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Definirla la Grande Mela non è abbastanza. Dopo aver girato Manhattan in lungo e in largo, da Times Square alla Quinta Strada, dal Central Park alla punta meridionale che da Wall Street conduce a Battery Park, mi sembrava di nuotare in una gigantesca coppa di macedonia, con frutti di ogni stagione.

 

Non puoi sentirti estraneo in una metropoli dove nessuno è uguale all’altro, dove ascoltando le voci a un semaforo ti perdi in una babele di lingue, o guardandoti intorno al ristorante puoi tracciare la mappa dei cinque continenti.

 

Chiara Sanfilippo naturalmente abitava nel Village. Inutile aspettarsi altro dalla figlia di un giornalista famoso, l’adolescente che a sedici anni pubblicava i suoi primi articoli, la giovane che a venti vinceva premi letterari, la donna che a trenta sceneggiava fiction diffuse da un capo all’altro degli States, prodotte dalla mitica HBO.

 

La visita di un ufficiale dei carabinieri, che aveva attraversato l’oceano per incontrarla, la turbava oltremisura. Potevo capirla, da quando suo padre era scomparso simili incursioni non avevano mai portato a niente di buono. Nella migliore delle ipotesi erano confluite nell’ennesimo capitolo di un libro composto da pagine bianche, privo di novità come certi notiziari delle reti all news, che mettono in onda all’infinito gli stessi servizi sperando che gli spettatori nel frattempo siano cambiati.

 

«È un piacere, tenente Liguori» mi disse stringendomi la mano, ma il suo sorriso era spento e la pronuncia, con un marcato accento americano e nessuna traccia delle origini siciliane, non dava prova di una reale convinzione.

 

Mi offrì un caffè. Dopo averlo bevuto estrasse un pacchetto di Marlboro e mi chiese se mi desse fastidio il fumo. Le assicurai di no anche se, da quando esistono i divieti, mi accorgerei di una sigaretta accesa perfino nel cuore della foresta amazzonica, nel respiro odoroso degli alberi secolari.

 

Entrai subito nel vivo delle ragioni del mio volo intercontinentale. Lei mi ascoltò silenziosa, impassibile come una sfinge. La sua maschera crollò quando arrivai al racconto degli scavi condotti alla periferia di Palermo.

 

Accolse senza tradire altre emozioni la pietra tombale sulle sue residue speranze, accettando all’istante la mia richiesta di procedere all’identificazione di suo padre. La vidi perplessa solo quando provai a sondare quanto sapeva sul possibile movente dell’omicidio.

 

«Mia madre è morta nel darmi alla luce e da allora io e mio padre siamo vissuti da soli. Ma all’epoca della scomparsa ero molto giovane e lui non si confidava con me riguardo al suo lavoro. Non mi reputava all’altezza, oppure non voleva farmi preoccupare parlandomi delle sue inchieste contro la mafia».

 

«Mi sembra ragionevole» ammisi, ma non era ancora tutto. «Il nome di Giuseppe Mandalà le dice qualcosa?».

 

«A sentire gli inquirenti, dietro il fatto di papà c’era la sua mano». Il labbro superiore le tremò. «La sua responsabilità però non è mai stata provata» aggiunse.

 

«Anche secondo Calabrò, il collaboratore a cui dobbiamo il nuovo filone d’indagine, il mandante dell’omicidio sarebbe il Mandalà. E a questo punto, dato l’immediato riscontro alla sua attendibilità, l’ipotesi di un coinvolgimento del boss risulta avvalorata».

 

«Peccato che neppure sulla sua sorte ci siano notizie certe» fu pronta a ribattere.

 

Aveva un tono disilluso e potevo capirla, la giustizia terrena non le aveva offerto grandi prove. Nel suo sconforto c’erano però altre radici, forse meno personali ma non per questo meno profonde. Conoscevo anche quelle, le avevo scoperte da ragazzo leggendo Il giorno della civetta e, dopo il mio arrivo a Palermo, il senso del romanzo mi appariva più chiaro.

 

Guardando la donna, leggendo nei suoi occhi un dolore senza risposte, pensai all’iniquo rancio di verità e menzogne che sfama l’isola da tempo immemore. Al torto di assimilare alla piovra, in accuse frettolose e infamanti, una regione abitata da milioni di onesti, fra i quali spiccano le vittime di una lotta al cancro mafioso che i siciliani li ha sempre visti in prima fila.

 

Fummo interrotti, suonarono alla porta. Era Consuelo, la colf cubana. Accanto a lei c’era un bambino di circa quattro anni che si tuffò nelle braccia della padrona di casa. «Mamma, la pista del Rockefeller è bellissima!».

 

Dove c’è un figlio c’è un padre, pensai, e il mio sguardo esplorò la stanza cercando una foto di famiglia. Ma l’istante dopo mi ritrovai il piccolo di fronte, gli occhi piantati nei miei. «Scrivi i film con la mamma?».

 

Me lo chiese prima in inglese e poi, visto che indugiavo a rispondere, in perfetto italiano.

 

La donna si affrettò a spiegare. «Ken è bilingue, mio marito è americano ma sul mettere a frutto l’appartenenza a due culture diverse siamo perfettamente d’accordo».

 

Si rivolse al bambino nella mia lingua. «Il signore è un amico venuto a trovarci dall’Italia. Adesso però dobbiamo fare i compiti».

 

Era un modo gentile per dirmi che dovevo andare. Mi alzai.

 

«Ciao Ken. Mi raccomando studia, così da grande i film li scrivi anche tu».

 

Sorrisero entrambi. Lei mi accompagnò all’ingresso mentre Consuelo trascinava di peso il bambino nella sua stanza.

 

«Allora siamo intesi» mi disse, «verrò a rendere la mia deposizione domani stesso. È nel mio interesse che le indagini facciano al più presto il loro corso».

 

«La aspetto alle dieci, per qualunque evenienza mi chiami pure a questo numero». Le porsi il mio biglietto da visita, che intascò senza guardare.