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Minneapolis, Minnesota – martedì, ore 11.10

Amarok aveva il nome del tizio che si era fermato al Quick Stop per le sigarette in quel furgone rubato. Era Emmett Virtanen, un maschio bianco di trentadue anni, uno e novantacinque per centootto chili.

Seduto in un motel da quattro soldi a St. Paul, Amarok studiava la foto segnaletica che il detective Lewis gli aveva inviato per mail. Secondo Lewis, Virtanen era stato davvero in prigione a Faribault, nel Minnesota, con Terry Lovett; si era beccato otto anni per furto con scasso. Erano stati compagni di cella per oltre un anno, e Terry aveva sposato la sorella di Emmett non appena era uscito, solo pochi mesi prima che Emmett fosse rilasciato; a qual punto Lovett era diventato il patrigno dei due figli di Bridget, un ragazzino di dodici anni e una bambina di dieci, ed era stata lei a tradire inavvertitamente la madre quando lo aveva identificato.

Amarok era stato tentato di tornare in Alaska subito dopo aver lasciato casa di Bridget la sera prima, soprattutto quando non era riuscito a farle aprire la porta o a farla rispondere alle sue domande nonostante quello che aveva scoperto. Non gli andava l’idea di allontanarsi quando aveva delle informazioni che potevano portare a Evelyn.

Ma non era così stupido da credere che sarebbe successo tanto presto. Certo, avevano identificato Emmett, ma adesso dovevano localizzarlo. Erano andati entrambi al suo appartamento quella mattina, ma l’avevano trovato buio e chiuso. Anche se Lewis ci stava lavorando non avevano ancora un mandato di perquisizione. Non potevano entrare, quindi da quel momento Amarok si era dato da fare contattando gli altri amici e collaboratori di Emmett, e tutti gli avevano detto di non avere idea di dove fosse.

Amarok sperava che il mandato arrivasse, così avrebbe potuto perquisire l’appartamento mentre Lewis si informava con il servizio di telefonia per il cellulare di Emmett. Quando avrebbero avuto i tabulati sarebbero stati in grado di localizzarlo, sia che fosse nel Minnesota o in Alaska, o da qualsiasi altra parte del mondo.

Comunque il grado di precisione con cui avrebbero potuto stabilire i suoi spostamenti dipendeva da due fattori. Dal fatto che il suo cellulare fosse acceso o spento: se fosse stato acceso avrebbe reso le cose più facili. E a quanti ripetitori si fosse agganciato di recente. Tre ripetitori consentivano una triangolazione, che avrebbe localizzato il telefono all’interno di un raggio di tre chilometri. Se si fosse scoperto che era in Alaska, Amarok avrebbe assolutamente voluto trovarsi lì, ed era per questo che aveva prenotato un volo per l’indomani mattina.

Prima di prendere quell’aereo e mentre attendeva il mandato aveva in mente di andare al Beacon Point per vedere la vecchia stanza di Bishop e parlare lui stesso con il personale dell’ospedale, giusto in caso a Lewis fosse sfuggito qualcosa.

“Fammi sapere appena arriva il mandato” scrisse a Lewis. “Adesso sto facendo il check out all’hotel.”

Lewis gli aveva chiesto quando sarebbe tornato in Alaska, ma Amarok non gli aveva risposto. Lewis non sarebbe stato contento di sapere che stava andando al Beacon Point a rifare un lavoro che era già stato fatto, ma se Amarok era lì in città non si sarebbe perso l’opportunità di verificare tutto quello che poteva.

Aveva appena pagato l’albergo e messo il borsone nel bagagliaio quando gli squillò il telefono. Anche se sperava che fosse Lewis che gli diceva che avevano quello che gli serviva si accorse che il numero apparteneva a qualcun altro.

Suo padre.

Amarok esitò. Non aveva proprio il tempo di parlare con suo padre al momento. Era concentrato sul salvare Evelyn e la loro bambina. Non riusciva a pensare ad altro. Ma sarebbe stato al volante quindi poteva concedere a Hank qualche minuto senza rimetterci nulla.

«Che succede?» gli chiese dopo aver messo in moto e inserito il bluetooth.

«Tua madre mi ha chiamato due volte nelle ultime ventiquattro ore.»

Inserì la retromarcia ma mantenne il piede sul pedale del freno. «Dopo trent’anni l’hai sentita due volte nello stesso giorno?»

«Le ho parlato un’altra volta, quando volevo convincerti ad andare alla festa per il suo cinquantesimo compleanno, ricordi?»

«Come no. Dev’essere stato uno shock sentire la sua voce.»

«Infatti.»

«Mi spiace.»

«Perché dovrebbe dispiacerti?» chiese Hank.

«Perché sono sicuro che ti ha cercato per via della nostra ultima telefonata.»

«Forse è così.»

Amarok uscì dal parcheggio. «Fammi indovinare… vuole che la assolva da ogni colpa?»

«Non ha detto proprio così, ma… sì. In sostanza vorrebbe essere perdonata.»

«Ma tu non la perdonerai, vero?»

«L’ho già fatto» rispose. «E spero che lo farai anche tu.»

Amarok pigiò con forza il freno. «Dopo quello che ha fatto?»

«Le persone commettono degli errori, Amarok.»

«Non come quello, no. E se lo fanno non se la cavano con un “Ops, scusa” dopo così tanto tempo.»

«A cosa serve portare rancore?»

Amarok non rispose subito. Era impegnato a inserire l’indirizzo del Beacon Point sul GPS.

«Amarok?»

Una volta finito svoltò fuori dal parcheggio. «A niente. Ma non sto cercando di punirla. È solo che non ho bisogno di lei nella mia vita. Adesso sono adulto. È troppo tardi.»

«Perché non accettare l’amore che può offrirti anche se sei adulto?»

«Perché sarebbe imbarazzante, strano. Perché dovrei mettermi in una situazione così?»

«Per un sacco di ragioni.»

«Dimmene una.»

Seguì una lunga pausa. «Ascolta, non è una cattiva persona. Certo, quello che ti ha fatto non è giusto. Ma non ero un marito perfetto. Forse in parte quello che è successo è stato anche colpa mia. Nemmeno io ti ho mai parlato di tuo fratello, dopo che se n’erano andati.»

Perché aveva paura che Amarok avrebbe iniziato a supplicarlo di andare a vivere con la mamma per poter stare con il fratello. Questo Amarok poteva perdonarglielo. Hank avrebbe voluto far parte della vita di Jason, se solo Alistair gliel’avesse permesso.

Amarok mise la freccia a sinistra e rallentò. «Papà, ti rendi conto che Evelyn è ancora scomparsa, vero? Non me ne frega un cazzo di niente a parte riportarla a casa, quindi magari possiamo riparlarne in un secondo momento.»

«Phil mi ha detto la stessa cosa quando mi ha dato il tuo numero. Ma è questo il punto.»

«Cioè?»

«Se non riesci a trovare Evelyn… Se, per qualche motivo, dovesse finire male, avrai bisogno di tutto l’amore e il supporto possibili. E tua madre è pronta per una seconda possibilità, la sta aspettando.»

«So che sei preoccupato per me, papà. Ma se non riporto Evelyn a casa non c’è niente che mia madre possa fare per farmi sentire meglio.»

Seguì un lungo silenzio. «Okay. Ma… volevo che sapessi che non mi faresti un torto se decidessi ti accoglierla di nuovo nella tua vita. Anzi, sono favorevole. Tu sei più importante dell’odio che posso provare per lei. Farei di tutto per te, soprattutto adesso che stai passando un momento così difficile.»

«Me la caverò.»

«Ci speri ancora?»

Suo padre non sembrava molto ottimista. «Certo. Evelyn è la donna che amo.»

«Devi essere preparato, Amarok. È passata una settimana. Quante probabilità ci sono che stia bene?»

«Non molte» ammise. «Ma ha già sconfitto il destino in passato, e sto facendo progressi con l’indagine. È solo che ci vuole tempo.»

Hank non lo disse, ma Amarok sapeva cosa stava pensando: il tempo era l’unica cosa che probabilmente non avevano.

«Ti lascio in pace. Non ti ho chiamato per innervosirti. Volevo solo mettere una buona parola.»

«Vorresti che facessi pace con mia madre?»

«Se hai bisogno di lei, sì. Per me è importante che tu abbia quello che ti serve.»

«Be’, in caso te lo stessi chiedendo, tu mi sei sempre bastato. Devo andare.» Premette il pulsante di fine chiamata mentre entrava al Beacon Point e cercò di scacciare dalla mente suo padre e sua madre. Ci avrebbe pensato quando ne avrebbe avuto il tempo. Evelyn aveva bisogno di lui adesso.

Corse verso l’edificio ma si sforzò di rallentare quando raggiunse l’entrata.

Anchorage, Alaska – martedì, ore 8.20

«Oggi non hai voglia di parlare?» chiese Evelyn.

Lyman Bishop era dall’altra parte del pertugio nella porta. Riusciva a vederne il ventre prominente sporgere oltre la cintura marrone che sorreggeva i suoi larghi pantaloni in poliestere, i pantaloni tipici di un uomo molto più vecchio. Ma, a differenza di prima, quand’era stato così affabile, adesso non aveva molto da dire. Sembrava cupo, turbato. Evelyn era preoccupata per quello che gli passava per la testa. Il giorno precedente aveva a malapena dato da mangiare a lei e a Edna. Avevano ricevuto solo un pasto, e nemmeno troppo abbondante. Doveva farlo uscire allo scoperto, così le avrebbe trattate meglio. Edna era traumatizzata per quello che era successo, reagiva in modo infantile, era completamente frastornata.

Evelyn aveva continuato a prometterle che sarebbe andato tutto bene. Anche se non sembrava esserle d’aiuto. Edna continuava a dire cose come: «Non usciremo mai di qui. Se nessuno sa dove siamo come faranno ad aiutarci?» ed Evelyn le offriva una risposta tranquillizzante, ma qualche minuto più tardi lei ripeteva praticamente la stessa cosa. «Non usciremo mai di qui. Moriremo. Ci ucciderà!»

Edna aveva bisogno di cibo, di acqua e di riposo. Evelyn era preoccupata per il suo sguardo vitreo. C’era solo quella piccola branda da condividere. Evelyn aveva tolto il materasso e la coperta così potevano stendersi insieme sul pavimento, ma visto che solo la parte superiore del corpo era appoggiata sull’imbottitura avevano cominciato ad avere male alle anche quasi subito. Si rigiravano di continuo, cercando di trovare una posizione confortevole.

Evelyn immaginò che Edna avesse a malapena chiuso occhio. Sapeva che non aveva dormito per più di venti minuti di fila. Se continuava così, avrebbero dovuto dormire a turno sul letto per non perdere la testa. Il pavimento non era un’opzione valida.

«Cosa c’è da dire?» Lyman le porse il pezzo di cartone che adesso serviva come vassoio. Conteneva due ciotole di plastica con uova strapazzate e salsiccia. Il vassoio in metallo che aveva usato Emmett si era rovinato quando Evelyn aveva cercato si chiudere la porta e lo aveva accidentalmente urtato; quindi in quel caso le cose erano peggiorate, ma il cibo sembrava migliore rispetto a quand’era in carica Emmett.

«L’hai cucinato tu?» gli chiese mentre prendeva il vassoio e lo passava a Edna, che era troppo spaventata per avvicinarsi e prenderlo.

«Certo che l’ho cucinato io. Non c’è nessun altro qui, no?»

Ignorando la stizza nella sua voce, Evelyn si voltò per fare cenno a Edna di rimanere in silenzio, anche se non credeva che la donna si sarebbe intromessa. Edna non mangiava nemmeno. «Ha un buon profumo.»

«Una volta ero un cuoco favoloso.» Parlava con riluttanza, ma Evelyn capiva che gli piaceva chiacchierare, soprattutto di se stesso, e soprattutto in risposta a un complimento.

«Cosa ci hai messo nelle uova? Un po’ di cipolla e spinaci con la salsiccia, magari?»

Lui si piegò per sbirciarla. «Sì. Volevo dare un po’ più di gusto alle uova. E ho pensato che le verdure ti fanno bene.»

«Buona idea. Ma quello che mi serve davvero è uno spazzolino. Non hai idea di quanto sia terribile non lavarsi i denti per così tanto tempo.»

«Non hai uno spazzolino?» gridò lui.

«No. Emmett non me ne ha mai dato uno.»

Lyman sospirò. «Era un tipo difficile con cui avere a che fare.»

«È per questo che sono felice che tu sia qui.» Trattenne il respiro, temeva di essersi spinta troppo oltre con quel commento. Agli psicopatici piacevano i complimenti. Stava compiacendo il suo ego. Ma quello che gli aveva detto era talmente inverosimile che era difficile credere che ci sarebbe cascato e che non l’avrebbe messa di fronte a quel tentativo di manipolarlo.

Con suo stupore, non lo fece. Quando affermò: «Ho cercato di dirti quanto eri fortunata» lei sentì la tensione che le attanagliava il petto allentarsi leggermente.

«A Emmett non importava se mi serviva qualcosa» si lamentò lei. «Ma ho detto a Edna che tu non sei così. Vuoi che siamo tutti felici insieme.»

«Sì» disse, alzando la voce.

«Allora mi darai uno spazzolino?»

«Certo. L’igiene dentale è molto importante. Ha un impatto su tutta la salute. Ma Emmett era uno stupido zoticone, quindi non poteva saperlo.»

«Non era intelligente come te. Questo è sicuro. Posso avere anche un altro cuscino e una coperta per la signora Southwick? Sta male qui dentro. È solo una sistemazione temporanea, come hai detto tu.»

Gliel’aveva chiesto così gentilmente che pensò Lyman avrebbe voluto continuare a fare la parte dell’eroe. Si aspettava che accettasse una richiesta così semplice. Ma lui si incupì. «No. A lei non do niente.»

Evelyn sgranò gli occhi. «Perché no?»

«Perché non sa comportarsi, ecco perché. Si è presentata qui senza nemmeno chiamare… e ha rovinato tutto!»

«Io penso che sia un bene che sia passata» disse Evelyn, cercando di ammorbidirlo. «Mi ha reso molto più felice avere un po’ di compagnia, no?»

Lui sembrò prendere in considerazione quella risposta. «A quanto pare sì. Ammetto che all’inizio anch’io ho cercato di vederla sotto una luce positiva. Ho pensato che avrebbe potuto aiutarti quando sarebbe arrivato il momento del parto. Mi preoccupa come andrà senza un dottore. Ma non ragionavo lucidamente. Non può mica scomparire da un giorno all’altro.»

«Giusto» gli disse in tono dolce. Doveva continuare a farlo parlare a ogni costo.

«Verranno a cercarla» continuò lui. «E, a differenza tua, lei è collegata a questa fabbrica. Dopo che avranno cercato in casa sua e magari in qualche altro posto che frequenta, controlleranno anche qui.»

Evelyn si accigliò. «Non puoi solo dire che non l’hai vista? Mi ha detto che nessuno sa che aveva intenzione di passare di qua.»

Sembrava che Lyman volesse aggrapparsi a quella facile soluzione. Adesso che Edna era con lei, Evelyn non voleva che le trasferisse altrove… perché Lyman aveva ragione. La presenza di Edna aumentava le loro possibilità di essere ritrovate.

Ma poi lui disse: «E se mi chiedono di dare un’occhiata in giro?»

Ovviamente per Evelyn quella sarebbe stata l’eventualità migliore. Anche se le dispiaceva moltissimo che Edna adesso stesse affrontando la sua stessa privazione, la paura e un grande pericolo, non poteva fare a meno di sperare che la sventura dell’anziana avrebbe avuto un risvolto positivo, che avrebbero trovato entrambe. «Non devi permetterglielo.»

«Se mi rifiuto, sospetteranno qualcosa e torneranno con un mandato di perquisizione, a quel punto scopriranno il corpo di Emmett sotto a tutto quel letame nel pollaio sul retro. E dubito che mi crederanno quando gli dirò che sei stata tu a ucciderlo.»

Quando Evelyn non negò il suo coinvolgimento, Edna piagnucolò sul letto. Doveva essere sconvolta da quella conversazione, come qualsiasi persona normale. Evelyn non aveva menzionato Emmett, non aveva detto a Edna quello che aveva dovuto fare. Forse era stato un errore; era molto più difficile sentirlo raccontare così, con noncuranza. Ma in quel momento non poteva fornire spiegazioni o cercare di giustificare le sue azioni. Doveva far credere e Bishop che era una specie di sua complice, far leva sul suo desiderio di essere apprezzato e ammirato… il suo desiderio di essere amato, per quanto fosse tragico e depravato mentire così a qualcuno, altrimenti non sarebbero mai potute scappare.

«Non so se sia del tutto vero» disse, abbassando la voce a un sussurro per farsi sentire solo da Bishop. «È solo un’anziana che ha perso il marito e il lavoro, non ha molto altro nella vita. Non penso che si accorgeranno della sua assenza.»

Il cuore le martellava in petto mentre aspettava la risposta di Bishop. Aveva un bisogno disperato di fargli credere che non c’era nulla di cui preoccuparsi, così si sarebbe rilassato, e quelli che invece si sarebbero accorti dell’assenza di Edna, avrebbero avuto la possibilità di trovarle.

«Non posso correre il rischio» le disse. «Tu e il nostro bambino siete troppo importanti per me.»

Evelyn dovette conficcare le unghie nel palmo per non reagire a quell’affermazione, per quanto fosse tentata. Lyman faceva sembrare che potesse facilmente prendere il posto di Amarok.

«Allora… cosa farai?» Fu orgogliosa di se stessa quando riuscì a sembrare normale, interessata, che le andasse bene che lui reclamasse lei e la sua bambina come una sua proprietà.

«Sto cercando un altro posto dove andare, ovviamente. Questo non è più adatto… quella ha rovinato tutto.»

Si riferiva a Edna.

«Possiamo… possiamo trovare un modo per restare, no?»

«Non mi ascolti?» le disse, palesemente irritato. «No, non possiamo. Ed è un bel problema, soprattutto quando ho bisogno di più tempo per riprendermi e rimettermi in piedi.»

Cercò di sbirciare alle spalle di Evelyn per rivolgere un’occhiataccia a Edna. Era chiaro che voleva far capire alla donna che era tutta colpa sua e di nessun’altro. Ma lei non gli prestava attenzione. Era seduta contro il muro, avvolta nella coperta con gli occhi chiusi, come se non sopportasse di aprirli.

Evelyn si sporse più vicino al pertugio. Voleva chiedere a Bishop cosa avrebbe significato per Edna se avessero cambiato posto, se sarebbe andata con loro. Ma aveva paura della sua risposta… e che non l’avrebbe detto a voce bassa. Se avesse dovuto scommettere, era sicura che Lyman sarebbe stato felice di lasciare la povera Edna a marcire nella merda di gallina con Emmett.

«Puoi farmi un favore?» gli chiese.

Sorpreso dalla richiesta, o forse dall’intimità nella sua voce, visto che Evelyn stava cercando di assecondarlo nella sua errata convinzione che sarebbero stati una coppia, si sporse anche lui. «Che tipo di favore?»

«Mi lasceresti tenerla con me come aiutante per quando avrò il bambino e magari come infermiera per i primi mesi? Hai avuto una buona idea. Potremmo davvero usarla.»

Evelyn trattenne il respiro mentre attendeva la sua risposta. Doveva pensare a qualche motivo per cui Edna doveva andare con loro. Anche se non poteva esserne certa, era piuttosto sicura che quello fosse l’unico modo per tenerla in vita. Perché anche se non l’avesse uccisa subito, anche se l’avesse semplicemente lasciata lì, rinchiusa in quella maledetta cella frigorifera, avrebbe potuto essere troppo tardi quando qualcuno l’avesse trovata.

Non l’avrebbe mai lasciata andare, non poteva. Se lo avesse fatto, Edna avrebbe potuto portare lì la polizia prima che lui se ne andasse.

«No» le disse. «Non mi piace quella donna. E poi mi complicherebbe le cose.»

E, ovviamente, lui era l’unico che contava. Gli psicopatici erano i peggiori stronzi sulla faccia della terra.

Hilltop, Alaska – martedì, ore 8.30

Jasper capì di essere nei casini quando non riuscì a farsi scortare dalle guardie e nemmeno a farsi guardare in faccia dagli altri detenuti. «Ehi, Cadiz» chiamò. «Non mi stai a sentire? Ho detto che ho bisogno di parlare con il sergente Murphy.» Lo aveva detto non appena la porta della sua cella si era spalancata ed era uscito. Ma Cadiz sembrava avere cotone nelle orecchie. E lo stesso valeva per il comandante Perez.

«Cosa vi prende?» gridò quando gli fecero pressione perché camminasse. «Ho delle informazioni sulla dottoressa Talbot! Devo parlare con l’agente il prima possibile.»

Cadiz fece una smorfia. «Come no.»

«È vero! Posso dirgli dove si trova… o almeno indirizzarlo sulla pista giusta.»

«Parecchio comodo che tu abbia quest’informazione adesso» mormorò qualcun altro.

«All’improvviso può aiutare il sergente Murphy a salvare la dottoressa» disse un altro, ridendo.

«Come se davvero lo farebbe, anche se potesse» aggiunse un terzo.

«Lo farei! Voglio che torni, come tutti voi» insistette lui, ma quando Cadiz diede un’occhiata a Perez, che faceva da fanalino di coda chiedendogli cosa dovesse fare, Perez scosse la testa in diniego.

«Che significa?» gridò Jasper quando vide quello scambio. «Perché gli hai detto di no? Non avete idea di quello che so!»

«Non c’importa delle stronzate che ti sei inventato per salvarti il culo. Nessuno vuole perdersi lo spettacolo quando te la faranno pagare» disse un altro carcerato.

Jasper aveva fatto bene a preoccuparsi. Quella mattina Roland aveva qualcosa in serbo per lui. «Se la dottoressa Talbot muore, sarà colpa vostra.»

«Proprio tu che hai cercato di ucciderla!» gridò qualcuno. «Più di una volta. Quindi come ti aspetti che crediamo che adesso vuoi salvarla?»

Jasper si voltò, in cerca dell’uomo che gli aveva sogghignato contro tutta la mattina, e vide Roland camminare in mezzo a un gruppo di uomini subito davanti a Perez. Tutti volevano stare al suo fianco. Anche le guardie erano dalla sua parte, e la cosa mise Jasper a disagio. Non sapeva come uscirne e riconquistare il comando. Per la prima volta in vita sua, si sentì del tutto impotente.

Quando Roland incrociò il suo sguardo, Jasper sentì le ginocchia cedere e il cuore cominciò a martellargli in petto.

«Non pisciarti addosso» canticchiò Roland.

Cazzo! Jasper non gli avrebbe permesso di aggredirlo. Se fosse successo qualcosa le guardie non sarebbero intervenute, almeno non finché non fosse stato assolutamente necessario. Sapevano cosa stava per succedere, eppure non facevano nulla per impedirlo.

«Stronzate. Oggi non vado alle docce» disse Jasper, togliendosi dalla fila.

Roland e i suoi amici lo superarono senza aggiungere altro, ma Perez lo raggiunse un attimo dopo e sollevò il taser. «Muoviti.»

«No. Non sono obbligato. Farò la doccia giovedì e domenica.»

«Mi spiace, ma la pioggia ha allagato le strade, quindi oggi siamo a corto di personale. Non posso lasciare solo Cadiz per riportarti in cella. E poi puzzi, e gli altri uomini si lamentano. Quindi ti farai la doccia oggi

Non puzzava, quindi nessuno poteva essersi lamentato. Era una scusa, un motivo per costringerlo ad andare alle docce, dove Roland lo stava aspettando.

«Adesso non fai tanto il duro!» gli gridò qualcuno, e ancora una volta ci furono delle risate.

«Smettila di fare la femminuccia» sbraitò qualcun altro.

Quei bastardi si erano schierati tutti dalla parte di Roland.

«Ti muovi o devo usare questa pistola?» chiese Perez.

Jasper sollevò le mani, sulla difensiva. «Ascoltatemi. Non vorrete mica essere complici di questa cosa. Non è giusto.»

«Hai brutalmente torturato e poi assassinato più di trenta donne. Hai perfino ucciso i tuoi genitori, Cristo santo! E adesso ci vieni a parlare di quello che è giusto

Il terrore gli risalì in gola come bile. Si sentivano giustificati a fare quello che volevano perché lo consideravano giusto. «Dovete fermarvi e riflettere! Se permettete che accada, perderete il lavoro.»

«No, io no. Io mi sto solo assicurando che un uomo lurido si faccia una doccia. È questo il mio lavoro.»

Discutere non serviva a niente. Quello che diceva non aveva importanza. Non credevano che sapesse qualcosa su Evelyn, pensavano che stesse semplicemente cercando di evitare un pestaggio, il che era la cosa più ironica che gli fosse successa, perché poteva davvero salvare Evelyn. O almeno credeva di poterlo fare… se quello che Chastity gli aveva inviato significava qualcosa.

Si voltò e cercò di scappare. Non aveva altra scelta.

Prima che riuscisse a fare tre passi, Perez premette il pulsante del taser e lo colpì com’era successo in biblioteca, paralizzandolo con un’intensa scarica di corrente elettrica. Poi Perez lo trascinò nelle docce, e una volta lì due carcerati lo spogliarono.

Jasper non si era mai sentito così vulnerabile come quando vide Roland che lo aspettava. Quello fu il momento in cui capì che non ne sarebbe uscito.

Diede un pugno a Roland – non avrebbe aspettato, era sempre sulla difensiva – e combatté più che poté. Ma dopo soli pochi minuti, l’altro gli piegò il braccio dietro la schiena finché non gli sembrò che si strappasse. Riuscì solo a gridare per il dolore, anche se fu comunque in grado sentire la parete scivolosa della doccia quando Roland ce lo sbatté contro.

«Bene, bene, cosa abbiamo qui?» chiese Rufus in modo spiritoso mentre faceva un passo verso il vapore che si accalcava spesso e caldo intorno a loro.

Jasper non vedeva più le guardie. Se l’erano filata così potevano fingere di non avere idea che lo stessero per picchiare.

«Figli di puttana! Ve la farò pagare!» gridò Jasper, ma nessuno sembrava preoccupato dalle sue minacce. Sentì i peli del petto di Rufus che gli premevano contro la schiena, sentì il suo respiro sulla guancia, perfino più caldo del vapore. «Mi piacciono le iniziazioni» mormorò, e leccò l’orecchio di Jasper.

«So… so dov’è la dottoressa Talbot» gracchiò Jasper. A quel punto non gli importava se Evelyn fosse tornata viva. Stava solo cercando di salvarsi la pelle.

Adesso dovranno credermi, pensò. Ma nessuno lo fece.

O… forse non era riuscito a pronunciare quelle parole. Non lo sapeva, non riusciva a pensare con lucidità, soprattutto dopo che sentì qualcosa che non voleva sentire contro il sedere, e cercò di scalciare Rufus per allontanarlo.

A quel punto, tutti quelli che si aggiravano alla periferia del cerchio sembrarono ammassarsi più vicini e alcuni si fecero addirittura avanti per colpirlo o sferrargli dei calci, cosa che scatenò una mischia.

In un certo senso questo fu un sollievo per Jasper. Non se ne sarebbero stati tutti lì attorno a guardarlo mentre veniva stuprato, com’era nelle intenzioni di Roland. Ma con tutta quella rabbia e testosterone nell’aria il livello di violenza si scatenò in fretta, come un fiammifero sulle fiamme, ed entro pochi secondi la situazione si trasformò in un pestaggio alla vecchia maniera.

Jasper sentì colpi provenire da ogni parte: pugni, piedi, ginocchia, gomiti. Una brutta testata gli fece vedere le stelle, ma l’agonia si trasformò in sollievo perché dopo questo non riuscì a sentire molto.

Roland cercò di trattenere gli altri. Jasper lo sentì vagamente gridare che poteva gestirsela lui, che non andava bene che tutti infierissero. Ma per una volta nessuno gli diede ascolto, così lasciò andare Jasper e uscì dalla mischia.

Anche allora Jasper non riuscì a scappare. Era la carogna e loro gli avvoltoi, che banchettavano con la sua carne.

L’ultima cosa che ricordò fu quando cadde a terra a fissare l’acqua che fuoriusciva dai soffioni mentre un detenuto di nome Lester, che aveva due capsule d’oro al posto degli incisivi, si sporse su di lui, brandendo il coltello che Roland gli aveva mostrato poco prima.

Forse lo avrebbero accoltellato prima di poter essere stuprato, pensò, e poi tutto divenne buio.