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Hilltop, Alaska – martedì, ore 15.50
Il tempo era fondamentale. Ogni minimo secondo era prezioso, eppure gli attimi scorrevano via inesorabili. Amarok non si era mai sentito così in ansia, così disperato. Non c’era niente di più sconvolgente del rendersi conto che Evelyn se n’era andata, perché non se n’era solo “andata”. Il gatto di lei, Sigmund, era a casa, ma lei era stata rapita e Amarok sapeva quello che implicava, considerato il tipo di persona che molto probabilmente l’aveva presa. Doveva riportarla a casa prima che le facesse del male o, peggio ancora, la uccidesse. Ma come? Era successo tutto così all’improvviso! Non c’era nulla che indicasse chi l’aveva rapita o perché, non con Jasper dietro le sbarre.
Da poliziotto sapeva quanto fossero critiche le prime ore, ma la paura che lo pervadeva lo stava velocemente privando della forza e della lucidità, proprio quando ne aveva più bisogno. Gli sembrava di avere i piedi inchiodati al pavimento e il petto oppresso, tanto da respirare a fatica.
Makita gli leccò la mano con affetto e lo seguì mentre lui in qualche modo forzava le gambe a muoversi per tornare al furgone. La donna che stava per diventare sua moglie, nonché la madre di suo figlio, contava su di lui. Poteva essere l’unico aiuto che aveva. Ma non sapeva da dove cominciare. Aveva controllato il video di sicurezza sul suo computer – grazie a Internet era riuscito a installare una telecamera sul portone per un prezzo modico – ma mostrava solo la scalinata d’ingresso, ed Evelyn non era arrivata fin lì. Non era nemmeno entrata nell’inquadratura. Aveva anche chiamato tutti quelli che gli erano venuti in mente che abitavano in paese. Nessuno sapeva dove fosse Evelyn. Nessuno aveva notato qualcosa di sospetto, né aveva visto sconosciuti in zona.
Quindi che fare?
Attivò sirena e lampeggiante e ordinò a Makita di stare fermo sul sedile, così non si sarebbe fatto male saltellando su e giù, mentre Amarok usciva dal vialetto e si fiondava a Hanover House. Man mano che la rabbia prendeva il sopravvento, sentiva le forze ritornare e prevalere sugli ormoni che lo avevano abbattuto in un primo momento. Sentiva di poter fare a pezzi con le sue stesse mani la persona che aveva preso Evelyn… se solo avesse saputo chi fosse.
Doveva pur esserci stato qualcosa che aveva fatto precipitare la situazione. E l’avrebbe scoperta. Non avrebbe perso la donna che amava, non dopo tutto quello che avevano superato, soprattutto adesso che era incinta di suo figlio! Era stato un miracolo che fosse riuscita a concepire nonostante lo scetticismo del medico, una fonte di gioia e di speranza per entrambi. Non avrebbe permesso a nessuno di privarli di tutto questo.
Sentì una stretta allo stomaco mentre ricordava di averle toccato la pancia soltanto la sera prima dopo aver fatto l’amore. La bambina si stava muovendo, ed Evelyn voleva che lo sentisse. Di solito quando cercava di mostrarglielo lui non percepiva nulla. A soli sei mesi la creatura non era abbastanza grande da scalciare con forza.
Ma la scorsa notte era stato diverso. La flebile sensazione che aveva avvertito contro il suo palmo era stato il primo contatto con il loro figlio e la cosa lo aveva colpito molto; aveva preso coscienza che sarebbe diventato padre, in un modo che non aveva osato sperare durante i primi tre mesi, e nemmeno dopo. Il dottore aveva valutato con loro i rischi di quella particolare gravidanza. Quell’anno Evelyn avrebbe compiuto quarant’anni. La sua età, oltre a quello che il suo corpo aveva subìto quand’era stata torturata, rendeva l’aborto una possibilità concreta. Amarok aveva cercato di mantenere una certa distanza emotiva per non uscirne devastato e per poterla aiutare nel momento di difficoltà, se mai fosse successo.
Le guardie al posto di blocco uscirono, quando gli pneumatici del furgone stridettero e il retro dell’auto sbandò fino quasi a colpire la recinzione.
«Che succede, sergente?» chiese l’agente Bailey, palesemente preoccupato dalle luci e dalla sirena, oltre che dalla guida spericolata di Amarok. «Qualcosa non va?»
«Hai visto Evelyn oggi?» chiese lui senza preamboli.
«Sono parecchie ore che non la vedo.» Bailey guardò il collega più giovane, l’agente Derby, che era in piedi all’ombra dell’edificio. «Tu?»
Derby affiancò Bailey sotto la luce del sole. «È andata via dopo pranzo. Dev’essere stata più o meno l’una. Non ne sono sicuro, posso controllare il registro…»
«No. Ho parlato con Penny» disse Amarok. «So quando se n’è andata. La domanda è… è tornata?»
Bailey scambiò un’altra occhiata con Derby. «No, signore.»
«C’era qualcuno con lei quando se n’è andata? Sembrava scossa o ha detto dov’era diretta?»
Le guardie carcerarie scossero la testa, confuse. «No. È successo qualcosa?»
«Credo di sì.» Che altra risposta poteva dare? Evelyn non gli avrebbe dato buca, soprattutto quando stavano organizzando il loro matrimonio, non avrebbe lasciato il posto di lavoro se sapeva che qualcuno aspettava che ritornasse, non avrebbe lasciato la borsa in giardino andandosene con una scarpa sola.
«Che cosa?» chiese Bailey, gli occhi sgranati.
«Sono qui per scoprirlo. Potete dirmi se Jasper Moore è ancora rinchiuso?»
«L’ultima volta che l’ho visto sì» disse Derby. «Ieri ho controllato la sua cella quando ho ispezionato il blocco.»
Era una buona notizia. Jasper che metteva le mani su Evelyn era il peggior scenario possibile. Dopo essere stata così terrorizzata per quello che le aveva fatto ventitré anni prima Evelyn stava finalmente cominciando a superare la paura che le incuteva. Amarok non ricordava l’ultima volta che si era svegliata dimenandosi nel letto e piangendo per l’ennesimo incubo. Erano passati mesi.
Ma stavolta il colpevole poteva essere qualcuno di altrettanto malvagio, magari qualcuno con cui aveva avuto a che fare prima di andare in Alaska, il che significava che Amarok si sarebbe davvero ritrovato a cercare il cosiddetto ago nel pagliaio. Avrebbe dovuto rivedere tutti i vecchi documenti e i registri di Evelyn prima di poter fare qualsiasi altra cosa, e nel frattempo…
Scacciò quel pensiero. «Potete farmi passare?»
«Certo. Un attimo.»
Amarok afferrò il volante, stringendolo forte per tenere le mani ferme mentre Bailey faceva il giro del furgone con lo specchietto per controllare il telaio. Tutte quelle procedure di sicurezza gli sembravano una perdita di tempo. Per quanto lo riguardava il peggio era già successo. Si sforzò di non estrarre la pistola ed esigere che lo lasciassero passare. Makita sentiva che era teso. Abbaiò, poi ringhiò piano per segnalare che, se necessario, era pronto anche lui ad attaccare.
Per fortuna Bailey fece un cenno per indicare che era tutto a posto, così Amarok poté passare senza dover far nulla che gli costasse il distintivo.
Non si premurò di parcheggiare. Entrò col furgone sotto l’ingresso coperto, abbassò i finestrini perché Makita non soffrisse il caldo, ordinò al cane di stare lì e lasciò il veicolo a bordo marciapiede prima di entrare di corsa nell’edificio.
«Salve, sergente.» … «Amarok.» … «Come va?»… «Che succede, amico?»
La maggior parte degli ufficiali avevano familiarizzato con lui, anche se quasi tutti facevano i pendolari da Anchorage. Non solo era andato alla prigione diverse volte in via ufficiale, ma di tanto in tanto si fermava anche per portare il pranzo a Evelyn, la andava a trovare o andava a prenderla se c’era una tormenta di neve.
Appoggiò l’arma e la cintura su un vassoio per il passaggio ai raggi X e superò il metal detector, facendo a tutti le stesse domande che aveva posto alle guardie al cancello, e ricevendo le stesse risposte. Evelyn se n’era andata verso l’una, era sola e non era sembrata scossa o turbata. E sì, Jasper era in prigione.
Disse loro di portare Moore in una sala interrogatori. Poi prese l’ascensore e si diresse verso l’ufficio di Evelyn al terzo piano.
Non appena superò la porta in vetro a due ante che separava il reparto di salute mentale dal resto della prigione, incontrò Penny che, anziché essere seduta alla scrivania a lavorare come al solito, sembrava agitata e si aggirava per l’ufficio.
«L’hai sentita?» gli chiese immediatamente. «Ho cercato di chiamarla a casa diverse volte. Non risponde.»
«Non è lì» rispose lui. «E non l’ho sentita. Hai controllato con gli altri del reparto di salute mentale?»
«Ho parlato con quelli che non sono in sessione con un paziente o nel bel mezzo di una ricerca.»
«E dunque?»
«Non sanno niente.»
«Interrompi gli altri» le disse. «Non m’interessa quello che stanno facendo. Informali che ho bisogno di parlare con loro, subito.»
Penny impallidì. «È così grave?»
«Sembra di sì.»
Penny si portò una mano alla bocca. «È incinta!» sussurrò tra le dita.
Amarok aveva serrato la mascella, quindi riuscì a malapena a parlare. «Lo so bene.»
Determinato a mantenere la calma e a impedire che la paura e la disperazione prendessero di nuovo il sopravvento, schivò Penny per entrare nell’ufficio di Evelyn. «Sai su cosa stava lavorando ultimamente e con chi?»
Lei affrettò il passo per raggiungerlo, ma era alta meno di un metro e mezzo, mentre lui era quasi un metro e novanta. Ogni suo passo erano due di Penny. «Intendi dire carcerati o… o dottori?»
«Entrambi.»
«Ha a che fare con tutti i medici, ma forse di più con il dottor Ricardo. Viene sempre nel suo ufficio per un motivo o per l’altro.»
Amarok accese la luce e si diresse alla scrivania. «Per esempio…»
«Lei dice che non sono pronti a pubblicare quello che hanno scoperto, ma Ricardo continua a farle pressione. Fanno anche un sacco di test insieme, alcuni per valutare il grado di empatia e… test d’intelligenza per capire come una mente brillante possa coesistere con la psicopatia. Hanno fatto anche un mucchio di esperimenti per vedere se gli psicopatici sono in grado di eludere la macchina della verità meglio di altri e perché. Un sacco di cose.»
Amarok controllò l’agenda di Evelyn, vide l’appuntamento che aveva con lui al Moosehead e quello delle quattro e un quarto con il dottor Ricardo che aveva menzionato Penny ma nient’altro, così cominciò a scartabellare i documenti sulla scrivania, a controllare i messaggi telefonici, i cassetti. «E i detenuti? Su quali si era concentrata di recente?»
Penny lo guardò accigliata. Stava lasciando il caos sulla scrivania. Aveva troppa fretta. «Era demoralizzata per via di Mary Harpe, l’unica psicopatica donna.»
«L’ex infermiera che ha assassinato quei bambini.»
«Sì.»
Penny fece il giro della scrivania, aprì lo schedario vicino al muro e gli porse il dossier di Mary. Evelyn gliene aveva parlato. Mary era la psicopatica che le piaceva meno tra tutti quelli che aveva studiato, a parte Jasper. «Evelyn diceva qualcosa in particolare su di lei?»
«Non proprio.»
Lo guardò sfogliare il dossier della donna, scorrendo gli appunti scritti a mano da Evelyn durante le varie sessioni: menzionava la sua mancanza di rimorso, la totale indifferenza verso i genitori dei bambini che aveva ucciso e il pediatra a cui aveva distrutto la carriera. Trovò anche diversi grafici che indicavano il numero di decessi avvenuti nell’ospedale dove lavorava prima che la cacciassero e andasse a lavorare per il pediatra (l’avevano licenziata sì, ma le avevano comunque garantito delle referenze).
«Non ti risulta che ci sia niente di insolito o preoccupante?» la incalzò. Di sera, quando si rilassavano, Evelyn gli parlava spesso del suo lavoro, ma di recente non le aveva sentito dire niente di particolare, e di sicuro niente che lo avesse messo in allerta.
Penny sembrava disorientata. «Mi ha detto solo che certi psicopatici sono più affascinanti di altri e che Mary non lo è per niente.»
In pratica quello che aveva detto anche a lui. «A Mary sta antipatica Evelyn?»
«Le stanno antipatici tutti, ma forse odia Evelyn più degli altri medici. Comunque la dottoressa l’ha capita fin da subito, non si fa fregare. Gli uomini le consentono più libertà d’azione, sono più comprensivi.»
«Mary riceve molte lettere? La vengono a trovare in tanti? Parla con dei familiari?»
«Non lo so. Dovrei controllare con il dottor Jones.»
Amarok sollevò lo sguardo. «Perché il dottor Jones? Lavora anche lui con Mary?»
«Sì, e sembrano andare più d’accordo.»
Quando Amarok chiuse il dossier ne notò un altro appoggiato sopra allo schedario, come se Evelyn l’avesse consultato di recente. Lo afferrò per poter leggere il nome sull’etichetta. «E che mi dici di questo tizio… Robert Knox?»
«Non è un criminale violento. È improbabile che faccia del male a qualcuno.»
«Ma è uno psicopatico. Un genio della truffa, vero?». Evelyn gli aveva parlato anche di lui. Knox aveva raggirato senza pietà diverse anziane, derubandole della pensione con i suoi schemi d’investimento.
«Già. Ma a Evelyn sembra piacere.»
«Riceve visite, lettere, cose del genere?»
«Non ne ho idea. Dovrai controllare con l’ufficio che si occupa della corrispondenza. Oppure posso farlo io…»
«Sì per favore,» disse Amarok, ma era scettico sul fatto che ci fosse lo zampino di Bobby Knox in quello che era successo… che avesse ingaggiato o convinto qualcuno a rapire Evelyn. Amarok si stava aggrappando a qualsiasi cosa. «Hai sentito lui o qualcun altro minacciare Evelyn o crearle problemi?»
Penny si tormentava le mani, mentre rifletteva sulla domanda. «No. Da quando hai arrestato Jasper qui è stato tutto tranquillo, per quanto può esserlo un carcere di massima sicurezza che ospita così tanti psicopatici. Il pericolo c’è sempre, ma seguiamo dei protocolli per ridurre al minimo i rischi. A dire il vero, non ho mai visto la dottoressa Talbot così serena e felice da quando è stata aperta Hanover House, due anni e mezzo fa.»
Anche Amarok era dello stesso parere. Dopo ventitré anni passati a pensare che fosse solo una questione di tempo prima che Jasper la seguisse in Alaska e tentasse di finire quello che aveva cominciato quando l’aveva aggredita la prima volta, quella minaccia era stata eliminata. Si erano sentiti entrambi più sicuri sapendo che era finalmente dietro alle sbarre.
Allora cosa diavolo stava succedendo? Non doveva andare così!
«Sergente Murphy?»
Sulla soglia dell’ufficio comparve il dottor James Ricardo, un uomo dai capelli scuri cortissimi, slanciato, piuttosto banale, sulla cinquantina, l’unico neurologo dello staff. Anche se nella squadra di Evelyn nessun medico aveva più autorità degli altri, James aveva messo in chiaro che se mai lei se ne fosse andata da Hanover House lui voleva prendere il suo posto. L’aveva detto lo scorso inverno, quando le cose si erano messe male.
«Dove cavolo è Evelyn? Doveva raggiungermi per il test d’empatia situazionale/disposizionale che sto eseguendo proprio adesso, ma sono quindici minuti che aspetto.»
Amarok si voltò, preoccupato per l’ansia di dover trovare qualche indizio, qualcosa che gli dicesse come comportarsi. «Non sappiamo dove sia, Jim. È per questo che sono qui.»
L’altro lo guardò perplesso. «Cosa vuoi dire?»
«È in pericolo, e devo tirarla fuori.»
«Che tipo di pericolo?»
«Magari lo sapessi. C’è un carcerato in particolare, qualcuno sulla lista di Evelyn che ce l’ha con lei?» Da quando era entrato a far parte della sua vita, Amarok aveva sentito diversi nomi, uomini che avevano dato a entrambi motivo di preoccupazione. Jasper Moore, ovviamente, ma non solo lui. C’erano stati Anthony Garza, Hugo Evanski e Lyman Bishop, tutti psicopatici che Evelyn aveva studiato lì, a Hanover House. Alla fine anche un ex collega era diventato un problema: Tim Fitzpatrick, lo stesso psichiatra che grazie alla sua reputazione e al suo supporto aveva fondato Hanover House. Se n’era andato da due anni, prima che lo licenziassero, ed era tornato a Boston.
Ma nessuno di quegli uomini erano dei probabili colpevoli. Jasper era in prigione e, come figlio unico che aveva assassinato i genitori non molto tempo prima, non aveva molti amici o familiari disposti ad aiutarlo a vendicarsi contro Evelyn. Anthony e Hugo erano morti. Lyman, soprannominato il Fabbricante di Zombi per via della sua propensione a lobotomizzare le vittime con un rompighiaccio per renderle dipendenti e remissive, era internato in un istituto mentale e dopo aver avuto una grave emorragia cerebrale veniva nutrito attraverso una cannula. E Tim Fitzpatrick era grato a Evelyn per averlo aiutato a uscire di prigione dopo essere stato incarcerato per un crimine che non aveva commesso. Si era preso una cotta per lei quando lavoravano insieme, un’ossessione che l’aveva spinto a superare certi limiti. Magari era ancora infatuato. Ma di sicuro non c’entrava niente con quella storia.
«Non che io sappia» disse Ricardo. «Non c’è stato niente di strano, non da quando Evelyn ha insistito perché Jasper Moore venisse trasferito qui.»
La disapprovazione nel suo tono di voce portò Amarok a chiedergli: «Eri contrario?».
«Pensavo che per lei fosse meglio farlo uscire finalmente dalla sua vita.»
Amarok l’aveva pensata allo stesso modo. Ma capiva anche il ragionamento di Evelyn. Se l’uomo che temeva più di ogni altro era a Hanover House sarebbe riuscita a tenerlo d’occhio, ed era una cosa importante per la sua tranquillità. Jasper era così furbo da aver convinto Evelyn che nessun altro avrebbe usato abbastanza cautela con lui, pensava che alla fine sarebbe riuscito a manipolare chi gli stava attorno, convincendo una poliziotta ad aiutarlo a fuggire o chissà cos’altro. Era un quarantenne bello e in forma, cosa che lo rendeva ancora più pericoloso di un sadico qualunque. La gente tendeva a fidarsi degli uomini che sembravano così per bene ed erano intelligenti e dotati di una buona oratoria come Jasper Moore. «Cosa può esserle successo?» chiese a Ricardo.
L’altro sollevò le mani. «Non ne ho idea.»
Nemmeno Amarok. Quella giornata era iniziata come tante altre e avrebbe dovuto continuare così. Ma se non trovava presto un indizio, avrebbe potuto non rivedere più Evelyn.
Un agente di nome McKim entrò di corsa nel reparto di salute mentale. Vedendoli tutti riuniti nell’ufficio di Evelyn si avvicinò. «Ho Jasper Moore che aspetta nella sala interrogatori numero otto.»
Si stava spargendo la voce riguardo all’emergenza. Amarok percepiva la preoccupazione nei modi dell’agente. La dottoressa, come la chiamavano, piaceva a tutti. Senza dubbio ognuno di loro sperava in una risoluzione veloce. Ma Amarok aveva la terribile sensazione che non sarebbe successo. Era al punto di partenza; come avrebbe fatto a trovare Evelyn in tempo per salvarla?
Probabilmente era già morta.
Se era nelle mani di un sadico come Jasper Moore sperava fosse così. Non riusciva a sopportare l’idea che venisse torturata di nuovo. Continuava a immaginare la loro bambina che le veniva strappata dal ventre, e la cosa gli faceva rivoltare lo stomaco.
«Sergente?»
Amarok mise a tacere quella vocina sinistra nella sua testa che insisteva nel dirgli che era già troppo tardi e si avviò verso la porta. Doveva fare qualcosa, doveva continuare a combattere, a ogni costo… anche solo per assicurare alla giustizia la persona che aveva rapito la sua donna.
Se ce ne fosse stato bisogno avrebbe dato la caccia a quel figlio di puttana fino in capo al mondo, non avrebbe avuto pace finché quel bastardo non fosse stato preso e punito, quindi si convinse che avrebbe fatto meglio a dare inizio alla sua vendetta, se era più facile vederla così. «Mostrami la strada più veloce per arrivarci» disse.
Anchorage, Alaska – martedì, ore 16.00
Evelyn venne svegliata da un rumore. Era così in preda allo spavento da essere sprofondata in un sonno intermittente, ma non aveva idea di quanto avesse continuato a entrare e uscire da quello stato di semicoscienza. Non doveva essere passato molto tempo. Un’ora? Due? Si svegliò di scatto e, per paura di perdere l’opportunità di scappare, di convincere il suo aguzzino a lasciarla andare o di migliorare la sua situazione in qualsiasi altro modo, balzò giù dal sottile materasso che copriva le molle della branda.
Aveva lasciato la luce accesa. Non voleva spegnerla, visto che oltre al letto e alla coperta era l’unico altro comfort che aveva. Non le piaceva l’idea di rimanere sola al buio. Non aveva mai sperimentato un’oscurità così totale. Sembrava una tomba, e temeva che lo sarebbe diventata.
Una volta in piedi, recuperò l’equilibrio posando una mano sulla parete. Si era alzata troppo in fretta, non aveva dato al cuore la possibilità di pompare abbastanza sangue al cervello.
Si piegò e attese che la vertigine passasse, ma si raddrizzò non appena poté, gli occhi fissi sulla piccola fessura che aveva notato poco prima.
C’era qualcuno lì fuori.
«Ehi?» gridò.
Nessuna risposta.
Attraversò il piccolo spazio per andare a picchiare i pugni contro la porta. «Ehi? Chi è? Fatemi uscire, per favore!»
Ancora una volta non ottenne risposta, ma quando la fessura si aprì si rese conto che a svegliarla era stato il rumore del catenaccio.
Si accucciò, cercando di sbirciare all’esterno, ma la porta era così spessa che era come guardare attraverso un tubo. Non vedeva nulla a parte il busto di un uomo. Sembrava in forma, molto probabilmente sui venti o i trent’anni, e indossava pantaloni mimetici e una T-shirt nera. Non sapeva se facesse parte dell’esercito, se ne avesse fatto parte in passato o se semplicemente gli piacesse lo stile militare. Non riusciva a vederlo in viso… anche se vederlo non avrebbe necessariamente dato risposta a quelle domande.
«Chi sei?» gli chiese. «Ci siamo già incontrati?»
Lui sparì, poi ricomparve con un vassoio metallico e del cibo, che fece scivolare attraverso l’apertura.
Evelyn non voleva accettarlo. Voleva una qualche spiegazione, comprendere la situazione. Ma non sapeva quando avrebbe avuto l’opportunità di mangiare ancora e non osò lasciar cadere il cibo a terra, per paura di non poterne avere altro. Anche se al momento era troppo sconvolta per mangiare doveva pensare alla sua bambina, non poteva aspettare troppo. Per quel che sapeva, avrebbero potuto tenerla rinchiusa lì, a sopravvivere con poco, chissà per quanto tempo.
Afferrò il vassoio prima che lui lo lasciasse andare, e ne fu felice. Ebbe l’impressione che non gli importasse se l’avesse accettato o meno, che l’avrebbe lasciato cadere a terra se lei non l’avesse preso. Questo le insegnò a essere più veloce la prossima volta.
La fessura si richiuse e il catenaccio tornò al suo posto. Da quello che poteva capire l’incontro era finito.
«Aspetta!» Picchiò ancora di più contro la porta. «Non andartene! Dimmi solo chi sei. Perché sono qui. Cosa vuoi da me?»
Posò l’orecchio sulla porta e le parve di sentire dei movimenti, ma le pareti di quella prigione erano così spesse che avrebbe anche potuto solo essere frutto della sua immaginazione. «Ehi?» gridò, continuando a picchiare contro la porta.
Niente.
Quando finalmente si arrese e scivolò fino a terra, tenendo ancora il vassoio con la mano libera, le facevano male le nocche e aveva la voce roca. Cosa stava succedendo? Era una vendetta? Voleva violentarla? Torturarla?
Fissò quello che sembrava un panino al burro di arachidi e marmellata, preparato in tutta fretta, un sacchetto di patatine, delle carote e una mela. C’era anche un cartone di latte, di quelli che i ragazzini bevevano a scuola.
Sentì le lacrime affiorarle agli occhi, ma le scacciò, sapendo che non sarebbero servite a niente. Posò con cura il vassoio accanto a sé e aprì il latte. «Amarok, ti prego vieni qui» sussurrò. «Ti prego.»
Lo immaginò arrivare a casa e trovare la sua scarpa e la borsa sul viale, e sapeva che doveva essere fuori di sé. Avrebbe fatto di tutto pur di salvarla. Ne era sicura.
Ma era successo tutto così all’improvviso. Come avrebbe fatto a sapere da dove cominciare?