45.
Quando Tupak Soiree apparve in pubblico senza un dito, anche i suoi devoti seguaci cominciarono a farselo amputare. Era considerato un “segno di impegno”, un “simbolo di dedizione”. Non era stato proprio Lui, Tupak Soiree, a scrivere che lo stesso dito che indica la luna è quello che ci si infila nel naso? E ora Lui, il Grande Maestro, aveva sottratto completamente quel dito dall’equazione. La cosa fu presa come un segnale, un segnale che da quel momento in poi non ci sarebbero più stati “io” e “tu”, niente più intermediari, nessun “dito” con cui indicare. Ci sarebbe stata soltanto la pura esperienza diretta della verità, un balzo istantaneo di illuminazione. Era un koan zen reso manifesto.
Ma nessuna di queste interpretazioni era quella di Tupak. Attorno a lui era sorta una comunità parassitaria, ancorché fiorente, di studiosi e commentatori, dedita all’esegesi e alla spiegazione di ogni suo gesto. Anzi, Tupak (come ormai lo chiamavano tutti) non parlava mai del suo dito mancante. Non gli piaceva che gli si ricordasse ciò che era accaduto e quando, in uno slancio di devozione, alcuni autorevoli accoliti avevano proposto di conservare il dito amputato come “un’icona della realizzazione di sé”, Tupak li aveva cacciati a bastonate. Disgustato da tutto quel trambusto, Tupak aveva finito per buttare il dito nel cesso.
Era stanco di fare la parte del guru e proprio in quel momento stava progettando la fuga. Il primo passo sarebbe stato una pubblica rinuncia alla propria divinità, da sempre sottintesa ma mai esplicitamente dichiarata. Era soltanto un maledettissimo libro, Cristo santo. Spiegava come perdere peso e smettere di preoccuparsi, come migliorare la propria vita sessuale e star bene con se stessi. Tutto qua. Era un manuale di autoaiuto, niente di più. Perché in America qualsiasi cosa doveva diventare una religione? Perché tutto doveva cristallizzarsi in dogma?
Il mattino seguente, Tupak Soiree cominciò a raccattare le sue cose. Non aveva molti beni personali, non almeno di quelli che potessero venir accettati come normale bagaglio a mano da una compagnia aerea: le tuniche bianche di cotone grezzo naturale gli provocavano un’irritazione alla pelle ed era impossibile portarsi via le rubinetterie di oro massiccio del bagno. Prese con sé invece qualche ricordo, parecchie manciate di banconote non segnate e una mappa delle case di Hollywood (“Dove le stelle vengono a brillare! ”). Fu un addio solitario (aveva molti devoti ma nessun vero amico), e Harry (come da allora in poi si sarebbe fatto chiamare) fece un ultimo, mesto giro a piedi nella tenuta. “Non sono nemmeno mai andato in città,” disse. “E dire che era mia.”