51.

Jack McGreary aveva spostato qualche scatolone e se ne stava svaccato sulla poltrona a bere direttamente dalla bottiglia, sventolandosi con un libro di metafìsica. Un ventilatore mezzo scassato frullava l’umidità e la canottiera grigia di Jack era tutta una chiazza di sudore. Quando Edwin entrò, Jack alzò lo sguardo.

“Dimenticato qualcosa?” disse. “Tipo i coglioni?”

“Quanto tempo?” disse Edwin.

“Quanto tempo cosa?”

“Quanto tempo le hanno dato?”

L’espressione sul viso di Jack cambiò lievissimamente. “Il whisky ti ha dato alla testa, ragazzo. Non so proprio di che diavolo stai parlando. ”

“I medici,” disse Edwin. “Quanto tempo le hanno dato?”

Jack lo guardò con un’espressione di profondo fastidio. Edwin lo stava fregando e lui lo sapeva.

“Allora?” disse Edwin.

“Vai a farti fottere e lasciami in pace.”

“Un anno? Sei mesi? Una settimana?”

“Mi hai sentito? Ho detto: ‘Vai a farti fottere e lasciami in pace’. ”

Ma Edwin non si mosse. “Quanto tempo, Jack?”

Jack si aggiustò il pancione, guardò Edwin con un odio che rasentava il rispetto e alla fine disse: “Chi lo sa? I medici sono una manica di idioti. Non sanno un cazzo. Potrebbe essere una settimana. Potrebbe essere un anno. Una volta che sarà andato in metastasi, sarà questione di giorni. Hai davanti Giobbe in persona, ragazzo. Ho subito ogni rottura di scatole, fastidio e prova di fede che Dio nella sua infinita crudeltà è riuscito a scodellarmi. E sono ancora qui. Come mai? Puro e semplice dispetto”.

“È stato, mi faccia pensare, un anno e mezzo fa, vero Jack? Quando l’ha scoperto. E subito dopo averlo scoperto ha deciso di scrivere un libro, di fare un po’ di soldi. Un po’ di soldi a lungo termine. La bibliotecaria si sbagliava. A Silver City non ci andava in cerca di alcol e puttane, ma esattamente per quello che dichiarava: a fare degli esami. ”

“Alcol e puttane? È questo che le ha detto Rebecca? Ah! Alla mia età, lo prendo come un complimento.” Si issò dalla poltrona alzandosi in piedi, come un tricheco, come un re, e disse lentamente: “Che cosa vuole da me? Che faccia ammenda? Che faccia penitenza?”.

“I soldi,” fece Edwin. “Che cosa ne ha fatto dei soldi?” Ma Edwin conosceva già la risposta.

“Bruciati!” gridò Jack. “Li ho scialacquati sconsideratamente. Buttati via. Finiti. Ah! ”

Edwin sorrise. “No. Non è così. Ormai i diritti d’autore saranno arrivati intorno ai centocinquanta milioni di dollari. Non è possibile che li abbia spesi tutti, non qui, a Paradise Flats, non in questo buco di città. Non si è comprato nemmeno un furgone nuovo. No, Jack. Lei i soldi non se li è bruciati. Tutt’altro. Sapeva di avere poco da vivere e li ha messi da parte. Ma perché? ” Edwin girò attorno a una pila di scatoloni, scuotendo la testa. “Che buffo. Siamo stati qui per più di un’ora a discutere come due studiosi del Talmud, senza che mi rendessi nemmeno conto che lei è in partenza. Sta facendo i bagagli. Per andare dove, Jack? A Silver City, giusto? Se ne va a morire da un’altra parte, vero Jack?”

“Bene bene bene. Eccolo lì l’intelligentone. Ma se pensi di poter mettere le tue sudicie manine da roditore sui miei soldi, scordatelo.” Fece per afferrare il fucile, ma Edwin ci arrivò per primo; lo prese e lo spostò, poi lo mise da parte con cautela.

“Io so esattamente dove sono i suoi soldi, Jack.”

Edwin trovò la scatola delle fotografie, passò oltre quelle che ritraevano Allan con i pantaloni a zampa d’elefante e si fermò invece sull’istantanea di un bambino piccolo che sorrideva. Aveva i capelli scarmigliati, un gran sorriso e gli occhi di Jack.

“Suo nipote?” chiese Edwin.

Jack osservò Edwin con sempre maggiore sospetto. “Lascia fuori mio nipote da questa faccenda.”

“Oh,” fece Edwin con un sorriso, “temo proprio di non poterlo fare. C’è già dentro, no?”

“Se credi di poter venire qui a derubare un vecchio, sei fuori strada,” disse Jack. “Puoi mettere sottosopra questo posto. Qui di soldi non ce ne sono. Neanche un centesimo. Non mi credi? Avanti. Guarda pure.”

“Le credo, Jack. Come le dicevo, so perfettamente dove si trovano i suoi soldi. E non sono qui. No, c’è un conto in banca, probabilmente a Silver City, con centocinquanta milioni di dollari, a nome di… come ha detto che si chiama suo nipote?”

Tutta la furia di Jack era sparita. Ora la sua voce non era più tonante. “Benjamin,” disse. “Il suo nome è Benjamin Matthew McGreary. Ormai ha sei anni, quella foto è vecchia.”

“Un ragazzino sveglio?”

Jack annuì. “Furbo come una faina. E i milioni non sono centocinquanta. Sono quasi trecento.”

Edwin si strinse nelle spalle. “Che cos’è qualche milione in più o in meno?” Si sedette su uno sgabello. “Credo che mi farò un altro goccetto, Jack.”

“Va’al diavolo.”

“Con ghiaccio, se ne ha. Là fuori si frigge.”

Jack grugnì, si avvicinò al vecchio frigorifero, staccò un blocco dalle formazioni di ghiaccio che incrostavano il freezer (non si prendeva nemmeno la briga di fare i cubetti di ghiaccio) e ne lasciò cadere un pezzetto nel bicchiere. Poi ci scolò dentro ciò che restava del Southern Comfort.

“Bene,” disse Edwin impressionato. “Siamo riusciti a uccidere la bottiglia. Saluti”

Ma Jack non aveva intenzione di brindare a nessuno.

“Voleva lasciare un’eredità a suo nipote,” disse Edwin. “Voleva stupirlo, un bel po’ dopo la sua morte. Voleva stupirlo per il diciottesimo compleanno…”

“Ventunesimo,” rettificò Jack. “Non affido trecento milioni di dollari a un marmocchio prima del momento in cui gli darei le chiavi del mio furgone.”

“Ben detto, Jack. Comunque, voleva lasciargli qualcosa. Voleva che lui dicesse: ‘Quel vecchio non era poi tanto male’. Voleva essere ricordato molto tempo dopo essersene andato. Voleva che lui la pensasse. Voleva fare un ultimo gesto postumo. Siamo ben lontani dal ‘morto io, finisce il mondo’ che mi ha propinato poco fa.”

“Trecento milioni di dollari. Non gli toccherà fare lo schiavo per nessuno. Potrà andare dovunque, fare qualsiasi cosa. Quel ragazzo conquisterà il mondo.”

“No,” disse Edwin. “No, niente affatto. Perché non ci sarà più un mondo da conquistare. Il piccolo Benjamin erediterà una caterva di soldi e ben poco d’altro. Non ci sarà nessun posto in cui spenderli e, peggio ancora, nessun modo per goderseli. Lo sa che cos’è che ha fatto di noi ciò che siamo? Lo sa che cosa ha fatto di noi la più grande, squallida, egemone potenza mondiale di mangiatori di hamburger, calcolatori di calorie, spacconi di tutta la storia della specie umana? La ricerca della felicità. Non la felicità. La sua ricerca.”

“Senta,” disse Jack, ma Edwin non era in vena di sentire niente.

“I primi documenti conservati, Jack? Le prime parole scritte, le prime cose che sono state ritenute degne di essere scritte? La lista della spesa. La lista della spesa e i conti di guerra. È questa la prima cosa che è stata impressa sulle tavolette di argilla, incisa sui papiri. Quando i sumeri cominciarono ad affidare la vita alle parole, quando cominciarono a tenere una traccia scritta del genere umano, compilarono liste. Liste di cose, di proprietà. Oltre alle grandi imprese. È lì che comincia la storia: consumi imponenti e diritti da spacconi. Ai primi scribi, ai primi uomini di lettere, non si chiedeva di scrivere dell’amor proprio o di entrare in contatto con il loro io interiore. Non scrivevano ‘Ognuno a modo suo è speciale’. No. L’argomento era la morte dei re e l’accumulo di ricchezze. Proprietà, orgoglio e sogni epici. È questo a fare di noi degli esseri umani. E questa enorme epidemia dell’autoaiuto, dell’amore di sé che abbiamo scatenato con il suo libro, ha minato tutto quanto. Quello che ho imparato sulla montagna è un crimine contro l’umanità.”

“Perché?” chiese Jack. “Perché ha funzionato? Perché è riuscito a portare il bene? Prometteva di dare la felicità alla gente ed è quello che ha fatto. Ora la gente è felice. Basta, tutto qua.”

“No,” disse Edwin. “È peggio di così. Molto peggio. La gente non è soltanto felice, è soddisfatta. Lo sa a che cosa stiamo assistendo, Jack? Stiamo assistendo alla fine dell’avventura. È questa l’eredità che voleva lasciare dietro di sé: la fine dell’avventura?”

“Una volta che Benjamin avrà il denaro, potrà…”

“Lasci perdere il denaro! Qui il denaro non c’entra niente. Vuole che suo nipote, una volta che lei sarà morto e sepolto da un pezzo, cresca in un mondo senza avventura? È questo che vuole lasciargli? finis coronat opus, Jack! ‘Il finale corona l’opera.’ Gli ultimi gesti di un uomo rivelano lo scopo della sua vita. Finis coronat opus!” Sputò fuori le ultime tre parole come se volesse prendere a pugni l’aria con la voce. Come se bastassero le sue parole a cambiare tutto.

Jack non disse niente. Edwin si portò il bicchiere alla bocca, lasciò che il ghiaccio gli scivolasse tra le labbra, sentì il freddo sapore del whisky bruciargli la lingua. Pensò a May con le sue labbra senza più vita e i grandi occhi vacui, e aspettò la risposta di Jack, sapendo benissimo che in quel momento si giocava tutto.

La risposta ci mise un bel pezzo ad arrivare. Jack fece girare e rigirare l’ultimo sorso di Southern Comfort sul fondo del bicchiere, lo sguardo fisso nel vuoto, senza dire niente. Il frigorifero attaccò a ronzare, scuotendo il silenzio.

“Che cosa vuole che faccia?” disse Jack alla fine. “Come si fa a risolvere questo pasticcio?”

“Scriva,” disse Edwin. “Scriva un altro libro. Scriva un libro non per i soldi, ma col cuore. Rimetta a posto le cose. Niente fole inventate e niente zucchero filato. Basta con le ninnenanne, Jack. Basta con la gioia. Gli dia una bella botta in testa. Racconti ai lettori quello che ha imparato veramente in una vita di inutili avventure. Parli della follia umana. Parli del caos, di ragazze scatenate, di ali di farfalla e di case invisibili sommerse dalle erbacce. Racconti delle miniere di sale, della polvere di carbone e delle campane a morto dei casinisti. Racconti delle scopate, delle bevute e delle corse a vuoto, di come tutto ciò non sia divertente. Racconti quanto le scoccia dover morire. Racconti di Oliver Reed. Racconti di Benjamin. Racconti tutto quanto.”

Jack esitò, poi disse: “Tu scrivi. Io detto. La carta è lì sopra. La macchina da scrivere è da qualche parte sotto quel cumulo di roba da lavare”.

Tranne che, ovviamente, per “roba da lavare” in realtà Jack intendeva “panni sporchi e puzzolenti”. Edwin spostò con circospezione il mucchio di mutande e calzini, come se fossero dei rifiuti tossici, poi, allontanando un paio di ossi di bistecca, si sedette davanti alla tastiera. Passò le dita da una parte e poi dall’altra della macchina da scrivere. Perplesso, la girò su un fianco per guardare meglio.

“Jack?” disse.

“Non c’è nessun interruttore, asino. È manuale. Metti dentro il foglio e scrivi. È hi-tech, ragazzo. Puoi usarla sempre, dovunque. Puoi usarla anche se va via la corrente. Puoi usarla a lume di candela. Non ha bisogno di pile. ”

“Veramente?” fece Edwin, francamente impressionato.

Dopo una breve, impaziente lezione su come infilare il foglio nel rullo (“Scrive direttamente sulla carta,” disse Edwin. “Molto pittoresco.”) e su come riportare indietro il carrello alla fine di ogni riga, Jack si piazzò in piedi a braccia conserte e cominciò a parlare con voce forte e tonante.

“Come essere infelici, di Tupak Soiree.”

Edwin battè il titolo.

“Riga uno, pagina uno,” disse Jack. “Platone scriveva che la felicità umana è IL sommo obiettivo dell’esistenza. Peccato che Platone fosse uno stronzo e la felicità umana una cosa ampiamente sopravvalutata…”

E così via, con Jack che dettava e Edwin che picchiava sui tasti. Fino a sera. Fuori le ombre si allungarono, il sole calò e il deserto cominciò a rinfrescarsi. Bob e Léon si addormentarono nella macchina, nessuno dei due così vile da abbandonare Edwin completamente, ma nessuno dei due così coraggioso da fare irruzione e salvarlo. (L’idea era di fare dei turni di guardia, ma Mr Ethics, dopo qualche fine ragionamento post hoc sulla reciprocità del dovere morale, decise invece di schiacciare un pisolino.)

Mentre una luna corrosa dal sale proiettava la sua pallida luce al suolo, e mentre Paradise Flats dormiva placidamente e i sacchetti di plastica rotolavano languidamente sulla Main Street, Jack parlava e Edwin picchiava sui tasti. Le nocche cominciavano a fargli male e gli vennero i crampi ai polsi, e alla fine la voce di Jack si fece roca, ma i due buttarono giù un po’ di torcibudella e andarono avanti senza farci caso. Scrissero per tutta la notte, riempiendo l’oscurità di parole, fin quando in fondo all’orizzonte non si profilò la prima luce rosata dell’alba. E continuarono ancora. Pagina dopo pagina. Parola dopo parola, dopo parola.