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Per quante volte la si possa incontrare, non ci si abitua a una persona così. Il puparo aveva negli occhi un magnetismo che suggeriva una domanda immediata: il suo carisma era innato o si poteva scomporre, una parte dovuta alle doti naturali e l’altra alla sua vita eccezionale? Non ebbi il tempo di darmi una risposta.

 

«Attendevo la sua visita. Si accomodi, prego».

 

Ringraziai e raggiunsi la poltrona di fronte alla sua. Seguiva a distanza i miei gesti come se nel suo sguardo ci fosse un raggio che li illuminava, me lo sentivo addosso. Ero in imbarazzo, toccò di nuovo a lui parlare.

 

«È molto giovane, tenente Liguori».

 

Lo disse con un sorriso, ma era un dono avvelenato, come la veste offerta ad Armonia per le sue nozze. Nella mia testa scattò un campanello d’allarme, dovevo ribattere o avrebbe dominato l’intero colloquio.

 

«Se gli uomini si misurassero dagli anni, capire l’umanità sarebbe la cosa più semplice del mondo. Peccato sia il contrario».

 

La mia risposta lo divertì. «Ottima considerazione» commentò. «Mi dica dunque a cosa devo il piacere».

 

Presi coraggio. «Dovrebbe saperlo, dal momento che si aspettava di vedermi. Sono qui per parlare di suo figlio».

 

Pensare di aver guadagnato terreno era un’illusione, la volpe che avevo davanti era avvezza a cacciatori più esperti.

 

«Nominare a un padre il figlio perduto significa riaprire una ferita dolorosa». Mi fissò. «Non può immaginare quanto».

 

«Sto cercando di capire le ragioni della sua scomparsa, e la prospettiva di dargli giustizia dovrebbe interessare anche a lei».

 

Dal cortile giunsero alcune voci. D’istinto pensai a Steve, che era rimasto in auto. Il puparo mantenne gli occhi fissi nei miei.

 

«È sufficiente intendersi sul concetto» ironizzò. «Esiste una giustizia da offrire alla vittima? Un processo è come la pioggia, se ci stai sotto ti bagni, ma una volta caduta non resta niente. O forse intende parlarmi delle leggi divine, che nessuno è tornato a dirci come funzionano davvero?».

 

Sorrisi. «Le armi del diritto sono le migliori, ne sono convinto. Sono le sole che non riempiono le strade di morti ammazzati».

 

Mi guardò con approvazione. «Fa bene a pensarla così, lei porta una divisa».

 

Restò qualche istante in silenzio, poi sembrò ricordarsi di una cosa. «Devo aver perso le buone abitudini, da troppo tempo non ricevo visite. Gradisce un caffè?».

 

Accettai.

 

«Carmela!». Un’anziana signora comparve al suo richiamo. Calogero Mandalà diede disposizioni che la donna ascoltò con ossequio. Mentre attendevamo il suo ritorno studiai come ripartire.

 

«Lei ha ricoperto incarichi di rilievo e conosce bene Palermo» esordii. «Togliamo i riferimenti ai fatti specifici, se si trova meglio così. Poniamo che in città scoppi una guerra di mafia, che un capo mandamento scompaia e per anni se ne perdano le tracce. Un uomo della sua esperienza dove andrebbe a cercare i responsabili?».

 

Il vecchio allargò le braccia. «Tenente, lei mi attribuisce un ruolo che non ho mai avuto. Conosce il campo della scultura?».

 

La domanda mi sorprese. Mi guardai intorno, nel salone arredato con gusto che il suo sguardo penetrante mi aveva impedito di ammirare. Sui lati più lunghi notai due grandi librerie, negli scaffali spiccavano volumi d’arte dalle copertine intarsiate. Alle pareti erano appesi quadri di valore, sui ripiani c’erano statue di marmo e di bronzo che avrei volentieri osservato da vicino.

 

«Non sono un esperto» ammisi. Non capivo dove volesse arrivare.

 

«Saprà che per realizzare un’opera, specie se di grandi dimensioni, non basta una sola persona».

 

«Posso immaginare» replicai, andando a tentoni.

 

«La prossima volta che le capita di entrare in un museo, provi a fare caso alle scritte accanto alle statue. Noterà che spesso, sotto il nome dello scultore, è riportata la dicitura sbozzatore ignoto. Sa cosa vuol dire?».

 

Mi stavo spazientendo, non avevo percorso tanta strada per farmi chiamare ignorante da chi, nella vita, aveva espresso il suo talento nell’arte del crimine.

 

«Lo ignoro» risposi seccamente.

 

Si accorse del mio nervosismo. «Arrivo al punto, non si preoccupi. Palermo è meravigliosa, l’avrà apprezzata, ma ha il difetto dell’indolenza. Da secoli lascia che l’uomo le scriva sul bianco della pietra con il nero del cuore. Ebbene, questa città è da sempre il mio marmo. Per tanto tempo sono stato l’ignoto sbozzatore di vari scultori. Cerchi pure quanto vuole, non troverà la mia firma da nessuna parte».

 

Di colpo ogni arredo in quella sala era svanito: le librerie, i quadri, le statue, i volumi. Il volto di don Calogero era una rete che pescava il mio sguardo.

 

«Eppure» proseguì, «sapesse in quante opere ho messo la mia mano. Non si meravigli se lo confesso, parlo di fatti archiviati da decenni».

 

Si alzò di scatto, con una rapidità insospettabile per un uomo che portava sulle spalle le sue primavere.

 

«Lei vuol sapere cosa è successo a mio figlio. Ma allora si ponga la giusta domanda!».

 

La frase ebbe la durezza dell’acciaio. Si era come trasfigurato, l’età non contava, sembrava possedere una forza senza tempo. Lo immaginai al governo dei venti dal suo timone invisibile.

 

Lasciai che a raggiungerlo fosse la mia voce. «Quale sarebbe la giusta domanda?».

 

Non si voltò. «Cui prodest. Si chieda chi poteva volere che Giuseppe sparisse dalla scena e troverà la risposta».

 

Da quel momento ripristinò le miti sembianze di un siciliano ospitale, guidandomi da perfetto cicerone fra le opere di valore che adornavano la sua residenza. Possedeva marine di Antonino Leto, paesaggi ottocenteschi di altri artisti siciliani e perfino una tela di Guttuso. Per un attimo fui tentato di chiedergli del Caravaggio sottratto alla fine degli anni Sessanta dall’Oratorio di San Lorenzo. Sul furto del prezioso dipinto, mai ritrovato, fin dall’inizio si è allungata l’ombra scura della mafia. Rinunciai, non ne avrei cavato nulla.

 

Anche sul figlio non mi aveva detto granché, riflettei mentre Steve percorreva a ritroso la strada. Il mio amico autista aveva messo un cd di musica balcanica, omaggio al comune ricordo di quelle terre lontane. Abbandonai le mie domande e mi lasciai rapire dalla melodia, che mi faceva tornare a un altro tempo. Solo sette note e puoi riempirci l’universo, fu il mio ultimo pensiero, prima che il sonno arretrato reclamasse i suoi diritti.