3.

Quando Edwin arrivò la riunione era in pieno svolgimento. In altre parole, i muffin migliori erano andati via tutti. Mentre Edwin sceglieva fra quel poco che era rimasto (quelli al mirtillo e alla banana erano i primi a scomparire e restava sempre quello alle zucchine e farina di zucca che non voleva nessuno), l’onnipotente signor Mead distolse lo sguardo dal proiettore sopra la testa e disse a Edwin, con un pedante sorrisetto pieno di condiscendenza: “Edwin. Gentile da parte sua venire a trovarci”.

Il signor Mead era un esemplare del baby boom nel senso deteriore del termine. Benché fosse sulla cinquantina, continuava a farsi passare per un hippie. O qualcosa del genere. Veniva al lavoro in jeans, ma non tollerava che lo facessero gli altri. (E questo per dimostrare che, per quanto non fosse un “rigido”, era pur sempre “l’Uomo” o fesserie simili.) Il signor Mead stava diventando calvo e i suoi capelli grigi sempre più radi (grigi tinti, si diceva, perché il suo grigio vero non sembrava abbastanza naturale) erano raccolti all’indietro in un minuscolo codino simile al “pene di un chihuahua”, secondo la memorabile definizione di Edwin. Come ogni maschio della sua generazione a cui capitava di diventare calvo, in compenso (o per distrazione, difficile dire quale delle due) il signor Mead si era fatto crescere la barba. Il signor Mead portava gli occhiali di una bizzarra forma ottagonale, come a voler significare che ci si trovava davanti a un uomo che era la punta di diamante nel campo dell’ottica e quindi, per estensione, della politica, degli affari e della vita. Edwin odiava il signor Mead. Edwin odiava un sacco di persone, ma odiava soprattutto Mister Mead Cravatta-Pantaloni-di-velluto-Ehi-voi-vi-ho-mai-parlato-del-VeroSpirito-di-Woodstock. Lo odiava soprattutto quando il signor Mead sottolineava le cattive abitudini lavorative di Edwin, la sua mancanza di puntualità, la sua giovane età e l’inesperienza. Certo che Edwin aveva cattive abitudini lavorative. Certo che mancava di puntualità. Certo che era disorganizzato. Ma non c’era bisogno che il signor Mead sottolineasse tutto ciò con tanta gioiosa implacabilità.

Il nome completo del signor Mead era Léon Mead, anche se tutti sapevano che era semplicemente Leon, dal momento che l’accento era affettazione pura e semplice. Il cognome tuttavia aveva sempre colpito Edwin come l’emblema perfetto della generazione baby boom, una combinazione di “me”, io, e “need”, bisogno, summa di un’intera generazione.

Mentre si stava cullando in quello stato d’animo semincosciente da riunione, sbocconcellando la sua farina di zucca e cercando di non crollare stecchito dalla noia, Edwin avvertì la spiacevole sensazione di essere osservato da tutti, in attesa che lui dicesse qualche cosa. Era abbastanza simile a ciò che aveva provato poco prima, leggendo la lettera di presentazione di quel libro sulla montagna (il titolo stava già svanendo dalla labile superficie della coscienza di Edwin). Ma stavolta non si trattava soltanto di un’impressione.

Quando Edwin alzò lo sguardo, intorno al tavolo da riunioni tutti (il signor Mead con il suo sorrisetto condiscendente, May con un’espressione profondamente costernata e Nigel con una smorfia maligna), tutti, dal primo all’ultimo, stavano fissando Edwin intensamente.

“Be’?” fece il signor Mead. Un’unica sillaba, ma oh, con che tonfo pesante si depositò nella mente di Edwin. Cominciò freneticamente a scartabellare nella sua memoria a breve termine, cercando invano di collegare ciò di cui si stava parlando alla propria persona. Il taccuino non gli era di nessun aiuto; era pieno di molli ghirigori e slogan ispirati come “chihuahua” e “bla bla bla”. Alzò gli occhi verso May. Vide un volto così teso dall’ansia e dall’aspettativa da fargli pensare che fosse sul punto di avere le doglie. Era una pausa molto più che gravida. Era una pausa tipo parto plurigemellare in piena regola, tipo “dove sono gli analgesici, qualcuno chiami un’ambulanza”.

“Sì?” disse Edwin.

Il signor Mead stava tornando sulla questione dell’inaspettato buco nel catalogo autunnale. Da sei o sette anni, ogni ottobre la Panderic pubblicava un libro di un filosofo della Georgia che andava sotto il nome di Mister Ethics: un anno La Guida ali’etica per tutti, l’anno dopo Un’introduzione all’etica per il moderno manager, quello successivo Come vivere eticamente in questo nostro pazzo mondo aggrovigliato e così via. (Man mano che il successo di Mr Ethics aumentava, i titoli dei suoi libri si facevano più lunghi e il contenuto più scarno. Dell’ultimo, si diceva che lo avesse dettato alla segretaria al mattino mentre si radeva.) L’opera più recente di Mr Ethics, Le sette abitudini delle persone profondamente etiche, e le lezioni di vita che vi possono impartire, era già in fase di correzione di bozze. Malauguratamente, Mr Ethics era stato pizzicato dall’erario un paio di settimane prima con l’accusa di evasione fiscale e ora, anche con il patteggiamento, rischiava dagli otto ai dieci mesi di carcere. Tutta la collana di manuali di autoaiuto di Mr Ethics era stata sospesa. Che cosa tutto ciò avesse a che fare con Edwin non era chiaro.

“Siamo tutti qui in attesa,” disse il signor Mead, sempre con quel sorriso incollato alle labbra.

“In attesa?”

“Della sua proposta.”

“La mia proposta?”

“Esattamente, la sua proposta. Si ricorda quella piccola chiacchierata che abbiamo fatto la settimana scorsa, poco prima che partissi? Le avevo chiesto come se la passava sua zia. Lei mi rispose che se la passava bene. Poi abbiamo parlato di rimandare il prossimo libro di Mr Ethics, e io ho detto: ‘Cacchio, e come riempiremo il buco nel catalogo?’. Lei ha risposto: ‘Non si preoccupi. Ho un’idea brillante per un manuale di autoaiuto autunnale’. ‘Fantastico,’ le ho detto io. ‘Parliamone al mio ritorno.’ E lei: ‘Ma certo! ’. Non ricorda niente di tutto ciò?”

“Ma io non ho nessuna zia.”

“Santo cielo, ragazzo, questa faccenda non ha niente a che fare con sua zia! Insomma, che cosa ha da proporci?” Il tono del signor Mead si era fatto più aspro. Era evidente che la sua pazienza si stava esaurendo.

Edwin deglutì a fatica, sentì una vampata, salirgli alle tempie e, con voce tremula, disse: “Be’, al momento sto lavorando a una cosa”.

“E sarebbe?”

“È, mmm, un libro. Un libro molto interessante. Ci sto lavorando sopra. Un libro.”

“Vada avanti,” disse il signor Mead.

Nigel sfoggiava un sorrisetto sadico. “Sì, vai avanti. Siamo tutti molto interessati a quello che hai da dirci. ”

Edwin si schiarì la gola, fece uno sforzo per restare calmo e disse: “È un libro su come perdere peso”.

“Ne abbiamo già a palate,” disse il signor Mead. “Che taglio ha?”

“Be’, questo spiega ai lettori anche come smettere di fumare.”

“Robaccia da supermercato. Quello che ci serve è un manuale commerciale che entri in classifica. Qualcosa che abbia un po’ di sugo. Diete? Fumo? Sono stato via quasi due settimane, e questo è il meglio che riesce a tirarmi fuori?”

“Be’, no. Questo libro spiega anche ai lettori come migliorare la propria vita sessuale. Una cosa che si chiama la, mmm, Tecnica Li Pok, o forse Li Bok. Rivoluzionaria. Molto sexy.”

Il signor Mead aggrottò la fronte, ma con aria di approvazione. “Sesso,” disse. “Questo mi piace.” E prima che Edwin se ne rendesse conto, l’enfasi del momento gli aveva preso la mano. Si ritrovò trascinato in un circolo virtuoso: più carne metteva al fuoco, più il signor Mead sembrava entusiasta, la fronte aggrottata si faceva sempre più pensierosa e i suoi cenni di assenso sempre più vigorosi.

“Il libro spiega anche alla gente come fare soldi.”

“Eccellente.”

“E come liberare la propria creatività. E raggiungere un equilibrio interiore.”

“Bene, bene. Vada avanti.”

“Acquistare disinvoltura e fiducia in sé, aumentare la comprensione per il prossimo, e ci sono anche, mmm, metodi e consigli per il mercato azionario. C’è tutto ciò che si può desiderare. Soldi. Sesso. Perdita di peso. Il senso della vita.”

“Ehi, questo sì che mi piace,” disse il signor Mead. “È una specie di summa del manuale di autoaiuto.”

Dall’altra parte del tavolo, il sorriso di Nigel era ormai ben oltre la malignità. Era la maschera stessa di Lucifero. Il signor Mead, invece, era estasiato. May aveva un’aria preoccupatissima. Edwin pensava di essere lì lì per svenire.

“Fantastico,” disse il signor Mead. “Lunedì prossimo, al mio ritorno, lo voglio sulla scrivania. ” (Il signor Mead era sempre in giro per qualche motivo, che si trattasse del Simposio sui finanziamenti all’editoria o la Fiera del libro di Francoforte.) “Ah, e come ha detto che è il titolo?”

“Il titolo?”

“Sì, ragazzo, il titolo. Come si intitola?”

“Vuole dire il titolo del libro?”

“Non sia così maledettamente lento. Certo che sto parlando del titolo del libro. Come pensa di intitolarlo?”

“Si intitola, mmm, Quello che ho imparato sulla montagna.”

“La montagna? Non capisco. Che montagna?”

“Si tratta di una montagna. Una montagna molto alta. In Npeal. O forse in Tibet. L’autore ha imparato molte cose su questa montagna. Da cui, imam, il titolo.”

“Quello che ho imparato sulla montagna.” Il signor Mead si sfregò la mandibola. “No. Non mi piace. Non mi piace neanche un po’. Non è abbastanza incisivo.”

“Si potrebbe chiarire l’argomento nel sottotitolo. Magari con qualcosa del tipo Sesso alla grande, chili in meno, soldi facili. Sbatterci dentro qualche punto esclamativo per dare un po’ di enfasi, magari anche…”

“No, no, troppo prolisso. Nel mercato odierno i titoli lunghi non vendono. Bisogna che sia corto, preciso. Magari una parola sola, icastica. Oppure un’allusione a qualche film di cassetta. Qualcosa che segnali al lettore il genere di ‘viaggio magico’ in cui stiamo per imbarcarci. Forse Il mago di Oz.”

“O L’invasione degli extracorpi,” disse Edwin a mezza voce.

“Sul numero del mese scorso di ‘Publishers Weekly’,” disse il signor Mead, “c’è un’inchiesta proprio sulla lunghezza dei titoli di saggistica. Ne viene fuori che la lunghezza media di un titolo è… cosa diceva, Nigel?”

“Diceva 4,6 parole.”

“Esattamente, 4,6. È questo il numero ottimale di parole per il titolo di un saggio di successo. Quindi lavoriamo con questi parametri, ok?”

“E di preciso,” disse Edwin, “che cosa sarebbe lo 0,6 di una parola, stupido coglione bacato dai capelli grigi?”

Ma Edwin non formulò la domanda con queste parole. In realtà disse: “0,6?”.

“Esattamente. Ossia qualcosa come…” Il signor Mead ci pensò su un momento. “Be’, una contrazione. O magari un articolo: un, uno, il. Oppure, aspetti! Una parola col trattino. Potrebbe essere quello F 1,6, giusto?”

Seguì una lunga divagazione sul fatto se “un” o “il” valessero una parola intera o fossero solo lo 0,6.

“Forse,” disse il signor Mead, “dovremmo avviare una ricerca interna. Prendere il numero medio di parole dei titoli dei nostri ultimi dieci cataloghi, dividerli per 0,6 e partire da lì, no?”

“Mi metto al lavoro subito, signor Mead,” disse Nigel scarabocchiando qualcosa sul suo taccuino. (Alla fine della giornata, con tutta probabilità il signor Mead avrebbe completamente dimenticato la sua richiesta.)

“Bene, bene. E non si dimentichi i prefissi, Nigel. Direi che i prefissi non possono essere esclusi. Anche quelli potrebbero benissimo essere contati come uno 0,6.”

“Mi prendo un appunto,” disse Nigel.

“E facciamo in modo che la lunghezza totale del libro non superi le trecentonove pagine esatte. Attualmente è la media dei bestseller. Quindi assicuriamoci di arrivare esattamente a… quanto avevo detto? Trecentonove pagine. Intesi, Edwin?”

Ma a quel punto Edwin aveva già passato una corda attorno a una trave da cui penzolava il suo corpo senza vita.

Il signor Mead si girò verso May. “Qual è la sua opinione sulla faccenda? Che cosa ne pensa? Sinceramente.”

“Penso che sia una cosa su cui non vale la pena spendere troppo tempo,” disse May.

“Esattamente. Ha ragione. Stiamo sprecando le nostre energie dietro ai dettagli.” Poi, con un gesto sprezzante in direzione di Edwin: “Non capisco nemmeno perché ha tirato in ballo la questione. Concentrazione, Eddie. E questo che manca alla sua generazione. Concentrazione. Mi viene in mente una massima di Confucio, molto in voga quando ero più giovane. Dovevo essere a Woodstock, o forse a Selma. Ma da allora continua a risuonarmi nella testa. Ovviamente, nell’originale mandarino è meglio, ma la sostanza, se volete, è che in ogni gerarchia… ma un momento, forse non è Confucio, mi sto confondendo con il Principio di Peter”.

“Scusi?” Era May, che cercava ancora una volta di riportare la discussione alla realtà. “Stavamo parlando dei cambiamenti nel catalogo autunnale.”

“Ah, sì, il catalogo autunnale. Esattamente. Giusto, May. Mi fa piacere che abbia tirato fuori la cosa. Insomma, come sapete tutti, con la serie di Mr Ethics sospesa a tempo indeterminato, dobbiamo rimboccarci le maniche, darci dentro e bla, bla, bla, bla, il pene del chihuahua.”

Edwin si era già desintonizzato da quel chiacchiericcio, così come un piccolo spostamento della manopola della radio può bastare ad annegare un predicatore fondamentalista nelle scariche elettrostatiche. Sebbene per la restante parte della riunione rimanesse seduto con un contegno apparentemente calmo, il suo cuore era stretto in una morsa di panico. Era in trappola. Si era messo all’angolo con le sue stesse parole, aveva sigillato tutte le uscite, chiuso la porta e inghiottito la chiave. A quel punto soltanto un uomo poteva salvarlo: Tupak Soiree.

“…ed è stato allora che ho deciso di dedicare la mia vita a qualcosa di più pregnante, qualcosa che avesse un livello morale più elevato.” Il signor Mead stava snocciolando uno dei suoi aneddoti digressivi. “E da quel momento mi sono lasciato tutto alle spalle. Tutto.”

Edwin si trattenne a stento dal balzare in piedi, applaudire freneticamente e urlare: “Bravo! Bravo! ”.

Gli anni sessanta non tramontano mai, diventano solo molto, ma molto noiosi.

Mentre uscivano dalla sala riunioni tutti insieme, Nigel si incollò al fianco di Edwin. “Grande presentazione, Ed. Com’era? ‘È remunerativo, ha un buon sapore e guarisce dal cancro’?”

“Nigel, va’ a cagare sulle ortiche.”

“Le stesse ortiche che ti sei massaggiato addosso, vuoi dire?”

Edwin allungò il passo, distanziando Nigel, che si fermò e gli gridò dietro: “Comunque volevo dirti che sta bene!”.

Edwin si voltò. “Chi?”

“Mia zia Priscilla. Sta bene. Alla fine si trattava solo di una leggera influenza. Allora buona fortuna con il tuo libro. Mi sembra molto più interessante del progetto a cui stavo lavorando io.”

Figlio di zoccola.

“Bah! ” disse Nigel scomparendo nel suo ufficio. Con vista.

Edwin si trascinò nel proprio cubicolo, brontolando giuramenti a mezza voce e mormorando l’invettiva di Re Lear. “Gliela faccio vedere io. Gliela faccio vedere io a tutti quanti.”

Quando entrò, May lo stava aspettando. “Sai,” disse dando un’occhiata alle pareti del cubicolo, “non c’è nessuna legge che vieta di appendere quadri o aggiungere qualche tocco personale. Il signor Mead incoraggia queste cose. Dice che ‘alimenta la spontaneità di chi lavora’. Giuro che questo cubicolo è il posto più squallido, più…”

“È una forma di protesta,” rispose lui. “Protesto contro fiori, palloncini, foto di bimbi e vignette spiritose ritagliate dalla pagina dei fumetti. ”

“Di sicuro è molto zen.” May si sedette sulla scrivania di Edwin e poggiò un gomito sul mucchio di manoscritti ora impilati sul raccoglitore IN USCITA. “Allora, racconta,” disse. “‘Quello che ho imparato sulla montagna} Da quale cappello l’hai tirato fuori? Io non l’avevo mai sentito, e sono io quella che distribuisce il lavoro. Dimmi che non te lo sei inventato lì per lì. Ti prego, dimmi che non è così. ”

“May, tu non capisci. Ero in trappola.”

“Edwin, dobbiamo tornare immediatamente dal signor Mead, in questo preciso istante, e spiegargli che in un momento di debolezza, oberato dalla fatica del lunedì mattina, hai…”

“May, ascoltami. Posso farcela. Ti ricordi quando mi hai assunto? Ti ricordi il mio primissimo incarico? Rivedere la linea di manuali di maggior successo da sempre della Panderic: Un brodino per il vostro cuore sanguinante. E ti ricordi che cosa mi dicesti? Mi dicesti: ‘Non ti preoccupare, sono libri che si scrivono praticamente da soli. La gente ti manda aneddoti edificanti e i cosiddetti autori di questi libri si limitano a raccogliere le varie storie lacrimose e appiccicare qualche modifica furba al titolo. Il redattore non deve fare altro che controllare la punteggiatura e l’ortografia’. Una passeggiata, ricordi? E poi, che succede? Durante la mia seconda settimana al servizio del brodino, la seconda settimana, mi vedo arrivare gli autori, tutti abbronzati e con l’aria del cane bastonato, monili d’oro scintillanti appesi a ogni parte del corpo. E che cosa venivano a raccontarmi? ‘Abbiamo un problema.’ Si trattava del brodino numero 217: Un brodino per i vostri piedi piatti. E che cosa mi dicevano? Mi dicevano: ‘Non ce la facciamo. Abbiamo finito le storie strappalacrime su bambini che muoiono di cancro osseo. Di aneddoti edificanti non ce ne sono più. Abbiamo esaurito le scorte’. E io, che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto, May?”

“Sai, se c’è una cosa che non sopporto è quando uno scrittore cerca di mascherare una storia dietro un dialogo,” disse May.

“Sono forse venuto a piangere da te? Mi sono arreso? Ho ammesso la sconfitta? No. Mi sono rimboccato le maniche e ho pensato: ‘Va bene, signori miei. In una situazione come questa c’è una sola cosa da fare: inventare’. Siamo andati a rovistare negli archivi, selezionando gli aneddoti meno memorabili da ognuno dei duecentosedici precedenti libri del Brodino, li abbiamo riconfezionati sotto il titolo di Un bel pentolone di minestra riscaldata per le vostre anime in pena. E ti ricordi che cos’è successo?”

“Sì,” disse May. “Me lo ricordo.”

“Diciassette settimane nella classifica del ‘Times’. Diciassette cazzutissime settimane. Ossia due settimane di più dell’Aquila dei Balcani. Diciassette settimane e non un lettore, un solo lettore, non un recensore, non un solo fesso di libraio che abbia sgamato. Non una sola persona che si sia resa conto che ci eravamo limitati a rifriggere del materiale vecchio. Quindi non venirmi a dire che non ce la farò a cavarmi dai guai. Un libro che promette salute, felicità e sesso alla grande? Non c’è problema. Bazzecole. Posso farcela, May. Posso venirne fuori.”

“Ma Edwin. Hai soltanto una settimana. Il signor Mead si aspetta di trovare un manoscritto sul tavolo al ritorno dal suo viaggio, e tu non hai niente da fargli vedere. Niente.”

“Ah, è qui che ti sbagli. Io so qualcosa che tu non sai. Io quel manoscritto ce l’ho già!” Edwin girò intorno alla scrivania e con un gesto teatrale cacciò la mano nel cestino per prendervi il manoscritto scartato.

Il cestino era vuoto.