40.
Effettivamente May stava impacchettando le sue cose. C’erano scatole di cartone ovunque, sulla scrivania, sullo schedario; aveva staccato le foto del gatto e le felci erano già imballate sul pavimento.
“Edwin,” gli disse alzando lo sguardo. “Sono contenta che sei passato. Volevo salutarti. ”
Ma Edwin non era lì per un saluto; era lì per prenderla tra le braccia e portarla lontano. Era lì nei panni di Conan dei Cubicoli.
“No,” disse. “Niente saluti.” Poi, con un respiro profondo e una sensazione di vertigine e palpitazione, spiccò il balzo dall’alto della scogliera. “Vieni via con me, May. Voglio che noi due stiamo insieme. Non ho niente da offrirti. Non ho lavoro, non ho soldi. Il mio futuro è cupo, ho un pollice ingessato e non faccio la doccia da due giorni. La mafia sta cercando di ammazzarmi e Jenni se n’è andata portandosi via tutto quello che avevo. Non so dove andrò né che cosa farò, ma voglio che tu sia con me. Soltanto tu. Vieni via con me, May.”
Lei si girò e guardò Edwin, lo guardò intensamente, come se lo vedesse per la prima volta. “È troppo tardi,” disse a voce bassissima.
Edwin annuì. “Capisco.” Ci fu una lunga pausa. “Sei proprio sicura?” chiese poi.
“Sì, Edwin. E troppo tardi.”
Lui si voltò tristemente, senza una frase da Bogart con cui congedarsi, senza un addio arguto, amaro con cui uscire di scena.
“Addio, Edwin.”
“Aspetta un momento!” Edwin si girò bruscamente. “Cazzo, aspetta un momento! ”
“Edwin?”
“Le tue labbra!” gridò. “Dove diavolo sono le tue labbra?”
“Le mie labbra?”
“Le tue labbra carnose, rosse come la cera. Dove sono finite? E… i tuoi occhi! Dov’è la tristezza? Dov’è l’intelligenza pensosa? Dov’è il mascara? Dov’è l’ombretto? E maledizione, dove sono le tue labbra?” Poi, un po’ più calmo, sentendosi pervadere dall’orrore, le chiese: “Chi sei tu, e cosa ne hai fatto di May?”.
“Edwin,” rispose lei con voce pacata e suadente, e uno sguardo stranamente sereno. “Il trucco non è che un velo, e io ormai non ho più bisogno di veli. Finalmente mi sono concessa di essere me stessa.”
Edwin indietreggiò barcollando, puntando un dito nel vuoto, la bocca contorta come un personaggio del film L’invasione degli ultracorpi. “Tu… tu hai letto quel libro! ”
“Edwin, ora sono felice. Dopo tanto tempo, ho imparato a far pace con me stessa. È come se tutta la mia vita fosse in avaria e ora avessi trovato un equilibrio. Ho colto la mia gioia.”
“No,” fece lui, e da come lo disse si sarebbe pensato che fosse un voto fatto agli dèi. “Non posso permettere che questo succeda. Non a te.”
“Vita, amore e saggezza,” gli rispose lei.
“Mai!”
La prese per le spalle e la trascinò fuori dall’ufficio fino all’ascensore.
“Dove andiamo?” chiese lei, la voce tranquilla e imperturbabile nonostante la stesse rapendo.
“Me lo devi, May; quest’ultimo momento me lo devi. Un’ultima possibilità. ”
L’ascensore arrivò al pianterreno; Edwin sospinse May attraverso l’atrio e poi fuori in strada, dove cominciò a sbracciarsi come un pazzo per fermare un taxi.
“Edwin, non c’è più niente da dire. Le tue parole non possono avere alcun effetto su di me, perché ormai io sono in un luogo che è al di là delle parole.”
Ma Edwin la cacciò dentro il taxi lo stesso, disse all’autista di uscire dalla città (l’espressione fu “fuggire”) e partirono, giù per il porto e poi su, sul cavalcavia Callaghan. Fu una lunga corsa, persa nel silenzio e nell’opprimente sensazione di un finale di partita.
“Edwin,” disse lei, con voce sommessa. “Guarda. Il mare. Ha catturato il cielo e l’ha reso ancora più azzurro.”
“La risacca butta a riva continuamente preservativi e siringhe usati,” disse Edwin.
“E la ruota panoramica. La vedi, la ruota panoramica? Lì, nel Candle Island Park? La vedi stagliarsi laggiù? Vedi com’è bella?”
“È tutta arrugginita e cade a pezzi, May. E Candle Island è kitsch, volgare, piena di cianfrusaglie da quattro soldi e di vecchie battone. Il mondo non brilla di magia, May. Brilla di tristezza.”
Lei guardò dal finestrino il luna park sfilare alla sua destra. “Da bambina ci andavo sempre,” disse. “Mi ci portava mio padre. Mi comprava lo zucchero filato, era rosa e sembrava seta. Appena te lo mettevi in bocca si scioglieva. ” Poi, girandosi verso Edwin, disse: “Mi manca, mio padre. A volte mi chiedo dove sia. E penso allo zucchero filato, che non riuscivi ad afferrare”.
Passarono accanto ai cancelli di Candle Island e May vide qualcosa di terribile. Talmente terribile da farle sgranare gli occhi incredula. I cancelli erano chiusi con lucchetti e catene. Fuori, un cartello avvisava: “ Luna park chiuso ”. Per poco May non si riscosse dalla sua gioia. “Quando?…” domandò.
“La settimana scorsa,” rispose Edwin. “L’hanno chiuso senza una parola di addio. A quanto pare, la gente felice non ha bisogno di brividi a buon mercato e distrazioni pacchiane. Non hanno bisogno di scherzare con la morte o di lanciare freccette per vincere pupazzi pieni di segatura. ”
May non disse niente. Chiuse gli occhi, serrandoli così forte che le spuntarono le lacrime, e pensò allo zucchero filato e a quel sapore inafferrabile, soffice sulla lingua, che si dissolveva nella memoria. “Sono felice,” disse. “Sono felice. Sono molto felice.”
Edwin fece fermare l’autista al primo motel che trovarono, il che richiedette un po’ di tempo; quasi tutti quegli squallidi ritrovi ormai avevano porte e finestre sbarrate ed erano sommersi dalle erbacce. Il Bluebird Motel però era ancora aperto: una fila interminabile di porte lungo un sentiero di ghiaia, con un’insegna sbiadita che diceva TV COLOR e un’altra, subito sotto, che prometteva ARIA CONDIZIONATA a lettere azzurre da cui pendevano dei ghiaccioli. Venticinque anni prima quell’insegna era un luminoso richiamo di modernità, ora era antiquata come graffiti paleolitici. Tv color? C’era un tempo in cui la televisione non era a colori?
Quando il taxi frenò, facendo scricchiolare la ghiaia e fermandosi fuori dall’ufficio del motel, ci fu un momento imbarazzante.
“Fanno 71 dollari e cinquanta. Ottanta con la mancia,” disse l’autista, un tipo scuro e tracagnotto che chiaramente non aveva letto il capitolo di Tupak Soiree sulla povertà spirituale di chiedere soldi al prossimo.
Edwin si schiarì la gola. “Non è che per caso accetta la Diner’s, vero? No?” Edwin si girò verso May, impacciato e molto poco Conan.
Nonostante la sua gioia di recente acquisizione, May rise alla richiesta di Edwin, ammirata dall’assurdità della situazione. “Fammi capire,” disse. “Vuoi che paghi io per il mio rapimento?”
“È solo che sono un po’ a corto.”
May prese del denaro e lo allungò all’autista. “Vita, amore e saggezza,” gli disse soave.
“Sì sì. Come vuole lei, signora.” (Il tassista aveva già perso una moglie e quattro membri della famiglia per la felicità® di Tupak Soiree, e non era nello stato d’animo migliore per sorbirsi epigrammi gratuiti.)
Il ricondizionamento di May Weatherhill cominciò con una manciata di cioccolatini e un appello accorato. Edwin tenne May chiusa in stanza da sola per un’ora e quando tornò la trovò seduta sul pavimento a gambe incrociate, a respirare in armonia con il ritmo dell’universo. La stanza era di quelle con i mobili di truciolato, le lenzuola logore e il tappeto macchiato di muffa. La meditazione di May non avrebbe potuto sembrare più incongrua neanche in cima alla ruota panoramica.
“May! ” urlò Edwin piombando dentro. “I soldi che mi hai prestato sono stati spesi bene. Guarda che cos’ho qui! Cioccolatini, May. Non per l’anima, ma per il sedere. Vuote calorie, May! Deliziose generatrici di sensi di colpa, completamente superflue. È di questo che vive l’America! Vuote calorie. Siamo un paese che si alimenta di vuote calorie.” Rovesciò sul letto una bracciata di vecchi Mars e poi sparse sulle lenzuola Smarties come un’offerta nuziale balinese. “Ma aspetta, c’è dell’altro!” Con un gesto teatrale, sciorinò una scelta di riviste patinate. “‘Cosmo’! ‘Swirl’! ‘Women’s Monthly Weekly’! Guarda questi numeri arretrati, May. Guarda tutto quello che non va in te. Consigli sulla moda, sul trucco, sui rapporti personali. In questa pagina c’è un articolo su come perdere peso e, ah ah! in quella dopo la ricetta per un dolce al cioccolato con caramello. Non puoi farcela, May! Non è fantastico? Un passo avanti e due indietro. E guarda qui, per me ho preso giornali di sport, in modo da poter leggere di uomini più ricchi, più veloci e più forti di me usciti dalle mie fantasie infantili. È così, posso far finta di essere una specie di figura archetipica del Tizio di Ferro, quando in realtà sono un impiegato in completo grigio. Non c’è nessuna differenza! Sono insignificante, May! Lo vedi che razza di vuoto che c’è qua dentro, proprio qui,” si batté un pugno sul petto. “Non vedi tutti gli espedienti e¡ le soluzioni rabberciate che abbiamo escogitato? Non vedi che cerchiamo continuamente di tamponare i sintomi, di aggiustare, cuori infranti con un cerottino? È questo che siamo, May. È questa la tristezza che sta alla base di tutte le cose. Mono-no-awaré, | May. È questo che ci rende umani: non la felicità, ma la tristezza di fondo.”
“No,” disse May. “Io non lo accetto. Non accetto che il mondo debba essere così.”
“Peccato!” sbraitò Edwin. “Perché al mondo non interessa. Non si può spazzare via la realtà con i desideri. Non basta limitarsi a chiudere gli occhi e abbarbicarsi all’idea che vecchiaia, morte e disillusione non esistano. Esistono, May. Che ci piaccia o meno. La vita è solo una stramaledetta cosa dopo l’altra, ma è pur sempre l’unica partita da giocare. Non possiamo permetterci di attraversarla dormendo, perché non c’è un secondo giro di giostra. Dum vivimus, vivamus! ‘Finché si vive, viviamo al massimo.’ Dum vivimus, vivamus.”
Ma May era una delle poche persone in grado di ribattere a Edwin colpo su colpo, parola su parola, termine arcano su termine arcano, e al latino di lui replicò con uno dei suoi intraducibili. “Kekau,” disse. “Una parola indonesiana. Significa ‘svegliarsi da un incubo’. Ma quello che sta succedendo qui è qualcosa di completamente diverso, Edwin. Non ci stiamo svegliando da un incubo, ma in un sogno. Il mondo si sta finalmente svegliando. Si sta svegliando in un sogno. Un sogno meraviglioso. Un sogno etereo e dolce come…” Si fermò di colpo.
“Come zucchero filato,” finì Edwin. “Dolce e inconsistente come zucchero filato. Zucchero filato. Ci siamo ridotti a questo?”
“Non ridotti,” disse lei. “Siamo approdati a questo.”
Edwin lasciò cadere altre riviste sul letto, una dopo l’altra. “Guarda qua. Ho trovato un mucchio di vecchi rotocalchi scandalistici sulle celebrità. Ti ricordi il concetto di pettegolezzo? Bene, queste riviste sono piene zeppe di scandali e tragedie strappacuore. Per poter provare allo stesso tempo pietà e risentimento per dei perfetti sconosciuti! ”
Edwin buttò sulle riviste una ventiquattrore sbrindellata. Dentro si sentirono vetri che cozzavano tra loro. “Ho portato del whisky. Ho portato del gin. Un po’ di hashish. Una stecca di Lucky Strike. E addirittura,” tirò fuori un tubetto con un gesto da prestigiatore, “del rossetto.”
Ma ormai più che un mago sembrava un piazzista a corto di trucchetti. Istintivamente afferrò il cartellino sopra il televisore. “Ah ah! ” disse, e a quel punto il suo ah ah si era fatto decisamente forzato. “Che cos’abbiamo qui? Porno! Canale 13. Video casalinghi, May. Così possiamo vivere per procura anche le cose più intime. Possiamo pagare per guardare degli sconosciuti che in dieci minuti si divertono più di quanto ci divertiremo noi in tutta la nostra vita! ” Si sintonizzò sulle onde medie e pigiò il tasto della pay-tv. Comparvero immagini tremule in cui la pelle aveva un insano color verdognolo. “Porno, May! Persone che usano altre persone. Così è la vita.”
Sullo schermo, una splendida giovane e un uomo dai capelli ricci in accappatoio bianco sorridevano felici all’obiettivo. “Guarda qua, ” gracchiò Edwin. “Tra qualche istante si lanceranno in acrobatiche evoluzioni erotiche, senza la benché minima motivazione. ”
Si sentì la voce dell’annunciatore: “E adesso, ex divi del cinema per adulti discuteranno i loro sentimenti più profondi”.
“Cosa?” fece Edwin, strangolato dall’incredulità. “Ex pornostar? Ex?”
La ragazza nello schermo televisivo buttò indietro i lunghi capelli biondi, che a causa della cattiva ricezione sembravano di un verdastro torbido, e disse: “La prima volta che ho letto il libro di Tupak è stato sul set del mio ultimo film, la continuazione di Biancaneve e i Sette Cani, e mi sono detta: ‘Ehi, questo sì che ha qualcosa da dire’…”.
“No! ” gridò Edwin. “Basta parlare. Spogliati! ”
Il giovanotto, con un sorriso soave, cinguettò: “L’ultimo film in cui ho recitato si intitolava Incontri ravvicinati di un certo tipo e per quanto pensassi che senza dubbio aveva un suo pregio artistico, non potevo fare a meno di sentire che…”.
“Sentire!?” sbraitò Edwin. “Non sentire. Non pensare. Fallo. Fallo, accidenti! ” I gesti di Edwin si facevano di momento in momento più esagitati. “Siete l’onta di tutti gli uomini e donne ignobilmente arrapati, l’uno e l’altra! Dovreste vergognarvi di mostrare le vostre facce in pubblico.”
May, completamente distolta dalla meditazione e dalla gioia, si alzò in piedi, si lisciò la semplice gonnellina blu (la gonna “qualsiasi” che le era capitata sotto mano al mattino aprendo l’armadio) e disse: “Ora devo andare, Edwin. Ti ho concesso il tuo ultimo momento, ma è stato un errore. Non hai niente da offrirmi, a parte vecchie riviste e puzza di sigarette. Tutto questo”, fece un cenno al contenuto della stanza, all’immagine tremula del televisore, alle offerte sul comodino, “tutto questo è acqua passata. Io sono al di là. Sono cambiata, Edwin. Il mondo è cambiato. Sta sorgendo un nuovo giorno”.
“Un nuovo giorno? E che razza di mondo sarà? Un mondo senz’anima. Un mondo senza risate. Senza vere risate. Di quelle che ti fanno venire il mal di cuore e ti annebbiano la vista. In cielo non ride nessuno, May. E nessuno ride in paradiso. E lì che stiamo andando? Un mondo che ha dimenticato quanto sia triste una vera risata. Lacrime e risa, May. Due facce della stessa medaglia. Non puoi separarle. Nemo saltat sobrius! ‘Chi è sobrio non balla.’ L’ha scritto James Boswell, era vero nel diciottesimo secolo e lo è ancora oggi. Abbiamo bisogno dei nostri vizi. Abbiamo bisogno dell’inconsistenza dello zucchero filato, perché la vita è triste, breve e finisce fin troppo presto. Come mai perdiamo tutto questo tempo a cercare di rattoppare la nostra identità? Perché siamo tanto attratti dalle frivolezze? Perché queste piccole cose da niente sono importantissime. ”
May non lo stava ascoltando più e Edwin avrebbe potuto parlare alla propria ombra. (E, in un certo senso, era esattamente quello che stava facendo.)
“May, non so quale sia il senso della vita, ma una cosa la so: le frasi più importanti di tutto il linguaggio umano sono: ‘se solo’ e ‘magari un giorno’. I nostri errori passati sono i desideri inappagati. Ciò che rimpiangiamo è ciò a cui aneliamo. È questo a fare di noi ciò che siamo.”
Aspettò una risposta. Aspettò un barlume di speranza. Ma non arrivò niente.
“Mi dispiace per te, Edwin.” Tolse la catenella dalla porta, uscì e si allontanò, nel sole e nella gioia.
Edwin si lasciò cadere sul letto disseminato di vizi, depresso e abbattuto. Se solo avesse pensato a correrle dietro, se solo avesse pensato di farla girare un’ultima volta e baciarla, ancora una volta. Lei lo stava aspettando e non l’avrebbe respinto, non ora. Né mai. Con ogni probabilità, avrebbe ricambiato il suo bacio, intensamente, disperatamente, così come uno sul punto di annegare annaspa in cerca di aria. Ma questo non lo sapremo mai.
Non lo sapremo mai perché Edwin la lasciò andare. Lasciò che andasse via, che chiamasse un taxi, la lasciò sola sul ciglio della strada nella calda luce autunnale con gli occhi chiusi, ad aspettare. Ad aspettare qualcosa, ad aspettare qualcuno.