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La nostra discussione non accennava a spegnersi. Ci eravamo spostati verso piazza della Vergogna, soprannome dovuto alle figure nude che circondano la fontana di Francesco Camilliani. Il bianco delle statue risplendeva di sole, ma i miei occhi furono attratti da altro, una carta abbandonata a terra. Quel minuscolo foglietto spezzava l’armonia dello scenario, per un attimo pensai di avvicinarmi e raccoglierlo. Tutt’intorno però non vidi un cestino e rinunciai. Dal municipio in quel momento uscì un assessore con un codazzo di impiegati. Vera lo conosceva, si salutarono. Lasciai che si allontanasse per riprendere da dove avevo interrotto.

 

«Non ce la faccio a starmene con le mani in mano, mentre due donne e tre bambini rischiano la pelle».

 

Lei non condivideva i miei timori. «Buscemi e Macrì possono essersi allontanati per mille ragioni. Il primo è un latitante che probabilmente si sposta di continuo e l’altro lavora per una holding mondiale del crimine. Chi ti dice che siano partiti insieme, che non siano andati ciascuno per suo conto chissà dove?».

 

«Ho promesso a Nino di badare ai suoi familiari».

 

Scosse la testa, non l’avevo convinta. «Mantova non è Palermo o la Calabria, proteggerli lì è più semplice e c’è già chi se ne occupa, un intero Comando provinciale. Possibile che non ti fidi di nessuno?».

 

Ero sempre più teso, non capivo perché Vera, di solito attenta quanto me ai segnali di pericolo, quella volta assumesse una posizione così ostile. Avrei voluto guardarla negli occhi ma non ci riuscivo, ero controluce.

 

Lei continuò imperterrita.

 

«Spiegami il tuo piano, Rocco. Vai lì a fare cosa, esattamente? Ci resti due giorni, una settimana… pensi così di risolvere le cose? E quando, secondo la tua testa, la famiglia di Nino potrà considerarsi al sicuro?».

 

Mi resi conto che aveva ragione, non potevo trasferirmi a Mantova a tempo indeterminato. Malgrado ciò non ero disposto a cedere, ero entrato nella dimensione del viaggio e, quando mi accade, è difficile riuscire a fermarmi.

 

«Chiamo Steve e parto oggi stesso, voglio andare a sentire che aria tira. Parlo con i colleghi del posto, mi accerto delle misure di sicurezza adottate e in capo a qualche giorno sono di ritorno. Diciamo per domenica, ti sembra ragionevole?».

 

Nel riferirmi a una data mi tornò in mente il dettaglio che avevo trascurato: fra noi e il fine settimana c’era un giorno chiamato giovedì. D’istinto mi chiesi se Vera osteggiasse la mia partenza per quello. Magari mi illudevo, ma dovevo aggiungere qualcosa al riguardo, ero stato io a lanciare l’invito.

 

Cercai di far apparire la frase casuale. «Mi spiace che dobbiamo rimandare la nostra cena».

 

«Io non ti capisco, Rocco. Ogni volta che la tua vita sembra imboccare una strada nuova riesci sempre a fuggire un momento prima. C’è qualcosa del tuo passato che mi nascondi, qualcosa che ti impedisce di stabilire rapporti duraturi».

 

Il mio silenzio non era ammissione, non era indifferenza. Solo incapacità di rispondere. Ma lei ovviamente lo interpretò nel modo peggiore.

 

«Guarda che lo dicevo per te» concluse voltandomi le spalle. «La nostra cena, ammesso e non concesso che prima o poi si faccia davvero, è l’ultimo problema!». E da come schizzò in auto e sparì alla mia vista fu chiaro che non era così.

 

 

 

Per fortuna, almeno con Steve, insistere non fu necessario. I viaggi gli mettevano allegria, mi disse, in verità non ricordavo di averlo mai visto depresso. Appresa la destinazione mi chiese in prestito il computer e si dedicò all’organizzazione della trasferta: volo low cost per Verona, auto a noleggio dall’aeroporto e albergo nel cuore di Mantova.

 

In piedi accanto alla finestra, assorto nei miei pensieri, mi accorsi a malapena dell’equipaggio del Nucleo investigativo che entrava di gran carriera nel cortile della caserma. Auto civetta con lampeggiante acceso, frenata brusca, sportelli che si aprivano di scatto: avevano beccato qualcuno, pensai incollando gli occhi al vetro.

 

Si trattava in effetti dell’arresto di un pusher, lo trascinarono ammanettato in due mentre una terza collega, un maresciallo, recava trionfante un sacchetto di cellophane. Le sorrisi dall’alto, ricordando con nostalgia i bei tempi all’antidroga di Roma. Lei mi vide e ricambiò.

 

«Hai finito?» chiesi a Steve senza voltarmi. Mi erano venuti in mente alcuni accertamenti da fare alla banca dati, mi serviva il computer.

 

Rispose con rapidità sospetta: «Un momento solo».

 

Nel frattempo lo spettacolo era terminato, mi staccai dalla finestra e avanzai alle sue spalle, arrivando a vedere lo schermo. Stava consultando le pagine di un ristorante di Mantova.

 

«Steve!» mi lamentai senza troppa convinzione mentre gli tiravo indietro la sedia per farlo fisicamente sloggiare.

 

 

 

In quell’istante il maresciallo Iacono, di turno presso la sala intercettazioni della Procura, faceva un salto sulla sua. Riascoltò la conversazione un’altra volta, poi una terza. Non si era sbagliato, dicevano proprio quella cosa. Si chiese se dovesse attaccarsi al telefono o raggiungere la caserma. Per farlo bastavano cinque minuti, optò per quella soluzione.

 

Controllò che la stampante avesse la carta, ma come al solito il responsabile l’aveva fatta sparire. Era uno della vecchia guardia, di quelli che non usano le cose sennò si rovinano, e così tanto vale non averle. Lo andò a stanare nel suo ufficio al secondo piano, perdendo più tempo per rintracciarlo e farsi dare una risma che per coprire la distanza dal tribunale a piazza Verdi.

 

Quando arrivò nella stanza che dal mio arrivo assisteva ai nostri scambi verbali al contagocce io e Steve eravamo appena partiti. A quel punto non gli restava che chiamare, ma prima di farlo pensò di informarsi presso la Squadra comando.

 

«Sai dov’è andato il tenente?» chiese a un brigadiere che conosceva da almeno vent’anni.

 

L’altro lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Era contrariato, stava completando la contabilità dei carburanti e l’irruzione improvvisa gli aveva fatto sballare tutti i calcoli. Ma era un uomo di mondo e Iacono aveva più gradi di lui sulla spallina.

 

«Con certezza non lo so» rispose con garbo forzato. «Posso chiedere al comandante, credo sia passato a informarlo. Secondo me, comunque, si sono diretti a Punta Raisi».

 

Il maresciallo si rassegnò. Del suo corposo bagaglio professionale faceva parte anche la nozione più difficile: distinguere l’urgente dall’importante. Quei fogli stampati nella sala intercettazioni appartenevano di diritto alla seconda categoria, ma non necessariamente alla prima. Così era preferibile attendere, piuttosto che parlare di certe faccende per telefono.