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Cose da lasciare a casa prima di recarsi a una cena attesa da tempo: Vera Morandi nella sua stanza arredata in modo spartano ne ripassò l’elenco, mentre guardandosi allo specchio realizzava di avere urgente bisogno di un parrucchiere, per non dire dell’estetista.

 

Prima fra tutte: il ricordo di Nicola, l’uomo che per lungo tempo aveva creduto di amare. Che avesse il doppio dei suoi anni non l’aveva fermata, l’uomo era stato il suo appiglio nel periodo più difficile, quando dal tunnel in cui si trovava non era in grado di uscire da sola. Con il suo surrogato di amore non poteva dire di averlo ingannato. Gli aveva dato tutto, almeno il tutto di sé che sapeva. E quando all’orizzonte era apparsa un’altra persona, aveva fatto ciò che era giusto.

 

Cose da lasciare a casa per andare alla cena: il rimorso per il dolore inferto a Nicola quel giorno a Madrid, che aveva fatto precipitare la situazione e reso ogni parola un macigno, ogni chilometro una distanza incolmabile. Un attimo prima era tutto possibile, poi la morte si era messa di mezzo recidendo i fili di un discorso interrotto nel modo peggiore.

 

Afferrò il telefono, vide chi la chiamava e lasciò squillare. Era un collega un po’ troppo insistente, che nascondeva i suoi tentativi di approccio dietro improbabili questioni di lavoro e aneddoti sulle cene organizzate al corso per commissario. Aveva il vizio di chiamarla prima delle otto, gli dava l’illusione che il loro fosse uno di quei rapporti a distanza in cui ci si sente al risveglio, per augurarsi buona giornata. Vera naturalmente l’aveva capito, ragione sufficiente per non rispondergli.

 

Si fermò al bar e osservò con malcelato desiderio i cornetti esposti in bella mostra sul bancone. La sua passione erano quelli con la ricotta e il pistacchio, una bomba calorica da cui ogni mattina cercava di tenersi lontana.

 

«Dottoressa, gliene offro uno?».

 

Non lo aveva visto. Il proprietario, spuntato alle sue spalle, con espressione beata le porgeva la dolce tentazione avvolta nel tovagliolo. Si dispose al rifiuto, l’uomo la prevenne. «Lei è una cliente affezionata, un omaggio ogni tanto glielo potrò fare!».

 

Era vero, si fermava a fare colazione in quel locale ogni mattina, le veniva di strada e a lei piaceva andare in ufficio a piedi, quando l’aria era fresca e la luce appena accennata. Capitolò, fra i suoi tanti problemi non c’era la linea, a dispetto di un’alimentazione sregolata non prendeva un etto nemmeno per sbaglio. Il primo boccone la riconciliò con la vita.

 

 

 

Salvatore Corallo dichiarò conclusa un’altra notte insonne quando vide apparire un timido raggio di sole. Si alzò con cauti movimenti, aprì la finestra senza chiedere il consenso dei compagni di stanza e promise a se stesso che in quel letto d’ospedale non sarebbe rimasto un’ora di più. L’intervento era perfettamente riuscito e le sue condizioni miglioravano in fretta, non vedeva il motivo di trattenersi oltre in un posto dove i killer di Petronaci erano quasi riusciti a raggiungerlo.

 

Lo aveva salvato il più improbabile degli alleati, un poliziotto e per giunta femmina. Ma i miracoli non si ripetono, sosteneva il mafioso, e anche se da allora i suoi uomini presidiavano gli ingressi, sfidare la sorte non era una scelta che gli andasse a genio.

 

«Oggi me ne vado» disse minaccioso all’infermiera sopravvenuta.

 

Lei sorrise conciliante. «Bisogna parlarne col primario».

 

Il tono dell’uomo si fece più duro. «Quello è il tuo padrone, non il mio».

 

La donna non replicò, non era certo la sua guerra. Chi fosse quel paziente lo sapeva e non stava a lei affrontarlo, se la vedesse coi dottori. Uscendo si chiese come sarebbe andata a finire. Lo aveva sentito deciso e dall’altra parte non vi sarebbe stata un’analoga determinazione. Più ci pensava e meno lo vedeva, quella pasta molle del primario, discutere con il boss Salvatore Corallo per una questione di protocolli terapeutici.

 

Passò davanti all’astanteria e disse a voce alta, senza vedere chi vi fosse all’interno: «Oggi si libera un letto alla sei!».

 

La collega anziana del reparto non fece una piega, si limitò a segnare un puntino a matita sul registro dei ricoverati, in corrispondenza del numero della camera. Aveva capito ogni cosa.

 

 

 

La dottoressa Mucci si svegliò pensando che Flavio Cordero, in fondo, non era così male. In fatto di estetica non aveva cambiato idea, quel naso troppo pronunciato non la invogliava ad ammirarne il profilo. Sul carattere invece si stava ricredendo, era meno noioso di come lo aveva giudicato, se voleva sapeva rendersi divertente.

 

È proprio vero che il tempo guarisce le ferite, si disse più tardi, mentre aspettava che le servissero il solito cappuccino rinforzato col cacao. Al passato pensava sempre meno, i contorni della relazione che l’aveva spezzata sfumavano come immagini in dissolvenza. E in fondo la vita, si chiese, non è forse un film che qualunque regista saprebbe girare? Con protagonisti e comparse, snodi narrativi e scenari mutevoli, sequenze più o meno interessanti e persone da ringraziare nei titoli di coda.

 

Doveva guardare avanti e lasciarsi alle spalle il dolore. Forse era ora di accettare la corte del collega, peccato solo che ultimamente avesse smesso di fargliela. Lo aveva demoralizzato rifiutando tutti i suoi inviti, si rimproverò senza trovare vie di uscita. Di certo non sarebbe stata lei a farsi avanti, adesso che il soggetto poteva interessarle. Fra l’altro da qualche giorno Flavio sembrava assorbito dal lavoro più di prima. Ne aveva ben donde, con i fuochi di guerra che l’attentato a Salvatore Corallo aveva riattizzato.

 

Non le restava che farsene una ragione, le faccende di cuore non seguono percorsi coerenti. C’è sempre una nota stonata, un orchestrale che non va a tempo e fa sballare la musica.

 

 

 

Vito Buscemi trascinò la gamba offesa fino alla strada e guardò l’orologio. Erano le otto e dieci, fece in tempo a vedere prima che un’auto inchiodasse in corrispondenza del portone. Se non avesse conosciuto bene i suoi polli si sarebbe preoccupato, fermarsi in quel modo davanti alla casa di un uomo d’onore, in epoca di guerre, era un chiaro presagio di morte. Ma il ragazzo che guidava era fatto così, con un volante per le mani si sentiva Niki Lauda.

 

«Salutiamo, don Vito» lo accolse il nuovo arrivato aprendogli lo sportello. Il tono voleva essere deferente, ma il picciotto masticava una gomma e il suono della radio era un delirio. Con tre parole: «Spegni quel coso» gli fece abbassare insieme il volume e la cresta. Meglio chiarire subito chi comandava.

 

L’altro non si scompose, rimise in moto e imboccò l’autostrada per Punta Raisi, con un sorriso che non si capiva da dove venisse.

 

Lo zoppo lo lasciò cuocere nel suo brodo e si voltò verso il finestrino per contemplare il paesaggio. Il lato del passeggero guardava al mare, a quello opposto si offrivano le montagne che, nell’immediato dopoguerra, avevano fatto da cornice alle gesta del famigerato bandito Giuliano.

 

Il giovane non condivideva il piacere del silenzio. «A Milano non sono mai stato» esordì. «Dev’essere una ficata».

 

Buscemi provò un moto di fastidio. Per quale motivo l’ultimo scagnozzo della famiglia conosceva la sua destinazione? E in ultima analisi, visto che qualcuno si era preso il disturbo di informarlo, perché non aveva il buon gusto di farsi i cazzi suoi?

 

Si consolò quando l’auto passò lo svincolo di Capaci, ricordando la punta più alta toccata da Cosa Nostra. Un giudice non deve pensare che la sua toga lo renda invulnerabile, l’agguato del ’92 lo aveva sottolineato a chiunque ne avesse bisogno. Si innervosì nuovamente nell’arrivare a destinazione, vedendo la scritta “Aeroporto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.

 

Per il resto del tragitto il ragazzo era rimasto in silenzio, aveva capito che il passeggero preferiva così. Buscemi lo salutò senza dargli la mano, sarebbe stato un onore eccessivo. Si avviò al controllo di sicurezza e, giunto il suo turno, mostrò alla signorina sorridente la carta di imbarco e il documento d’identità, intestato a un bracciante agricolo di Trapani morto diversi anni prima. Sul frontespizio una mano esperta aveva applicato una sua foto al posto di quella del caro estinto.

 

Prima di salire sull’aereo si fermò accanto ai carrelli per i bagagli. Uno dei fattorini si avvicinò e, non visto, gli passò un piccolo zaino da portare a mano. Conteneva una Glock 19 semiautomatica, due caricatori di riserva, un silenziatore e una torcia laser a luce rossa da montare sulla canna, l’ideale per il tiro notturno. Lo zoppo sfilò davanti a un’altra hostess dal sorriso di plastica e stavolta ricambiò, se una cosa va bene bisogna esserne contenti.

 

Quel metodo per il trasporto delle armi era piuttosto rischioso. Il suo capo glielo aveva rimproverato varie volte, potevano rifornirlo direttamente a Milano, ma lui era da sempre irremovibile.

 

«Senza il ferro mi sento nudo» ribatteva puntualmente, «quando si viaggia niente esclude di trovarsi davanti uno sbirro e in certe situazioni non ci si può far trovare impreparati». Agli arrivi dei voli nazionali i metal detector non c’erano, contava su quello.

 

A Linate lo accolse Domenico, uno dei calabresi con cui aveva sbrigato la pratica del giornalista. Lo riconobbe alla prima occhiata. Vito Buscemi non era di gusti facili, ma il ragazzo gli era piaciuto fin dal primo momento, lo trattava con il giusto rispetto senza risultare untuoso. Lo fece anche quella volta, non gli chiese di posare lo zaino nel portabagagli e soprattutto non si perse in chiacchiere. Disse solo l’essenziale: i familiari di Nino Calabrò si erano stabiliti a Mantova, città non troppo lontana. Non conosceva l’indirizzo esatto, aveva scoperto la città perché una di loro, una ragazza scema come l’acqua della pasta, utilizzava Internet in un posto pubblico del centro. Con l’Audi noleggiata all’aeroporto lo avrebbe condotto subito lì. «Sempre se vossia non è troppo stanco» concluse il giovane.

 

Lui non dovette meditare la risposta. «Inutile perdere tempo. Quanto è grande ’sta Mantova?».

 

«Li troveremo presto». Lo affermò con sicurezza, e Vito a quelle parole sentì di poter credere. Il seguito contribuì ulteriormente a ben disporlo. La macchina era spaziosa e Domenico guidava calmo, senza scatti. Era un tipo serio, con lui poteva accorciare le distanze.

 

«Dammi del tu» concesse, mentre sbirciava nell’auto che li affiancò per superarli. La bionda alla guida valeva il viaggio da Palermo.