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Nel momento in cui a Palermo sparavano a Corallo, a nord dello Stretto Domenico Macrì aveva appena inserito la password e se ne stava spazientito davanti al video in attesa della connessione. Lentamente si collegò a Facebook, aprì la sua pagina e dopo una rapida occhiata digitò il nome Fiorediluna. Il profilo era identico a come lo aveva visto l’ultima volta. Non c’erano tracce di passaggi recenti, la ragazza stava attenta a non esporsi. Sicuramente era la cugina a tenerla buona, lasciata a se stessa non si sarebbe regolata.

 

Predispose nella mente il messaggio da inviare, ma non si decideva a scriverlo. Una risposta di Stefania avrebbe segnato il punto di non ritorno. Si era già pentito di averne parlato al capobastone, l’idea di essere proprio lui a consegnarla ai carnefici gli dava il voltastomaco. Ma ormai lo aveva promesso e, se si fosse tirato indietro, tanto valeva sparire per sempre dalla Calabria.

 

Si concentrò sulla tastiera. Doveva solo digitare la frase che si era ripetuto tante volte a memoria e premere il tasto di invio. Poi le cose sarebbero accadute da sole e ogni ulteriore decisione sarebbe spettata al destino.

 

 

 

Cara Stefania, da tempo non ho tue notizie. In paese dicono tutti che siete partiti. Non dirmi dove sei andata se non vuoi farlo, mi basta sapere che stai bene.

 

Il ragazzo che ti ha salvata

 

 

 

Rilesse. Qualcosa non andava, ma non sapeva di quale punto si trattasse. Dopo averci riflettuto ancora un po’ cancellò Il ragazzo che ti ha salvata e si firmò semplicemente Domenico. Funzionava meglio. Spedì il messaggio e si sentì salire al petto un terrore incontrollato. Aveva appena reciso l’ultimo filo che lo legava alla propria innocenza, aveva sporcato la sola cosa pulita che ricordasse da quando era bambino.

 

Fra la sua abitazione e quella di Stefania, più o meno a metà strada c’era una piccola fontana. Gli tornò in mente quando la vedeva arrivare di corsa dalla direzione opposta, coi capelli arruffati e le guance rosse, per prendere un sorso d’acqua. Lui ci andava spesso e per quella sensazione di refrigerio era disposto ad affrontare chiunque. Al solo vederla il suo coraggio diventava un puntino minuscolo, e si ritraeva per lasciarla bere.

 

Stefania in quelle circostanze gli lanciava occhiate lunghissime, che erano al tempo stesso un grazie e una sfida. Aspetta, voleva dirgli, tocca prima a me che ho il potere di farti tremare le gambe. Ed è inutile che mi guardi, appena avrò bevuto schizzerò via come una lucertola mancata da un sasso e tu resterai a sognarmi.

 

Con il cuore immerso nei ricordi Domenico aprì la casella della posta. C’era un’email di Pietro, il suo amico emigrato a Segrate. Gli aveva annunciato la visita ed era contento, chiedeva quando sarebbe arrivato. Prima di rispondere controllò i siti delle compagnie aeree alla ricerca di una buona tariffa per Linate, l’aeroporto più vicino alla casa del ragazzo.

 

 

 

Stefania si fermò all’edicola a prendere il giornale. A lei non interessava, era una fissazione della cugina, che ogni mattina si svegliava in preda alla paranoia, temendo di leggere del nuovo pentito della ’ndrangheta che stava facendo saltare in aria la Calabria.

 

Di certo la decisione di Nino non sarebbe rimasta segreta a lungo. Fin dal giorno in cui lei aveva lasciato il paese doveva essere iniziato il valzer delle congetture, non c’erano valide ragioni che potessero giustificarla. La scusa escogitata nel consulto muliebre organizzato per lo scopo ruotava attorno alla detenzione di Nino.

 

«Una donna deve stare vicina al marito anche se finisce in carcere» avrebbero risposto i parenti alle domande dei curiosi. La partenza della moglie e dei figli sarebbe stata spacciata per un trasloco nella zona dove l’uomo si trovava detenuto. Un modo per stargli vicini, per mantenere con lui un contatto più frequente. Per un po’ avrebbe funzionato e nel frattempo le indagini scaturite dalle sue dichiarazioni avrebbero fatto il loro corso, portando in cella i nemici più pericolosi.

 

Nel solido piano che le menti femminili della famiglia avevano elaborato con tanta cura c’era una falla evidente, di cui peraltro si rendevano conto. Filippo Calabrò, un uomo d’onore mai venuto meno ai suoi princìpi per distorti che fossero, di fronte a una domanda diretta del suo capo non avrebbe potuto mentire. C’era da augurarsi che non gli venisse rivolta, ma era una speranza remota.

 

Così si erano rassegnate a dover prima o poi scoprire le carte, sperando solo che avvenisse il più tardi possibile. Da quel fatidico momento avrebbero confidato nella competenza del Servizio centrale di protezione, nell’appoggio di Rocco Liguori e nella buona sorte.

 

L’incognita maggiore era Stefania. Quella ragazza non ne azzeccava una nemmeno per sbaglio e il fatto di essere personalmente esposta al rischio non bastava a instillarle nel cervello la dose necessaria di prudenza.

 

La sciagurata se ne stava nel bar accanto all’edicola, a un tavolo da quattro che occupava per intero con le sue buste della spesa, insieme alla figlia del giornalaio, mantovana d’accento e di pensieri, che pendeva dalle sue labbra traboccanti di informazioni riservate.

 

«Non chiedere altro, Gina, non ti posso spiegare. Ti dico solo che al mio paese nessuno deve sapere dove mi trovo. Ora però c’è questo ragazzo, che mi piace un casino, e non so come comportarmi. Sono sicura che si metterà in contatto, gli ho indicato un profilo di Facebook aperto apposta per lui. Tu cosa pensi, se scrive gli posso rispondere?».

 

L’amica era strabiliata. «Certo che hai davvero una vita avventurosa».

 

«Dammi un consiglio, ti prego. Cosa faccio con Domenico?».

 

«Ma tu credi di piacergli?».

 

Stefania fissò la figlia del giornalaio come se avesse fatto la domanda più stupida del mondo. «Ovvio».

 

«Secondo me puoi rispondere. Se gli interessi non sarà certo lui a metterti nei guai».

 

La conversazione si avviava su un terreno scivoloso. «È che lui, in realtà… è proprio uno… un…».

 

«Un poliziotto? Ma cosa sei, una specie di ricercata?».

 

Finalmente Stefania realizzò che si stava esponendo troppo. Corse ai ripari. «Scherzavo, ti sto solo prendendo in giro».

 

L’amica non era convinta, ma lei non si fermò a discutere, afferrò le buste e il quotidiano, le rivolse un saluto affrettato e si diresse verso casa. Il giornalaio la vide allontanarsi e chiamò subito la figlia.

 

«Mi dirai che ho i pregiudizi, ma a me quella tipa non la conta giusta per niente».

 

«Hai i pregiudizi, papà. È una brava ragazza, te lo assicuro».

 

L’uomo scosse la testa. «Sarà».