2

 

 

Il cancello del carcere si richiuse con un rumore metallico. L’avvocato non vi fece caso, era assuefatto ai gesti rituali che lo introducevano in quel tempio di dolore, da molti anni la fonte principale del suo reddito.

 

Nemmeno il sostituto procuratore Flavio Cordero si scompose. Da quando era approdato alla Distrettuale antimafia gli istituti penitenziari della penisola per lui non avevano segreti. Era arrivato la sera prima da Palermo e dopo cena, nella sua stanza d’albergo con tv a schermo piatto e connessione wireless, aveva faticato a prendere sonno. Era teso, ansioso d’interrogare quel detenuto calabrese che si era detto in possesso di informazioni sulla scomparsa di Michele Sanfilippo.

 

Un simile sviluppo nelle indagini, per il magistrato, era un regalo inatteso. Il giornalista era uscito di casa un caldo mattino di cinque anni prima e non vi aveva più fatto ritorno. Era la firma di punta del principale quotidiano della Sicilia, un nome prestigioso anche fuori dall’isola e dai confini nazionali. Si dovevano a lui le inchieste più coraggiose su Cosa Nostra, attacchi sferzanti al potere mafioso che da secoli conviveva con quello ufficiale di sovrani e viceré, sindaci e presidenti di regione, prefetti di ferro o di metalli meno nobili.

 

Il fascicolo sulla scomparsa, dietro la quale non potevano esservi che un proiettile e una fossa, nell’arco di un lustro aveva percorso vari corridoi. I fattorini lo avevano trasportato da una scrivania all’altra del palazzo di giustizia su carrelli sempre più polverosi. Alla fine l’inchiesta era atterrata sul suo tavolo e da lì non si era mossa. Del resto non poteva spettare che a lui, l’ultimo acquisto della Distrettuale, quella matassa che nessuno aveva saputo o voluto sbrogliare. Ma il dottor Cordero, piemontese come il Giacosa che nei Pugnalatori di Sciascia approda in Sicilia dopo la spedizione dei Mille, di fronte a una sfida non si era mai tirato indietro.

 

L’avvocato difensore e il pubblico ministero arrivarono insieme nella saletta riservata agli interrogatori. Il magistrato, per l’occasione, si era fatto affiancare dal segretario e dall’uditore giudiziario Francesca Mucci, fresca vincitrice di concorso, appena destinata al suo ufficio per il tirocinio.

 

«Il detenuto è in arrivo» annunciò con voce stentorea il comandante della polizia penitenziaria. E tutti a parte la donna, che era alla sua prima trasferta nelle carceri, pensarono all’indeterminatezza del tempo in certi luoghi, dove un minuto può durare una vita.

 

«Nel frattempo vi faccio portare qualcosa?» aggiunse il padrone di casa, cogliendo le espressioni contrariate di fronte alla prospettiva dell’attesa. Nessuno rifiutò. La dottoressa Mucci annusò l’aria e si augurò che nel bar l’igiene fosse più accurata che nel resto dell’istituto.

 

 

 

Nino Calabrò, che a certi odori era abituato, osservò con aria indifferente l’ispettore che armeggiava attorno all’ennesima serratura. Al principio di ogni corridoio c’era una porta. Moltiplicata per i numerosi bracci dell’istituto, faceva una sequenza infinita di cancellate che stringevano anche l’anima.

 

Se c’era una cosa a cui Nino non aveva fatto il callo, in un posto che abitua a qualunque stortura, era il continuo rigirare di chiavi. Il coltello e la chiave erano la sua condanna annunciata fin dalla culla, il bivio che nelle famiglie di rispetto non offre alternative: finire nella ’ndrangheta o sull’opposta barricata. Alla sua sorte non si era ribellato. Aveva seguito le orme paterne, prestando il giuramento col santino e recitando la formula solenne che dà accesso al paradiso degli iniziati, l’Onorata Società.

 

Un sentiero lastricato di amici e nemici, ossequio e timore, denaro e pericolo, in fondo al quale lo attendevano una cella presso la casa di reclusione di Sulmona e l’incubo di passarci un bel numero di anni. Ma Nino in carcere non voleva invecchiarci, con un bambino appena nato e due figlie più grandi, lasciati alle cure di una madre che nel viso, negli anni, era creatura quanto loro.

 

Perciò aveva deciso: sarebbe tornato dai suoi cari a costo di affrontare l’organizzazione a cui aveva consegnato mani e sogni nell’età ingrata, quando si crede di governare il mondo e invece si sceglie ben poco.

 

Seguì il suo caronte nel labirinto che portava ovunque tranne che alla libertà e finalmente si trovò all’ingresso della saletta. Nel corridoio risuonavano i passi stanchi del personale di servizio, ascoltandoli rimuginò per l’ennesima volta sulla scelta a cui si accingeva.

 

Oltre l’uscio c’era l’inizio di una nuova vita, una svolta senza ritorno che avrebbe segnato non solo lui, ma l’intera famiglia. Gli tornarono in mente suo padre, che non avrebbe avuto pace, e il suo paese, che non avrebbe più rivisto perché se salti il fosso non c’è rimedio: per la giustizia sarebbe divenuto un collaboratore ma per la gente, quella che a pane e lacrime lo aveva cresciuto, il nome sarebbe stato un altro. Una parola affilata come la lama di un pugnale: infame.

 

«Che fai, non entri?». La voce dell’ispettore lo distolse dai suoi pensieri. Strinse la maniglia, sentendosi come i suoi antenati che dalla Calabria partivano verso nuovi mondi con la valigia di cartone e nel petto dubbi che, guardando l’orizzonte dal ponte di una nave, non sarebbero svaniti come nuvole.

 

«Calabrò Antonino di Filippo e di Bellocco Concetta, nato a Reggio Calabria il…». Mentre il segretario trascriveva le sue generalità nel verbale Nino smise di ascoltare, conosceva quel ritornello a memoria. Tornò attento quando a rivolgergli la parola fu il pubblico ministero.

 

Che fosse uno del Nord lo aveva capito prima ancora di sentire il suo accento. Con mamma ’ndrangheta per anni era vissuto a Milano, freddo da cani e ristoranti con guardaroba dove per un cappotto elegante ti davano un numeretto, un cambio che le prime volte gli era parso rischioso.

 

«Signor Calabrò» gli disse il magistrato con la sua cadenza conosciuta, «so che lei ha reso dichiarazioni sul narcotraffico ai colleghi della Distrettuale di Reggio Calabria. Io sono qui per un fatto avvenuto a Palermo».

 

Lui assentì: «L’omicidio di Michele Sanfilippo. Mi hanno informato della sua visita, dottor Cordero». Usò il cognome per dimostrargli che sapeva con chi stava parlando.

 

«È interessante che lo chiami omicidio» considerò l’altro. «Secondo le risultanze del procedimento si tratta di una semplice scomparsa».

 

Nel dirlo guardò il segretario, che intuendo il suo desiderio avvicinò il microfono al detenuto. Nino si voltò verso l’uomo. Nella stanza c’era anche una giovane ma stava zitta, segno che non contava granché. Tornò a fissare il magistrato. «Lo hanno ammazzato, glielo posso garantire». Pronunciò la frase quasi sorridendo.

 

La dottoressa Mucci provò un brivido, Cordero restò impassibile. «Lei era presente?».

 

«Sono stato io a fare il lavoro, insieme al mio paesano Domenico Macrì».

 

Il sostituto procuratore si toccò il mento con aria scettica. «Mi spiega per quale motivo la ’ndrangheta avrebbe ucciso un giornalista che sulla Calabria non aveva scritto una riga?».

 

Nino indietreggiò sulla sedia. «A chiederci d’intervenire è stata Cosa Nostra».

 

L’uomo lo incalzò. «E voi perché avete aderito alla richiesta?».

 

L’interrogato fece una smorfia. «Sono scambi di cortesie. Sulle questioni delicate avere un appoggio esterno è l’ideale, e in futuro un favore poteva servire anche a noi».

 

Cordero sembrò afferrare. «Era quello il punto, occorrevano persone non conosciute?».

 

«Il giornalista a Palermo era famoso. Una volta uscita la notizia della scomparsa qualcuno poteva ricordarsi di averlo visto salire su una macchina. Perciò era bene che a prelevarlo fosse gente estranea».

 

«Chi vi ha dato le informazioni necessarie per portare a termine il compito? Immagino che né lei né Macrì conosceste la città».

 

«Il nome non ce l’ha detto, ma per voi sarà facile identificarlo, in base alla descrizione che vi fornirò al momento opportuno».

 

Cordero tamburellava con le dita sulla scrivania. Da quando aveva saputo di un pentito disposto a parlare del caso Sanfilippo aveva contato le ore, ansioso di conoscere una verità che gli sfuggiva da anni. Di colpo la sua fretta sembrava svanita, la storia appena sviscerata era in fondo banale. Nino approfittò della pausa.

 

«Dottore, prima di farmi altre domande sappia che pongo due condizioni. La prima è che proteggiate la mia famiglia».

 

«Come è composta?» s’informò il magistrato.

 

«I miei figli, mia moglie e una sua cugina che vive con noi».

 

Gli occhi di Cordero divennero fessure. «E la seconda?».

 

«Chiedo che le indagini e la tutela dei miei cari siano affidate al tenente Rocco Liguori».