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Tutta una tirata da Sulmona alla Calabria. Giunsi in paese con un buio che metteva spavento e un freddo che non ricordavo. Avevo deliberatamente scelto di arrivare a notte inoltrata. La vecchia casa, in stato di abbandono dai tempi in cui mio padre comandava i carabinieri del luogo, non era il posto più adatto per accogliere un viandante.

 

Sulla madia del soggiorno vidi la foto di papà in uniforme. Le tolsi la polvere ma non la presi, restai a fissarla da una certa distanza. Quindi mi abbandonai sulla sedia a dondolo che nell’infanzia era stata il mio nido, ormai ridotta a uno scheletro cigolante. Era sempre lì, dove l’avevo piazzata tanti anni prima. Da quel punto individuato dopo vari aggiustamenti, che permetteva di controllare l’intero ambiente compreso il corridoio, indugiai a ricordare il passato.

 

Mi scossi quando dalla finestra filtrò la luce dell’alba. C’era un uomo che dovevo incontrare prima di vedere Maria, sperai che il tempo lo avesse serbato mattiniero come lo conoscevo da bambino. Il mio auspicio fu esaudito, Procopio il salumiere amava ancora svegliarsi con il sole. Mi riconobbe al primo sguardo e spalancò quelle braccia che tante volte mi avevano accolto quando cercavo la mia strada fra le pagine dei libri che mi porgeva, estraendoli magicamente immacolati da un bancone unto di grasso. Voleva che leggessi prima di addormentarmi. Solo così, sosteneva, quelle avventure sarebbero rimaste nei miei sogni e mi avrebbero portato lontano, oltre la linea dell’orizzonte.

 

Lo strinsi a lungo, parlandogli di cosa avevo trovato al di là del mare, delle mie storie mai finite perché mai davvero incominciate, e di Nino, che amava quanto me ma di un amore diverso. Era il suo figliol prodigo prima ancora che lasciasse il paese, peccato che il vitello grasso per lui non fosse servito, al suo ritorno il bambino non c’era più, in fondo al cuore gli era germogliata la malapianta. Diventato l’esattore della ’ndrangheta, non fece sconti all’uomo che era stato il suo secondo padre.

 

 

 

L’incontro con Maria fu un’altra ferita. Non sapevo come guardarla, lei si trovava nella mia stessa difficoltà. L’avvocato l’aveva informata della decisione del marito, così saltammo i preamboli e ci occupammo subito dei preparativi per la partenza. Per tutto il tempo Stefania mi fissò di traverso, come se mi guardasse da una dimensione che le rendeva impossibile comunicare. Per coinvolgerla scelsi una via indiretta, mi rivolsi alla cugina. «Anche lei viene con voi?».

 

I bambini erano fuori, li avevano volutamente lasciati a dormire dai nonni. In casa non c’era nessuno a parte noi tre, era evidente che mi fossi riferito a Stefania.

 

«Sta parlando di me, quello?».

 

«Rocco è l’unica persona di cui ci possiamo fidare» le rispose Maria con tono tagliente. Poi si girò verso di me. «Certo che viene, lei appartiene alla nostra famiglia».

 

Mi rassegnai, capivo bene che in quella situazione già complessa Stefania sarebbe stata il problema principale, ma avevo promesso a Nino di occuparmene. Le guardai entrambe.

 

«Partiremo con la mia auto, gli uomini del Servizio di protezione ci agganceranno in autostrada. In una località segreta vi attende un appartamento arredato. Le gemelline vanno a scuola?».

 

Maria non aveva perso una parola. «Iniziano l’anno prossimo».

 

Per un attimo mi distrassi dal piano e andai con la mente a Nino. Non sapevo più niente del mio amico d’infanzia, nemmeno l’età dei suoi figli. «Meglio così, avremo più tempo per organizzare le cose. Vi daremo una nuova identità, userete documenti di copertura».

 

Stefania ritenne opportuno dire la sua. «Io mi voglio chiamare Jennifer». Continuò a ripetere il nome fra sé e sorrideva, doveva piacerle molto.

 

Richiamai la sua attenzione con un colpo di tosse. Non feci fatica a ottenerla, la faccenda iniziava a sembrarle attraente. Magari stava pensando che in un posto nuovo, dove nessuno conosceva i suoi trascorsi, si sarebbe rifatta una verginità. Io ne dubitavo, ma c’era una questione che mi premeva di più.

 

«Con la vita di prima dovete tagliare completamente i ponti, nessuno del paese deve sapere dove vi trovate. Su questo punto dovrete impegnarvi per iscritto, firmerete un contratto e qualunque violazione delle regole potrà comportare la sospensione delle misure di tutela».

 

Stefania non rinunciò all’ennesima sceneggiata. «Era così anche a scuola» commentò schioccando la lingua, «quando facevo la cattiva la maestra mi metteva subito in punizione. Tu non fai mai il cattivo, tenente Rocco?» mi chiese fissandomi con uno sguardo tra il provocatorio e il provocante.

 

La ignorai e mi rivolsi alla cugina. «Inizialmente saremo noi a dare notizie ai vostri genitori. Più avanti si vedrà».

 

Maria non fece obiezioni. «Vado a finire di preparare i bagagli».

 

Non attesi a lungo, di lì a poco le due donne portarono nell’ingresso alcune valigie.

 

Poi vidi arrivare un’auto. Era il nonno materno che riportava i bambini. Rientrai e me lo trovai di fronte, non disse una parola. Non era un uomo di ’ndrangheta come il padre di Nino, ma nei miei confronti non provava simpatia.

 

Le piccole invece si avvicinarono subito. Erano curiose, le novità le attiravano e io in quel momento ne rappresentavo una, uno sconosciuto entrato nella loro vita da un inatteso spiraglio.

 

Anche Nino era stato innocente come loro, ma in seguito il gene paterno aveva trionfato. Al volante dell’auto, con Maria accanto e il piccolo in braccio, Stefania e le bimbe più grandi sul sedile posteriore, mescolai nei pensieri la strada con i percorsi dell’esistenza. Le riflessioni sul destino erano un labirinto senza uscita, ogni volta che mi addentravo ci restavo intrappolato. Ma di una cosa ero certo: avrei difeso quei bambini a costo della vita. Le mie vere motivazioni in quel momento non servivano.