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Il sole adesso era una palla di fuoco, irradiava Palermo quasi a compensarla di tanta violenza. La mia mente virò ai dipinti di Francesco Lojacono che avevo ammirato nella Galleria d’arte moderna al Complesso monumentale di Sant’Anna. Qualcuno aveva chiamato quel pittore “il ladro della luce”. Percorrendo a piedi via Maqueda diretto ai Quattro Canti per poi svoltare verso la Questura, mi resi conto del perché. Una tela del pittore, con la città sullo sfondo vista da Monreale, aveva staccato i colori dal cielo di quel pomeriggio.
Mostrai il tesserino all’agente di guardia nella certezza che avesse già fiutato il collega. «Sono il tenente Liguori dei carabinieri. Vorrei parlare con il commissario della Omicidi».
«Si accomodi in sala d’attesa» rispose con garbo misurato. «La dottoressa Morandi scende a riceverla» annunciò di lì a poco. Passò un attimo e me la trovai negli occhi, lucente di un sorriso che annullava il tempo trascorso.
«Vera» riuscii a balbettare prima che il suo abbraccio mi avvolgesse.
«Il mondo è piccolo» disse ridendo.
Nel bar di fronte alla cattedrale colmammo i vuoti di una distanza che, a dispetto degli anni, ci sembrò breve come l’istante che ci aveva ricongiunti. Era tanta l’acqua passata sotto i ponti: la sua promozione, la mia missione nei Balcani, il suo approdo a Palermo, il mio incontro con Nino. Sulle notizie mai scambiate pesava la comune incapacità di afferrare un telefono e premere il tasto di chiamata.
Parlare di lavoro fu il modo per uscire dall’imbarazzo quando, esauriti i racconti e le inevitabili lodi al clima del capoluogo isolano, il discorso rischiò di scivolare sul personale.
«Siamo convinti che dietro la morte del giornalista ci sia Giuseppe Mandalà» affermò Vera porgendomi il latte di mandorla appena atterrato sul bancone. Afferrai il bicchiere e le rivolsi uno sguardo interrogativo.
«Quel boss era un personaggio di spessore» aggiunse, «capace di comprendere più degli altri le insidie contenute in una campagna di stampa».
Nel suo discorso colsi una sfumatura. «Perché parli di lui al passato?».
«Non ne abbiamo notizie da cinque anni. Crediamo sia stato ucciso nel corso dell’ultima guerra di mafia avvenuta in quel periodo».
«Capisco» risposi. In realtà iniziavo a perdermi nel labirinto di morti presunte e delitti che ne richiamavano altri come in un gioco di scatole cinesi.
Vera indicò il mio latte di mandorla. «Ti piace?». Me lo aveva consigliato lei, ci teneva ad avere la mia opinione.
«Ottimo» affermai senza pensarci, la mia mente era lontana. «Ci sono altri elementi per attribuire al boss l’omicidio di Sanfilippo?».
«Prima di tutto il luogo dove lo hanno prelevato, che si trova all’interno del mandamento retto all’epoca da Mandalà. E poi c’è un movente: il giornalista conduceva un’inchiesta sul traffico di droga fra Palermo e gli Stati Uniti nel quale il boss era coinvolto in prima persona».
«È ciò che ho letto nel rapporto del dottor Zunino. Ma non era la sola vicenda di cui Sanfilippo si stesse occupando» proseguii.
«C’è un altro punto, ma ti premetto che si tratta di una mia congettura. Come sai non sono in città da molto, ma ho messo a frutto il tempo, mi sono studiata tutti i delitti di mafia avvenuti negli ultimi anni».
Conoscendola non stentavo a crederlo. «Quindi?».
«Giurerei che a fare la pelle al giornalista sia stato un latitante che allora agiva per conto di Mandalà. Si chiama Vito Buscemi ed era il suo killer più fidato».
«Perché pensi che ci sia il suo zampino?».
«Le modalità dell’omicidio. Sanfilippo è salito su un’auto di giorno, in una via come tante, e da quel momento è scomparso».
«Questo ti fa pensare a Buscemi?».
«Era la sua tecnica, ce lo hanno detto diversi pentiti. Solo che un tempo usava seppellire i cadaveri e ora si serve di un metodo più sofisticato per farli sparire, li dissolve nell’acido».
Feci una smorfia. «Nessun corpo, nessun delitto».
«Non è solo questo. Il culto dei morti in Sicilia è sacro e non consentire la sepoltura è una chiara manifestazione di disprezzo, vuol dire che l’ucciso è meno di un uomo. Poco fa, riferendoti a Buscemi, hai fatto bene a parlare di zampino. Il ricercato ha una gamba offesa, una sua vittima gli ha lasciato questo ricordo durante una colluttazione».
«Incerti del mestiere» commentai. L’ironia è un’ottima difesa dall’orrore, se sei costretto a guardarlo in faccia tutti i giorni.
Poi fu il turno della dottoressa Morandi di interrogarmi. «Sei sicuro di far bene a occuparti di questo caso? Mi riferisco a Nino Calabrò».
La mia risposta fu un’alzata di spalle.
Per qualche istante calò il silenzio. Pensavo agli anni dell’Antidroga, l’adrenalina a mille e l’emozione più forte in fondo al mio petto. Alla scintilla avvertita fin dalla prima volta, alle domande che mi ponevo all’infinito su dove fosse il suo cuore. Al segreto che ci aveva tenuti lontani: quello sulla sua storia con Nicola Clemente, il compianto regista delle nostre operazioni undercover.
Forse anche lei in quegli istanti, mentre fissavo il mio bicchiere ormai vuoto senza sapere cosa dire, si perdeva nei tortuosi labirinti del passato.
Ci lasciammo alla maniera di un tempo, con i due baci che, non trovando la strada per le labbra, si fermavano sempre alle guance. Il mio sguardo annegava nei suoi occhi nocciola e c’era di nuovo un retrogusto amaro, quello di una guerra con i sentimenti che nessuno dei due riusciva a vincere.