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Nino Calabrò quella mattina si svegliò in preda al terrore. Lo avevano trasferito in una sezione più sicura per controllarlo meglio e dal rifugio offerto alla sua famiglia non giungevano notizie preoccupanti. Le cose principali andavano dunque alla perfezione, eppure il suo istinto fiutava il pericolo.
Cordero non si faceva sentire e il traguardo degli arresti domiciliari, che in base alle promesse avrebbe scontato nella località protetta insieme ai suoi cari, cominciava a sembrargli un lontano miraggio. In realtà il pubblico ministero era stato di parola, aveva depositato in tempi da record la sua richiesta che, di lì a poco, sarebbe stata esaudita. Ma nel silenzio di una cella isolata, dove la sola compagna era la paura, le lancette parevano immobili.
Aspettò che distribuissero la colazione, l’agente di turno quella mattina gli ispirava fiducia, avrebbe chiesto a lui di parlare col direttore. Per i detenuti comuni era impossibile ottenere un colloquio in modo informale, serviva una domandina scritta pure per andare a pisciare. La sua posizione era diversa e un paio d’ore dopo lo andarono a prendere.
Un breve giro di telefonate, il decollo di un aereo, un autista fornito dal Nucleo investigativo di Roma e la mattina seguente ero all’ingresso del carcere, con tante domande nella testa e sulla linea dell’orizzonte un problema più immediato. Per qualche ragione, al corpo di guardia dell’istituto non era giunta la nota che autorizzava il mio colloquio, così dovetti pazientare. Ingannai l’attesa scorrendo la rubrica del cellulare fino a trovare il nome di Vera. Psicologi e scrittori sanno che non esistono i gesti involontari. L’attesa imposta dalle circostanze, il vano giocherellare col telefono, i pensieri fintamente distratti: tutto cospirava perché quel momento arrivasse.
«Ti disturbo?».
Il tono allegro con cui mi rispose bastava a rivelare l’esatto contrario. «Scherzi, mi fa piacere. Sei già a destinazione?».
«Sto per entrare». Indugiai, mentre al di là del vetro notavo un capannello di agenti che probabilmente erano lì per me. «Pensavo… ricordi che ti ho annunciato un invito a cena?». La sentii trasalire, non si aspettava che dalla mia trasferta dedicata all’indagine potessi chiamarla per quello. Decisi di continuare prima che le solite paure mi facessero desistere. «Che ne diresti di giovedì prossimo?».
L’impatto della domanda fu dirompente. Non era il giorno dopo, ma aveva il pregio di fissare una scadenza. Accettò con entusiasmo. Spensi il cellulare sollevato, avevo chiuso in fretta una chiamata imbarazzante e mi ero tolto un peso dal cuore.
Nel frattempo la direzione del carcere confermò l’autorizzazione, potevo entrare. Nino mi accolse con un abbraccio che ricambiai freddamente. Mi bastò un’occhiata, le sue parole fugarono i dubbi residui: mi aveva chiamato perché temeva per la sua famiglia. Mi sforzai di tenermi a distanza dalle sue emozioni, la faccenda doveva procedere su binari razionali, non potevo abbandonarmi all’empatia.
Mi chiese subito degli arresti domiciliari, promisi di interessarmi e di dargli notizie al più presto attraverso il suo avvocato. Fin lì fu tutto lineare, era un linguaggio fatto di termini noti a entrambi: il giudice per le indagini preliminari, l’ordinanza, le esigenze cautelari. Il precario equilibrio non resse quando l’antico compagno di giochi, rassicurato sulla situazione dei suoi familiari, spostò il baricentro della paura nella mia direzione.
«Rocco, io ti conosco, con questa indagine cerca di non esporti troppo. Mandalà è stato un boss importante di Cosa Nostra, coinvolto negli affari più scottanti. Ti ripeto quanto disse una volta Masino Buscetta al giudice Falcone: chi tocca certi fili muore».
Sentii una tensione percorrermi il corpo, non sopportavo che una simile premura venisse da una persona con le mani sporche di sangue. «Non sta a te dirmi dove mi devo fermare» replicai stizzito.
Nel vederlo mortificato mi morsi le labbra, voleva proteggermi e lo avevo respinto rammentandogli la barriera che ci divideva. Ripiegai sull’unica zona franca del nostro rapporto, l’infanzia comune.
«Ti ricordi l’estate, quando alla periferia del paese si mettevano i giostrai?» gli chiesi con tono più calmo.
Lui sorrise. «Andavi pazzo per l’autoscontro».
«Volevo parlarti proprio di quello. Io funziono come le macchinine del luna park, una volta che hai messo il gettone non le puoi bloccare, devi aspettare che si esaurisca la carica».
La metafora non era rassicurante, ma capì che volevo stemperare la tensione. «Speriamo che si fermi presto».
Restammo in silenzio. Ci guardammo, poi lui abbassò gli occhi. Della domanda che stava per farmi un po’ si vergognava. «Sai qualcosa di mio padre?».
Scossi la testa. «Se vuoi mi posso informare».
«Ti ringrazio».
Non c’era altro da dire, riempimmo il tempo rimasto con generici discorsi sul borgo natio.
«Chissà se un giorno potrò tornarci» si chiese Nino a voce alta. «Non so nemmeno se lo farei, tutti i miei guai vengono da lì. Se fossi nato altrove a quest’ora sarei un impiegato, o magari un pittore».
Sfiorammo appena la morte del giornalista, mi ribadì che nei suoi riguardi non aveva niente di personale, confermando di non sapere perché fosse stato condannato. Evitai i commenti, ripromettendomi di scoprirne la ragione a qualunque costo. Avrei pagato per potergliela sbattere sul viso. Nel salutarlo tentai, senza riuscirci, di dare calore al mio abbraccio.
L’ispettore della polizia penitenziaria che mi condusse all’uscita volle rivolgermi una domanda.
«Quanto ci metteranno a dargli i domiciliari?».
«Non molto».
«In giro ci sono brutte voci. Prima esce di qui e meglio è, lo faccia presente al dottor Cordero».