In città non si parla d’altro. Quindi lo so cosa mi stai chiedendo, in realtà.»

«Allora? Cosa mi rispondi?»

«Dici sul serio? Non sono mai finito in galera, nemmeno per guida in stato di ebbrezza!»

Suo figlio era stato arrestato più volte per rissa, ma Amarok lasciò perdere. «Scusa» disse, ed era sincero. «Con quello che hai passato… Non è che mi piaccia essere qui.»

«Allora perché sei venuto?» gli chiese. «Mi conosci da sempre. Sai che non sono un criminale.»

«Il dolore e l’odio possono cambiare un uomo.»

«Quindi adesso sono cambiato?»

«Ho visto come tu e Junior guardate Evelyn quando la incontrate.» Sua moglie, Betty, faceva altrettanto. Così come le due figlie più piccole, seppure in misura minore. Ma Amarok non voleva accusare anche le donne della famiglia. «Ti sto solo chiedendo se l’hai vista, Davie. Cerchiamo di non farne un dramma.»

«Credi che possa averle fatto qualcosa. Te lo leggo in faccia.»

«Spero di no.»

Gli altri membri della famiglia spensero la televisione e andarono a vedere cosa stava succedendo. Amarok notò l’espressione accusatoria di Betty quando lo vide. Un tempo Amarok era in buoni rapporti con tutta la famiglia, ma quel legame si era distrutto dopo l’assassinio di Sandy. A loro non piaceva vederlo con Evelyn – lo vivevano come una specie di tradimento, come se avesse scelto di schierarsi “dall’altra parte” – e in quei giorni era sempre con lei.

«Davie non farebbe mai del male a una donna, nemmeno a Evelyn» gli disse lei.

«Sapete cos’ha subìto in passato, vero?»

Betty si parò di fronte al marito. «Lo sanno tutti quanto ha sofferto. Ne ha parlato parecchio in televisione. Ha raccontato dell’uomo che l’ha aggredita, per accaparrarsi il supporto della gente. Ha usato quelle buffonate per costruire quella maledetta prigione dalle nostre parti. Ma sembra che quello che ha fatto a tutti noi non abbia importanza.» Quando cominciò a piangere Davie la spinse indietro.

«Ci penso io» mormorò. «Dài, finisci di vedere il tuo programma in TV

«Cosa succede, papà?» Junior sbucò dal nulla, probabilmente era in camera sua.

«Amarok chiede della dottoressa Talbot.»

«È venuto qui? Perché?»

«Vuole sapere se l’abbiamo vista.»

«Noi? Che cavolo! Uno di quei bastardi alla fine l’ha presa. Ecco cos’è successo. Sapevamo tutti che era solo questione di tempo.»

Amarok non percepì nessun rammarico in quelle parole. «La domanda è… quale bastardo?»

«Te lo dico una volta per tutte, Amarok» si intromise Davie. «Stai saltando alle conclusioni sbagliate.»

Quando Makita cominciò a ringhiare, in disaccordo con il tono che usavano e il loro linguaggio del corpo, Amarok gli ordinò di rimanere dov’era e guardò oltre le spalle di Davie. «Junior? Tu cos’hai da dire?»

Junior fece spostare il padre. «Dico quello che ti ha detto papà. Stai dando la caccia alle persone sbagliate.»

«Adesso te l’abbiamo detto tutti e due» disse Davie, ribadendo la sua autorità. «Cercherò di dimenticare che sei venuto qui ad accusarci, perché probabilmente sei fuori di te per il dolore. So come ci si sente, quindi per stavolta chiuderò un occhio. Ma se non hai qualche prova a parte il fatto che odiamo la donna che ci ha fatto perdere nostra figlia, farai meglio a non tornare.»

Amarok posò una mano sulla porta e ci si appoggiò per apparire più amichevole, più rilassato e meno sulla difensiva, ma stava osservando tutti attentamente, e sapeva che Makita stava facendo altrettanto. «L’omicidio di Sandy non è stata colpa di Evelyn, Davie. Era praticamente l’unica che si batteva per tenere Lyman Bishop dietro alle sbarre. Sembri essertene dimenticato.»

«E tu sembri dimenticare che Lyman Bishop non sarebbe mai venuto in Alaska, se non fosse stato per lei.»

«Qualcuno deve pur fare ricerca. E non può sempre essere qualcun altro.» Amarok stava usando le stesse parole di Evelyn, quelle che lei aveva usato in diverse discussioni tra loro, ma dopo aver vissuto con quella donna per così tanto tempo si era convinto che il suo lavoro fosse importante.

«Già, be’, vedremo se ti sarà di conforto adesso che è sparita.»

Fece per chiudere la porta, ma Amarok lo fermò. «È incinta di sei mesi, Davie.»

Per la prima volta l’altro sembrò provare una sorta di compassione. «Allora mi dispiace per il bambino.»

Non poteva aggiungere altro. Amarok lasciò che la porta si richiudesse, poi rimase sul portico, lo sguardo a terra, sentendosi più desolato e incapace che mai. Evelyn era scomparsa da un giorno, e lui non aveva la minima idea di chi l’avesse rapita o perché.

Quando Makita gli leccò la mano, si avviò verso il furgone, ma prima che potesse raggiungerlo il portone si riaprì e fece capolino una ragazzina adolescente, la figlia più piccola, nata una decina d’anni dopo l’ultimo figlio. «Sergente Murphy?»

Lui si voltò a guardarla. «Sì?»

«Non so se può voler dire qualcosa, ma prima in città ho incontrato un uomo che non avevo mai visto da queste parti. Guidava un furgone azzurro, di un’impresa di lavaggio moquette. Aveva una scritta gialla sulla fiancata.»

«Un furgone di un’impresa di lavaggio moquette? Sei riuscita a vedere il nome della ditta?»

«No. Quella parte era stata oscurata. Si leggeva solo “impresa di pulizia moquette”. Ma non mi sembrava uno che fa questo lavoro.»

«Com’era?»

«Mi faceva paura. Aveva una brutta cicatrice su un occhio.»

«Dove l’hai visto?»

«Al Quick Stop. Ero al lavoro, stavo parlando al telefono con il mio ragazzo, quando è arrivato quel tizio. Dopo che se n’è andato gli ho detto che era entrato un tipo con una brutta cicatrice che mi aveva messo ansia e il mio ragazzo ci ha scherzato su dicendo che probabilmente era appena uscito da Hanover House.»

«Che ora era?»

«Adesso che ho cambiato incarico esco a mezzogiorno, quindi comincio prima. Non era da tanto che avevo smesso perciò direi… circa l’una?»

Il tempismo era sicuramente sospetto. Evelyn era sparita poco dopo. «Cosa indossava?»

«Pantaloni mimetici e una T-shirt dei Black Sabbath.»

«Ti ricordi altro di lui? Il colore degli occhi, magari?»

«Solo la cicatrice che gli sfiorava l’occhio e il fatto che era chiaro che si faceva di steroidi, come quel culturista, The Rock.»

«Secondo te era alto come The Rock?»

«Non so quanto sia alto The Rock, ma non era basso.»

«Quanti anni aveva?»

«Sui trenta?»

«Ha parlato con Garrett? Si sentiva un accento particolare?»

«Non ha parlato tanto. Ha chiesto solo un pacchetto di Camel. Secondo me non aveva un accento particolare.»

«Ha menzionato me o Evelyn? Ha chiesto dove vivevo? Dov’era Hanover House?»

«No.»

Quindi, se quel forestiero era il colpevole, probabilmente aveva già quelle informazioni. La domanda era: come? E come faceva a sapere che Evelyn sarebbe stata a casa a un orario così strano? Era quella la parte che lo sconcertava di più. Aveva controllato l’agenda di Evelyn e aveva parlato con gli altri medici e lo staff a Hanover House. Nessuno sapeva che avesse altri appuntamenti, a parte quello con lui al Moosehead. E di sicuro Evelyn non avrebbe chiamato qualcuno perché lavasse la moquette a casa loro. Avevano solo pavimenti in legno. «Come hai fatto a vedere cosa guidava?»

«Ero vicino alla porta quand’è arrivato.»

«Per caso hai preso il numero di targa?»

«No. Ero troppo preoccupata per il suo aspetto, e non l’ho seguito quand’è uscito. Ero felice di vederlo andar via.»

«Grazie, Kaylene.»

Lei gli rivolse un sorriso timido ma comprensivo. «Mi spiace per quello che stai passando. So che quello che è successo a Sandy non è stata colpa tua. Tu non volevi che aprissero la prigione. In terza media ho fatto una ricerca sul carcere e ti ho fatto delle domande. Non so se te lo ricordi.»

«Me lo ricordo» le disse, anche se gli era venuto in mente solo adesso che Kaylene gliel’aveva detto.

«Be’, spero che riuscirai a trovare la dottoressa Talbot e che… e che il vostro bambino stia bene.»

«Grazie per l’aiuto» le disse, e mentre tornava verso il furgone fischiò a Makita, così sarebbe potuto andare al Quigley’s Quick Stop.

Anchorage, Alaska – martedì, ore 22.40

Il carceriere di Evelyn tornò a riprendere la ciotola. Visto che prima aveva lasciato lì il vassoio Evelyn non si aspettava di rivederlo così presto, ma non dovevano essere passati più di venti minuti quando il pertugio si aprì e lei poté vedere l’ormai familiare busto che le chiedeva le bottigliette d’acqua vuote, la buccia di banana e la ciotola.

Quando lei inserì il tutto attraverso il buco – tranne l’acqua che aveva tenuto da parte – lui le afferrò la mano, per non fargliela ritrarre.

«Perché c’è del sangue sulle tue dita?» le chiese.

Venne percorsa da una scarica di adrenalina. Stava cercando di decidere cosa dire quando lui aggiunse con impazienza: «Non è il bambino, vero?».

«No. Quando… quando sono agitata a volte mi mangio le unghie.» Anche se si era asciugata il sangue sulla giacca le erano rimaste comunque delle macchie sulle dita. Non aveva voluto sprecare l’acqua potabile versandola sulle mani, e non le avrebbe mai e poi mai lavate alla toilette.

«Fino a sanguinare?»

«Lo fanno in tanti.» Pregò che le credesse. Non voleva che entrasse nella stanza. Se avesse scoperto quello che aveva in mente la punizione avrebbe potuto essere dura. Era possibile che sfruttasse quell’opportunità per abusare di lei, anche senza scoprire il tentativo di Evelyn di smantellare la branda.

Doveva coinvolgerlo, cercare di farselo amico. Negli anni aveva parlato con abbastanza criminali violenti da capire che le vittime che sopravvivevano erano quelle che riuscivano a diventare qualcosa di più di semplici oggetti da usare a piacimento. Creavano un legame con la persona che le teneva prigioniere o abusava di loro, diventavano umane, e spesso ci riuscivano fingendo di supportare il loro aggressore e di comprendere i suoi motivi, i suoi bisogni e la situazione.

Il cuore le pulsava forte nelle orecchie mentre attendeva di vedere come avrebbe reagito, e cosa avrebbe potuto trarne.

«Sei una strizzacervelli e ti fai del male? Non è ironico?»

«Ne ho passate tante, ed essere rinchiusa in una cella frigorifera mi riattiva certe brutte abitudini.»

Lui sembrò accettare la spiegazione. Senza dubbio aveva anche lui qualche brutto vizio. «Quanto manca al parto?»

«Sono appena entrata nell’ultimo trimestre.»

«Cosa cavolo vuol dire?» Le strinse ancora di più i polsi. «Parla chiaro, cristo santo!»

Lei inspirò per calmarsi. «Mi mancano ancora dodici settimane, ma è una gravidanza a rischio, quindi…»

«Quindi il bambino potrebbe nascere in qualsiasi momento. Vuoi dire questo?»

«Sì.»

La lasciò andare, imprecando.

«Se succede» aggiunse lei, «se entro in travaglio, avrò bisogno di un ospedale se vogliamo che il bambino abbia la possibilità di sopravvivere. Quindi spero ce ne sia uno qui vicino.»

«Farai meglio a non partorire mentre sono qui. Non ho altro da dire.»

Evelyn aveva sperato che le rivelasse qualcosa su dove si trovavano. Non aveva potuto captare niente, ma quel “mentre sono qui” significava che a breve se ne sarebbe andato. Dove sarebbe andato… e quando? «Sai che non posso fermare il travaglio. Se il bambino vuole nascere non posso farci niente.»

«Tieni chiuse le gambe, perché altrimenti ti ritroverai in un mare di guai.»

Aveva mani massicce, e ciò le fece credere che fosse un uomo imponente. E aveva notato dei calli che suggerivano non facesse un lavoro di ufficio. Era un muratore? O qualcosa di simile?

Era possibile…

Dubitava che fosse sposato. Non sapeva niente di parti… sapeva solo di non volerci avere niente a che fare. E non aveva visto nemmeno una fede. «Come faccio a chiamarti se entro in travaglio? Non vorrai lasciarmi qui a partorire da sola.»

«Te l’ho detto. Non succederà finché sono di guardia.»

«Di “guardia”? Arriverà qualcun altro? Jasper Moore non c’entra niente, vero?» Non riusciva a immaginare come avrebbe potuto essere coinvolto. Non molto tempo prima Jasper aveva ucciso i suoi facoltosi genitori, che lo avevano aiutato a scappare dopo che le aveva tagliato la gola e l’aveva lasciata ferita a morte. Era sicura che lo avessero aiutato economicamente anche negli anni successivi. Ma adesso che erano morti, chi altro gli avrebbe dato dei soldi?

Nessuno. A meno che…

L’uomo all’esterno era un fratello o un amico di una delle donne della vita di Jasper? Una delle sue ex mogli, o qualcuno che aveva cominciato a scrivergli quand’era stato incarcerato? Jasper era più bello della maggior parte dei serial killer e, come Ted Bundy o Charles Manson, riceveva la sua bella parte di lettere d’amore, soldi e regali dalle donne. Visto che tutta la corrispondenza che arrivava in prigione era controllata, Evelyn aveva letto qualche lettera. La sindrome da Bonnie e Clyde, o ibristofilia, era un fenomeno reale, secondo il quale alcune donne erano sessualmente attratte da criminali pericolosi e di spicco. Negli anni, Evelyn aveva assistito più volte alla cosa con altri noti assassini.

Lui non rispose. Scomparve e poi tornò. «Metti di nuovo fuori le mani.»

Evelyn esitò. «Perché?»

«Fallo e basta!»

Una persona come Jasper avrebbe goduto nel tagliarle le dita. Aveva paura di correre il rischio. Ma quell’uomo poteva entrare e fare tutto quello che voleva, quindi rifiutare non l’avrebbe salvata a lungo. Probabilmente l’avrebbe solo fatto arrabbiare.

Deglutì e infilò le mani nel pertugio.

Lui ci versò sopra una bottiglia d’acqua e poi le asciugò alla buona con della carta assorbente. «Chissà che germi ci sono in questo posto. Se fossi in te non rischierei.»

«È lo stress» mentì lei.

«Allora farai meglio a calmarti.»

Anche se non era d’aiuto, Evelyn allungò il collo per cercare di vederlo in faccia, e fu in quel momento che notò i cinque punti tatuati sulla sua mano. Era un ex detenuto; quello era un tatuaggio da carcerato. «In che carcere sei stato?» gli chiese, cercando ancora una volta di capire chi fosse o chi potesse conoscere.

«Non sono affari tuoi» rispose lui, e le ricacciò le mani dentro alla fessura.