21

Minneapolis, Minnesota – martedì, ore 16.30

Beacon Point fu un fiasco. Amarok se ne andò frustrato per il fatto che i dirigenti non sembrassero sentirsi responsabili per la fuga di Bishop. Quando alla fine aveva parlato con la responsabile di Terry lei aveva ammesso che era stato un dipendente mediocre. Aveva detto che era per quello che lo aveva licenziato, e si comportava come se avesse fatto la sua parte dandogli il preavviso. Ma come avevano potuto lei e tutti gli altri lasciarsi sfuggire il fatto che uno degli addetti alle pulizie stava legando troppo con un paziente che era un noto serial killer?

La guardia di sicurezza in servizio quella notte era stata licenziata. I dirigenti indicavano questa come prova che avevano fatto tutto il possibile dopo l’accaduto. Ma la guardia non era l’unica a non aver fatto il suo lavoro. Amarok non aveva ancora sentito una ragione accettabile sul perché l’ospedale non avesse contattato la polizia subito dopo aver notato che il letto di Lyman era vuoto. Dicevano che non l’avevano fatto perché lo ritenevano troppo invalido per poter far del male a qualcuno; si aspettavano di ritrovarlo senza problemi e non volevano gettare nel panico la comunità, soprattutto visto che non era necessario.

Ma Amarok sapeva che invece lo avevano fatto principalmente per pararsi il culo. Speravano di evitare una cattiva pubblicità; ecco perché continuavano a fare il possibile per eludere le domande veramente difficili.

Fuori era così caldo e umido che Amarok accese l’aria condizionata al massimo non appena salì in macchina. Aveva continuato a controllare il telefono fin da quando era arrivato in ospedale, ma non aveva ancora sentito Lewis.

Perché cavolo ci metteva così tanto? Avevano bisogno di quel mandato di perquisizione. Se Emmett aveva lasciato un computer o anche solo delle ricette o delle annotazioni forse sarebbero riusciti a capire dove si trovava.

Cercò di chiamare Lewis ma la chiamata andò direttamente in segreteria. Anche se le istruzioni dicevano di lasciare un messaggio lui non lo fece.

«Al diavolo. Alcune cose vanno fatte al di là delle conseguenze» mormorò mentre inseriva l’indirizzo di Emmett sul GPS.

Anchorage, Alaska – martedì, ore 14.30

«Cosa possiamo fare per fargli posticipare il trasloco, così quando qualcuno verrà a cercarti forse ci potrà trovare?» chiese Evelyn a Edna. Non si aspettava necessariamente che la donna avesse la soluzione di cui avevano bisogno. Ma stava cercando di attirare l’attenzione dell’anziana, di farle pensare a come sopravvivere e poi iniziare a progettare dei piani per cavarsela, così sarebbe stata più motivata a combattere per la propria vita.

Purtroppo, però, a Edna mancava ogni determinazione, sembrava così dannatamente fatalista, come se volesse strisciare fino a un angolo e morire, visto che tanto non aveva più nemmeno il marito. Aveva faticato ad andare avanti senza di lui ancora prima che succedesse tutto questo, e la situazione diventava per Evelyn ancora più difficile. Era già dura rimanere su di morale, e adesso doveva costantemente incoraggiare un’estranea.

«Non possiamo fare niente» rispose Edna. «Non verrà nessuno. Non avevo detto che sarei passata di qua. Probabilmente è l’ultimo posto dove guarderanno.»

Evelyn si accarezzò il ventre. Partorire forse avrebbe ritardato la mossa che Lyman aveva in mente. Almeno sperava che Bishop sarebbe stato abbastanza umano da aspettare che partorisse, se fosse entrata in travaglio prematuramente. Ma non c’erano garanzie. Per questo motivo e per via degli altri rischi, ben peggiori, non riusciva a sperare che la bambina nascesse prima. «Anche se non riusciamo a convincerlo a rimanere di più, forse possiamo portarlo a dirci qualcosa su dove andremo, così potremmo in qualche modo lasciare quell’informazione per qualcuno.»

Edna indicò le quattro pareti. «Come? Scritto con il nostro sangue?» chiese con voce stridula. Era chiaro che stava impazzendo.

Evelyn pensò a quello che aveva fatto per portare Emmett a credere che stava per partorire e farlo entrare nella cella frigorifera. Un paio di dita non erano ancora guarite del tutto. Ma non disse nulla. Non voleva ricordare a Edna che aveva accoltellato Emmett, sapeva che in parte era quello il motivo per cui la donna stava cedendo.

Era quasi come se Edna la ritenesse un altro strano personaggio, come tutti quelli che aveva incontrato Alice nel Paese delle Meraviglie dopo essere scivolata nella tana del coniglio.

«Se necessario, sì» rispose Evelyn. «Oppure potremmo scappare durante il viaggio. Adesso siamo in due. Per lui sarà più difficile sopraffare entrambe.» Sempre che Bishop avesse in mente di portare Edna con loro. Forse no, ma Evelyn non vedeva ragione per menzionare la cosa.

Edna rimase sul letto, accasciata contro il muro, avvolta nella coperta. «Non possiamo fare niente» disse, cupa.

Evelyn era tentata di afferrarla per le spalle e scuoterla. Doveva riprendersi, e alla svelta. «Non dire così.»

Edna tirò fuori dalla coperta una mano chiazzata dall’età, per toccarsi il bordo dei pantaloni come se ancora stentasse a credere che le macchie che vedeva fossero sangue. «È vero.»

«Non necessariamente. Quando tua figlia non riuscirà a contattarti chiamerà la polizia.»

«Passeranno uno o due giorni prima che ci provi. È così impegnata. Non è che parliamo ogni giorno.»

Evelyn si rifiutava di darsi per vinta. «Alla fine verranno. E quando lo faranno…»

Edna non la lasciò continuare. «Chiederanno a quel… quel mostro che mi ha aggredita se mi ha vista, e lui dirà di no.»

«E quindi?» Evelyn la riprese subito, per cercare di provocarla. «Non finirà così. Quando non darai segnali di vita torneranno, gli faranno domande più approfondite e si procureranno un mandato di perquisizione.»

«Mio padre era un poliziotto. Potrebbe volerci una settimana o anche di più per arrivare a tanto. Nel frattempo quell’uomo che chiami Lyman sta già progettando di portarci via di qui. Per allora ce ne saremo già andati da un pezzo.»

Evelyn non controbatté; Edna sembrava aver ragione. Non era mica sparito un bambino. Edna era adulta. Per quel che ne sapevano gli altri, poteva aver fatto un viaggio per riprendersi dopo la morte del marito, o essere andata a trovare i parenti negli Stati Uniti.

Cosa avrebbe potuto escluderlo? A casa sua non avrebbero trovato tracce di alcun crimine; era andata alla fabbrica di sua spontanea volontà. A meno che qualcuno non l’avesse intravista in zona o la sua macchina venisse scoperta lì vicino, la polizia non avrebbe avuto alcun motivo per sospettare di quel posto più di altri. E quella non era la parte peggiore. Edna non aveva nemmeno un cellulare che le autorità potessero rintracciare. Quando Evelyn si era dimostrata scioccata per quella scoperta, la donna le aveva detto che preferiva la linea fissa e non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto adattarsi alla sua età. Per quanto la riguardava sarebbe stata solo una bolletta in più da pagare.

«Al di là di quanti giorni ci vorranno dobbiamo resistere più che possiamo» disse Evelyn per evitare di darle torto o ragione.

Edna si strinse ancora di più nella coperta. «Quando arriveranno saremo già morte.»

La depressione di cui aveva sofferto dalla morte del marito la stava inghiottendo. La difficoltà nel dormire a turni o di adattarsi a una sola, angusta branda, e nel condividere un cuscino e una coperta non era d’aiuto. E nemmeno la mancanza di pasti sostanziosi. Per la maggior parte del tempo soffrivano la fame o la sete.

Dopo essersi comportato come se ce l’avesse con Emmett per essersi preso così poco cura di lei, Lyman aveva fatto un lavoro ben peggiore. Il cibo, quando glielo portava, era più buono. Evelyn doveva concederglielo. Ma era troppo preoccupato e terrorizzato che Edna creasse una nuova falla nel suo piano per assicurarsi di nutrirle regolarmente.

Almeno aveva portato a entrambe degli spazzolini. Evelyn non si era mai resa conto di che lusso potesse rappresentare uno spazzolino. Dovevano usare l’acqua in bottiglia e sputare nel water o nello scarico, ma potersi pulire la bocca era una sensazione meravigliosa.

Con un sospiro, voltò le spalle alla compagna di cella e cominciò a camminare su e giù nello spazio angusto. «Questo non è niente in confronto a quello che ho subìto in passato» disse, cercando ancora di incoraggiare Edna. «Usciremo di qui. Tornerò dal mio fidanzato, e tu tornerai dalle tue figlie.»

Edna non disse nulla. Quando Evelyn la guardò, le sembrò rimpicciolita con quelle sue guance scavate, le occhiaie e il modo in cui la testa fuoriusciva a malapena dalla coperta.

Evelyn smise di camminare e andò a sedersi accanto a lei sulla branda. «Ascoltami» disse, prendendo le mani fragili e fredde della donna.

Edna le guardò il viso, ma solo per un secondo, poi sussultò e tornò a fissare il muro.

«Usciremo di qui» le ripeté Evelyn con maggiore enfasi. «Ed ecco come faremo.»

Quando stavolta Edna la guardò, Evelyn capì di aver suscitato il suo interesse. «Come?»

«Useremo la personalità di Bishop, i suoi bisogni, contro di lui.»

«Che significa?»

«Vuole essere apprezzato, ammirato. Ne ha bisogno come di una droga. È per questo che fa quello che fa. È stato escluso e ridicolizzato per tutta la vita, ha il terrore dell’abbandono e prova molto risentimento per il fatto che gli altri non riconoscono la sua genialità. Così fa quello che fa per punire le persone che gli stanno intorno e allo stesso tempo per trattenerle. Più o meno come… Dahmer con gli uomini che uccideva, giusto?»

«Dahmer?» disse Edna con un brivido. «Ti riferisci all’uomo che mangiava le sue vittime?»

Evelyn si pentì subito di quello che le era uscito di bocca. Non c’era bisogno di ricordare a Edna persone ancora più spaventose. «Non importa. Il punto è questo: quando Bishop ci porta da mangiare dobbiamo farlo parlare, fargli perdere tempo, infondergli un finto senso di sicurezza…»

Una smorfia si formò sul viso scarno di Edna, ma Evelyn non ci fece caso e continuò.

«E… e vedere se riusciamo a farlo parlare della ricerca della casa con noi, come se fossimo tutti amici e volessimo stare qui con lui. Questa è la sua fantasia, quello che vuole credere. Quindi diamogli corda. Non vuole affrontare il fatto che lo odiamo e che faremmo di tutto pur di fuggire da lui, quindi fingiamo che non sia così.»

«Come farà a crederci?»

«Rimarresti sorpresa delle menti allucinate che ho incontrato nel mio lavoro.»

«Ma anche se ci dice cos’ha trovato, come facciamo a lasciare traccia di questa informazione? Non abbiamo carta e penna, e se scriviamo su qualcos’altro con il sangue, visto che è tutto quello che abbiamo, lui se ne accorgerà.»

«Non necessariamente. Scriveremo quello che sappiamo sul fondo del materasso. Dubito che gli verrà in mente di capovolgerlo.»

A meno che non avesse deciso di portare il materasso con loro. Perché avrebbe dovuto lasciarlo lì per poi doverne comprare uno? Ma era una possibilità… e poteva essere la loro unica possibilità, quindi dovevano coglierla, nonostante tutto.

Finalmente gli occhi di Edna si illuminarono e le guance presero un po’ di colorito. «Credi davvero che ci rivelerà dove ha in mente di portarci?» le chiese, speranzosa.

Evelyn trattenne il respiro per un attimo. Doveva alimentare la piccola fiamma che stava tentando di instillare in Edna, eppure non poteva mentirle del tutto. Non sarebbe stato giusto e avrebbe potuto costarle ogni credibilità in seguito, magari quando ne avrebbe avuto più bisogno. «Hai mai sentito il detto “ogni lasciata è persa”?» le chiese.

«No» rispose Edna. «Ma capisco quello che vuoi dire.»

«Allora facciamo il possibile, afferriamo ogni opportunità. Io preferirei decidere sul mio destino, tu no?»

Quando Edna serrò gli occhi, le lacrime le scivolarono lungo le guance, ma annuì.

Anchorage, Alaska – martedì, ore 15.45

Lyman aveva portato il SUV di Edna Southwick in un centro commerciale, uno abbastanza sconosciuto da non avere delle telecamere di sorveglianza eppure abbastanza grande da avere un parcheggio affollato dove poteva lasciare l’auto tra molte altre.

Dopo aver parcheggiato, scese e andò a fare compere, rimanendo di proposito nel negozio per più di un’ora, così era impossibile che quelli che lo avevano visto entrare fossero ancora lì quando se ne sarebbe andato.

Quando uscì stava piovendo, quindi le persone prestavano ancora meno attenzione a quello che succedeva intorno, mentre correvano per evitare di bagnarsi.

Sollevato, inspirò a fondo e chiamò un taxi che lo riportasse alla fabbrica.

Sapeva che alla fine la polizia avrebbe trovato l’auto della sua padrona di casa. Dopo essere rimasta ferma per diversi giorni, un impiegato probabilmente avrebbe denunciato la cosa. Sarebbe potuto succedere anche prima, se la polizia si fosse rivolta ai media perché li aiutasse a salvare Edna e la marca e il modello del veicolo sarebbero stati molto pubblicizzati, ma Lyman sperava ci sarebbe voluto ancora qualche giorno. Anche se la polizia l’avesse scoperta subito, non c’era niente all’interno che li avrebbe condotti alla fabbrica. Aveva controllato. Il SUV era registrato all’indirizzo di casa di Edna. Aveva la sua borsa nella sala del personale, quindi nessuno l’avrebbe trovata. E aveva indossato dei guanti, per non lasciare impronte mentre guidava. Si era perfino preso la briga di portare l’auto al lavaggio, facendo risplendere gli pneumatici e i cerchioni, lavandola nell’area apposita per i tirchi e i pignoli, che non volevano pagare gli addetti al lavaggio. Mentre era steso a letto, giorno dopo giorno, a Beacon Point aveva visto parecchi polizieschi, dove una pagliuzza o una cimice aiutavano le autorità a rintracciare un veicolo in una particolare scena del crimine, ma questo non sarebbe stato il suo caso.

Il buon senso suggeriva che se ne sarebbe andato prima che potessero essere espletate certe accurate pratiche forensi, anche se l’indagine fosse cominciata subito. Ma essere prudenti non era mai un male. Non voleva che ci fosse cacca di gallina sui battistrada a ricordare alle autorità che in zona c’era stato un allevamento di pollame non troppo tempo addietro, portandoli direttamente alla sua porta.

Sbarazzarsi dell’auto senza attirare attenzione e sapere che Edna era nella cella frigorifera, dove non poteva causargli grane, avrebbe dovuto migliorare il suo umore. Aveva superato così tanti ostacoli; si meritava la possibilità di godersi il suo successo. Ma non sembrava potersi ancora concedere una pausa. Non stava avendo fortuna con la ricerca della casa, cosa che lo preoccupava. Non voleva stare ad Anchorage, dove si trovava il corpo di Emmett, e a breve anche quello di Edna, cosa che escludeva i più grandi mercati immobiliari dell’Alaska. Comunque Anchorage era troppo vicina a Hilltop e ad Amarok. Preferiva Juneau, la capitale. Con circa trentamila residenti era comunque abbastanza grande, quindi non avrebbe dato nell’occhio. Ma a Juneau non c’erano molte case in affitto, non durante l’estate, quando l’Alaska sperimentava un aumento di lavoro stagionale, soprattutto giovani single che arrivavano per lavorare nelle escursioni turistiche.

Forse sarebbe dovuto andare a Fairbanks. Aveva una popolazione simile a Juneau, ed era la città più grande verso l’interno. Ma si trovava solo a trecento chilometri a sud del circolo polare artico. Secondo quello che aveva letto online, l’aurora boreale, che si manifestava in media duecento notti all’anno, era uno spettacolo meraviglioso, ma i venti di chinook, caldi e secchi, che potevano apportare repentini cambi di temperatura d’inverno, il denso fumo degli incendi boschivi d’estate e la galaverna, non erano allettanti.

«La temperatura media si aggira sui meno dieci, per la miseria» borbottò mentre guardava accigliato le foto che aveva trovato. Non che la sua città natale, Minneapolis, fosse calda durante l’inverno, ma non faceva mai così tanto freddo. Fairbanks era la città che soffriva uno dei maggiori sbalzi termici sulla terra.

Con un sospiro cercò delle case in affitto, giusto per vedere cosa c’era di disponibile, e fu piacevolmente sorpreso nel trovare parecchie opzioni valide. Ma alcune si trovavano in una città chiamata North Pole, che era comparsa nella stessa ricerca. Dopo essersene accorto e averle escluse, trovò una casa, in particolare, che sembrava rispondere alle sue esigenze. Era una vecchia abitazione con tre stanze, due bagni e un garage singolo per milleottocento dollari al mese, a Nugget Road. Un appartamento sarebbe stato più economico, ma a Fairbanks non ce n’erano molti e non poteva rischiare di avere dei vicini di casa. Era quello il bello dell’Alaska: la densità di popolazione era così bassa da consentirgli maggiore privacy di qualsiasi altro luogo, e anche libertà.

Pensò che questo avrebbe compensato il freddo.

Fischiettando Don’t Worry, Be Happy, che era stata la canzone preferita di Beth per anni, scrisse una mail al contatto che compariva sull’annuncio. Ma non appena premette il tasto d’invio il desiderio di fischiettare svanì.

Qualcuno stava bussando alla porta.

Anchorage, Alaska – martedì, ore 16.00

Ada Southwick-Rose si spostò da un piede all’altro in attesa di vedere se l’affittuario di sua madre avrebbe aperto la porta. Sembrava fosse a casa. C’era un furgone sotto alla tettoia. Ma era stato dipinto con uno spray nero ed era abbastanza malconcio, non il tipo di veicolo che si vedeva per strada tutti i giorni. Non era nemmeno sicura che si potesse guidare. Non solo, il tizio ci stava anche mettendo un bel po’.

Forse non voleva essere disturbato…

Si sentiva a disagio a disturbare un estraneo, ma era preoccupata per sua madre. Edna era stata fuori casa tutto il giorno e nessuna delle sue amiche sapeva dove fosse. Non era da lei sparire per lunghi periodi, soprattutto da quando il padre di Ada era morto. Tanto per cominciare guidava sempre suo padre, quindi Edna non si sentiva a suo agio al volante.

Scacciò una zanzara che le ronzava attorno alla testa mentre si voltava per dare uno sguardo alla proprietà. Essere andata lì era probabilmente una perdita di tempo, ma sua madre aveva detto di volere un cane e aveva menzionato il fatto che l’affittuario usava la fabbrica come rifugio. Ada aveva pensato che Edna fosse passata di lì per vedere che razze avesse. Se fosse riuscito a dirle più o meno a che ora, Ada avrebbe almeno potuto rintracciare gli spostamenti della madre. Magari Edna gli aveva anche detto dove sarebbe andata successivamente…

«Posso aiutarla?»

Sorpresa dal rumore, Ada si voltò e vide sulla soglia un uomo calvo e appesantito, più basso di lei. «Signor Edmonson?»

Lyman impiegò un attimo per rispondere, tanto che lei si chiese se avesse sbagliato cognome. Ma era quello che aveva visto sul contratto d’affitto sulla scrivania della madre, e alla fine lui rispose.

«Sì?»

«Mi, ehm, dispiace disturbarla. È solo che… speravo che magari avesse visto mia madre.»

Lyman sbatté le palpebre dietro agli occhiali spessi dalla montatura tartarugata. «Sua madre?»

«Sì. Edna Southwick? È la proprietaria di questa fabbrica.»

«Oh, la proprietaria! No, temo di no. Le ho sempre e solo parlato per telefono.»

«Non è venuta a vedere i cani?»

L’espressione di Lyman rimase neutrale. «Doveva passare?»

«Non l’ha proprio detto, ma diceva di volerne adottare uno. Fatica molto da quando è morto mio padre, così ho cercato di incoraggiarla, le ho detto che mi sembrava un’idea fantastica. Mio padre era allergico, quindi non potevano tenere un cane quand’era ancora in vita. Ma adesso… un animale potrebbe essere la scelta giusta, sa? Alla mamma farebbe bene un po’ di compagnia.»

«Non me ne ha parlato.»

La preoccupazione che l’aveva assalita nelle ultime ore, dopo essere rimasta nella sua casa d’infanzia tutta la mattina a lavorare al computer e aspettare sua madre, che non si era più fatta vedere, aumentò. «Oh. Ehm, magari la prossima volta che la sente può aiutarmi a convincerla che un cane sarebbe davvero una buona cosa.»

«Certo. Glielo farò presente» le disse, ma sembrava stranamente indifferente, come se non gli importasse di trovare casa ai suoi cani.

Ada non aveva mai incontrato un proprietario di canile così poco entusiasta. Visto che lei amava i cani e ne aveva tre, di solito si trovava bene con le persone che li amavano. Ma forse era perché si era presentata lì senza preavviso e lui si era scocciato. Non le aveva chiesto di entrare né si era offerto di farle vedere i cani nella speranza che potesse prenderne uno per sua madre.

E c’era un’altra cosa che le sembrava strana. Se i possibili futuri padroni dei cani dovevano andare lì, perché non puliva almeno il pavimento? Vedeva immondizia e cartoni per le uova a terra. A quanto sembrava ci camminava in mezzo. «Okay. Scusi per il disturbo.»

«Nessun problema» le disse.

Ada si sfregò le braccia. Avrebbe dovuto portarsi una giacca. Per via della pioggia faceva insolitamente freddo, per essere giugno. Ma quando era andata dalla madre per vedere come mai non rispondeva al telefono non aveva pensato di rimanere fuori tutto il giorno. Voleva solo condividere con lei la notizia che aveva ricevuto il pomeriggio precedente: era incinta. Credeva che avrebbe risollevato il morale di Edna, che le avrebbe dato qualcosa per guardare al futuro, soprattutto perché a differenza degli altri nipotini questo bambino sarebbe stato geograficamente vicino a lei, quindi avrebbe potuto essere coinvolta nella sua vita.

Quando Ada raggiunse la sua macchina, si fermò per guardarsi indietro. Pensava che l’affittuario sarebbe rientrato, ma non era così. Lo vide ancora sulla soglia, e la guardava con un’espressione che la fece sentire… a disagio.

Forse gli sembrava strano che lei se ne andasse in giro a cercare la madre. Ma Edna si rifiutava di prendere un cellulare e non aveva un computer. Non era aperta alle nuove tecnologie, non voleva mettersi a imparare, quindi ad Ada non rimaneva altro se non andare fisicamente a cercarla.

Si sforzò di sorridere mentre lo salutava con la mano e, non appena si allontanò, chiamò la sorella via bluetooth.

«Allora?» chiese Nadine non appena rispose.

«Niente.»

«Cosa credi le sia successo?»

Ada aveva voglia di piangere. «Non lo so. Ho guardato dappertutto. Sono stata al supermercato, alla pompa di benzina, dalla sua parrucchiera, dal suo dentista. Ho chiamato tutte le sue amiche. Non l’ha vista nessuno.»

«Mi sembri agitata.»

«Lo sono.» Non riusciva ancora a scrollarsi di dosso la strana sensazione che aveva provato mentre era alla fabbrica di uova.

«Allora quello che ho da dirti non ti aiuterà.»

Ada strinse ancora più forte il volante. Era stata Nadine a dirle di calmarsi, che alla fine si sarebbe risolto tutto. Eppure adesso sentiva che la sorella era preoccupata quanto lei. «Che cosa?»

«Ho parlato con i Merriweather.»

«Quelli che abitano di fronte alla mamma? Sono tornati?»

«Sì.»

«Perché non mi hanno chiamata? Gli ho lasciato un biglietto.»

«Quando li ho chiamati erano appena entrati in casa e stavano correndo per andare a prendere le valigie. Partono per la California per due settimane. Scott ha detto che ti avrebbe chiamato dalla macchina. Altrimenti avevano paura di perdere il volo.»

«Ma hanno avuto il tempo per parlare con te?»

«Non ci è voluto molto, avevano poco da dirmi.»

Ada deglutì, sentiva un nodo in gola. «Hanno visto la mamma?»

«No. E hanno detto che la sua macchina non è nel vialetto da domenica.»