43.
Sulle alte vette alpine del suo ritiro montano, mentre la neve scendeva soffice tra i rami degli abeti e dalle cime lontane calava un’aria fredda e frizzante… Tupak Soiree se ne stava con le dita nel naso. L’indice ficcato bene in fondo, stava cercando di stanare quello che sembrava un pezzo di stucco umido.
Tupak Soiree non era l’Anticristo. Non era neanche un genio del male. In realtà, una volta che lo si conosceva, era un tipo piuttosto affabile sebbene, come sappiamo, fosse responsabile del crollo della civiltà occidentale. Viveva in un’ampia e lussuosa baita che guardava su una vallata panoramica. (Probabilmente la parola “baita” andrebbe messa fra virgolette; più che di una semplice “baita”, si trattava di un esteso complesso di ville pseudorustiche collegate fra loro.) Tupak era proprietario di metà della cittadina sottostante e di buona parte dei monti vicini. La sua intenzione non era quella di diventare un messia, né tanto meno si crogiolava nel culto della personalità così rapidamente sviluppatosi attorno al suo libro; almeno non all’inizio. Però, che diamine, era pur sempre un essere umano, era pur sempre un uomo, e pertanto come qualsiasi individuo sensibile all’adulazione e alle tentazioni. (Posto che tale individuo fosse un dissoluto libidinoso amante degli accessori in cuoio.) Quando le donne avevano cominciato a scrivergli offrendogli la propria “sensualità cosmica”, a che pro negare loro tanta felicità®?
Tupak Soiree, come moltissimi sedicenti guru, era straordinariamente privo di immaginazione rispetto alla soddisfazione di ogni proprio desiderio o capriccio. Sesso a volontà e costante servilismo da parte dei tirapiedi, tutto qui. Si era spremuto le meningi, ma non era riuscito a tirar fuori niente di meglio.
E a dire il vero, Tupak era già stufo dei nugoli di bellezze che sfilavano nella sua vita, il “sacro harem felice” con le sue incessanti e fastidiose richieste gli era già venuto a noia. Soprattutto l’ultima delle sue accolite, quella che si faceva chiamare Raggio di Sole Felice e che non smetteva un attimo di assillarlo. “Ti sembro illuminata? Eh?” “Sì,” le rispondeva lui stancamente per la quattrocentesima volta nella stessa giornata. “Mi sembri illuminata.” “Veramente? Non lo dici tanto per dire?” “No no, va benissimo. Mi sembri completamente illuminata.” “Perché oggi non mi sento molto illuminata. ” Certo, al suo arrivo quattro soldi glieli aveva portati (non un granché, un paio di milioni sì e no), ma era pur sempre un pensiero gentile. (Tupak spendeva di più in un mese soltanto in rinfreschi. Quando Raggio di Sole Felice gli aveva girato il denaro, che pareva avesse rubato al marito, Tupak si era limitato a gettarlo nel mucchio. Si può dire che non passava giorno senza che arrivasse qualcuno a regalargli Rolex o borse piene di rubini. Sempre la solita solfa.)
“Ti sembro illuminata? Eh? Davvero?”
Dopo una settimana circa di quel regime, Tupak le aveva suggerito di andarsene “in cerca della visione” sul Monte Pericolo. “È nel cuore della foresta,” le aveva detto. “Tu continua a camminare, e magari per concentrarti meglio tieni gli occhi chiusi. Io la prima volta l’ho raggiunta così l’illuminazione. ”
“Ma credevo che fosse successo in Tibet.”
“Tibet. Colorado. Che differenza fa?”
Ma lei, purtroppo, non voleva allontanarsi dal suo luminoso fianco, nemmeno per un istante. Nemmeno per uno stramaledetto momento. “Ti spiace? Dovrei pisciare.”
Non era facile essere l’Illuminato Sommo Spirito dell’Universo. Non era facile essere il Più Riverito Pensatore della Nostra Epoca. Dovevi essere sempre all’erta, sempre lì a pensare qualcosa di intelligente da dire quando la conversazione languiva; non potevi mai dire “Che ne so” o “Chi se ne sbatte”. Spesso Tupak si chiedeva se anche Sir Isaac Newton o Albert Einstein avessero incontrato difficoltà simili. Spesso si chiedeva se anche loro avessero provato la stessa “ansia da prestazione”.
I benefici secondari derivanti dall’essere guru erano abbastanza gradevoli: soldi, notorietà, lussi stravaganti e continue apparizioni sui media. Tupak adorava le interviste, adorava le celebrità. La prima volta che aveva incontrato Oprah gli girava la testa dall’emozione e una volta, dietro le quinte, aveva diviso il camerino con… Ma no, chi se ne frega. Adesso erano le celebrità ad andare da lui. Certe volte, a tarda notte, quando tutti dormivano e Tupak Soiree vagava per i corridoi della sua enorme villa, si chiedeva: Perché sono così triste? Perché sono così malinconico? Che cos’è che mi manca? Se solo… Magari un giorno…
Gli mancava la sua infanzia (che non era stata in Bangladesh; Tupak sapeva a stento come si scriveva, Bangladesh), e soprattutto gli mancava la spensieratezza degli anni del college. Forse dopo tutto avrebbe dovuto specializzarsi in informatica. Aveva fatto un solo corso in Unix, ancora al secondo anno, e si era meravigliato della bellezza essenziale del sistema binario, era rimasto assolutamente incantato e affascinato da quella nitida serie di 1 e di 0, quella sequela di alternative su cui si potevano costruire modelli illimitati e complessi. Era la cosa più vicina all’illuminazione che Tupak avesse mai conosciuto.
E ora, in piedi al chiaro di luna con le dita nel naso, sospirò: “Forse dopo tutto avrei dovuto fermarmi all’informatica”.
Quando aveva costruito il suo ritiro di montagna e poi comperato la cittadina di sotto, si era baloccato con l’idea di creare una grande rete informatica intelligente, attrezzata con l’ultimo grido della tecnologia e un solo allievo: lui stesso. Aveva equipaggiato un’aula con i computer più sofisticati che si potessero comperare. A parte il fatto che erano arrivati gratis. Un dono di come-si-chiama, quel babbeo con gli occhiali e l’alito pesante. Com’era il nome? Quell’accolito che continuava a offrirsi di lavargli i piedi. Bill? Billy? Sì, ecco, Billy Gates. Tupak aveva chiesto a Gates di dargli qualche consiglio, magari fargli vedere come si usano le chat line (che comunque erano quasi tutte su Tupak Soiree, per cui magari avrebbe potuto origliare, entrarci sotto falso nome). Ma Billy aveva protestato prostrandosi quasi fino a terra. “No, no, no. Non potrei mai insegnarti niente del genere. Tu sei troppo divino per lordarti le mani con cose profane come navigare in Internet.”
Così Tupak lo aveva fatto fustigare.
Era stato un errore gravissimo da parte di Tupak. Fustigare Billy Gates, insieme al fatto di tenere un harem e all’abitudine di apparire a troppi talk show, aveva suscitato un’immediata e pungente reazione da parte di M.
Un messaggio conciso, che aveva fatto tremare di paura Tupak:
Signor Soiree, ultimamente mi sembra che lei se la stia spassando un po’ troppo. Le consiglierei di limitare alcuni dei suoi eccessi più disgustosi. Si ricordi che io conosco il suo segreto. Conosco la verità su di lei. Posso distruggerla con la stessa facilità con cui l’ho creata. Quindi lasci perdere le stronzate, altrimenti verrò personalmente a buttarla giù dalla montagna a calci in quel suo flaccido culo. Non è una minaccia. È una promessa. Sinceramente suo, M.
In preda al panico, Tupak aveva cancellato le apparizioni televisive in programma e aveva convocato un’assemblea per ingiungere a tutti di smetterla di chiamarlo l’Illuminato. “È solo un libro,” aveva detto. “Soltanto un manuale di autoaiuto.”
“Sì, o nostro Illuminato,” avevano risposto tutti in coro.
E ora ci si metteva pure quest’altra seccatura: quella cosa in fondo al naso che per quanto rovistasse non riusciva a stanare. “Accidenti alla manicure quotidiana; è praticamente impossibile mettersi le dita nel naso.” Peggio ancora, in un eccesso di zelo conseguente alla reprimenda di M., aveva fatto sgomberare tutti i lacchè dell’ala est, per cui al momento non c’era più nessuno che potesse farlo al posto suo. Avrebbe dovuto cavarsela da solo. La vita è proprio ingiusta.
In alto, sopra il ritiro montano, Edwin de Valu se ne stava accovacciato nel sottobosco.
Le mani tremanti, il cuore che martellava, avvitò il mirino notturno dell’Atku e regolò il fuoco. Faceva fatica a controllare il respiro, a non andare in iperventilazione. Che cosa aveva trasformato Edwin de Valu, redattore di mezza tacca, in un guerrigliero della boscaglia, in procinto di sparare a quello stesso scrittore che un tempo aveva salvato dall’anonimato della pigna purulenta? Semplice. Aveva estratto la pagliuzza più corta. “Bene, ” aveva detto il signor Mead. “È fatta.” “Senti senti! ” aveva detto Mr Ethics. Edwin aveva chiesto di fare due su tre, ma aveva perso ancora. Allora avevano provato con sasso-carta-forbici, ma era venuto fuori sempre Edwin. Poi avevano fatto il gioco delle tre tavolette e una patata-due patate, e Edwin aveva continuato a perdere. “D’accordo,” aveva detto stizzito. “Lo faccio. Voi due però dovrete fornirmi il supporto.”
C’erano voluti tre giorni per arrivare in Colorado e altri due per raggiungere la base dell’appartato rifugio montano di Tupak. Ethics e Mead stabilirono un presidio in uno dei pochi motel locali ancora aperti, Edwin si buttò il fucile in spalla e si preparò per la sua lunga marcia solitaria. “Non si preoccupi,” disse il signor Mead. “Noi siamo qui, pronti a intervenire se qualcosa dovesse andare storto. Dico bene, Bob?”
“Certo,” disse Bob, saccheggiando il minibar della camera. “Le saremo accanto. Ehi, ci sono gli anacardi! ”
Accompagnarono Edwin all’inizio del sentiero e gli augurarono “buon viaggio”, “buona fortuna” e altre formule talismanichç benaugurati.
Mentre Edwin de Valu arrancava su per la montagna, Mead ed Ethics si ritirarono nella loro stanza di motel. “Le ho mai raccontato di quando ero giovane?” chiese il signor Mead rientrando. “Al college, quando lavoravo nei circhi?”
“Nei circhi?”
“Certo. Giochi di prestigio, tre tavolette, anelli, tutto quanto.”
Le gambe indolenzite e la schiena a pezzi, Edwin arrancava faticosamente nella neve tra i rami di pino, dietro la tenuta di Tupak. Per sua fortuna, la truppa di guardie del corpo scelte di Tupak era da tempo stata conquistata dal “messaggio” e ormai passava la maggior parte delle ore di veglia alla smaniosa ricerca di gioia. Edwin passò rumorosamente accanto a una delle guardie seduta nella sua garitta che, a gambe incrociate, cantilenava il suo om soiree.
Potendo tornare indietro nel tempo, avendone la possibilità, uccideresti Stalin? Era quella la domanda che Edwin si poneva. E, inevitabilmente, la risposta era affermativa. Edwin de Valu avrebbe ucciso Stalin, l’avrebbe fatto senza pensarci un istante. E Tupak Soiree era lo Stalin della New Age. Aveva sganciato sul mondo la bomba atomica dell’amore, e qualcuno doveva fermarlo. In fondo al cuore Edwin sapeva di aver ragione, ma ciononostante si sentiva male e assillato dai dubbi. Un conto era rimuginare filosóficamente su una questione; un altro era tirare il grilletto.
Edwin guardò nel mirino.
“Non può sbagliare,” gli aveva assicurato il signor Mead. “È a prova di idiota. ” Nel liquido mondo verde della visione notturna, le pareti e le finestre della tenuta montana di Soiree fluttuavano sfocandosi di continuo. Edwin stava perlustrando i muri interni, setacciando l’interno quando, con suo improvviso e acuto sollievo, gli apparve chiaramente il volto di Tupak Soiree. Colto di sorpresa, Edwin si lasciò sfuggire un grido. Poi, costringendosi a rimanere calmo, puntò il raggio laser sulla guancia di Tupak e lentamente fece scivolare il dito sul grilletto.
Tupak camminava avanti e indietro con il dito infilato nel naso, ma Edwin riuscì a non perderlo di vista, come un puma non perde di vista la sua preda. “Eccoci.” Edwin respirò a fondo. Pensò a May. E, nella pausa fra un battito del cuore e l’altro, tirò il grilletto.
La finestra si infranse in una pioggia di vetri. Uno schizzo di sangue e ossa esplose dalla testa di Tupak Soiree e il guru piroettò di lato e cadde.
L’esplosione fu seguita da un silenzio assordante. Edwin scrutò attraverso il mirino notturno, guardando e aspettando. Niente. Tupak Soiree era atterrato dietro un tavolino e Edwin vedeva il buco del proiettile sulla parete di fondo. Sapeva che se il colpo gli aveva trapassato la testa, non c’era nessuna possibilità che Tupak fosse sopravvissuto. (Il signor Mead aveva spiegato che le pallottole esplodevano in uscita e che il vuoto creato dal loro passaggio risucchiava fuori la materia che attraversava.) Era finita. Tupak Soiree era morto e Edwin stava per far scattare la sicura, rimettersi il fucile in spalla e scivolare via nella notte, quando colse un accenno di… qualcosa. Un movimento. Forse un assistente che correva al fianco di Tupak? No. Peggio. Molto peggio.
Tupak Soiree si raddrizzò in piedi, mugghiando come un toro trafitto. Sollevò la mano e guardò inorridito lo zampillo di sangue dove prima c’era il dito. A causa del terrore e del male, Tupak aveva inspirato violentemente e l’indice mancante gli si era conficcato a fondo nella cavità nasale. “Oh bio Dio! Aiutatebi. Qualcudo bi aiuti.”
In preda al panico, Edwin fece fuoco ancora tre volte senza nemmeno mirare, mandando in frantumi specchi di ottone e vasi Ming in una pioggia di petali di rosa e acqua, mentre Tupak scappava lanciando guaiti nasali e soffocati.
“Merda!”
Edwin si lanciò giù a rotta di collo, senza fare il minimo tentativo di nascondersi e spalancò la porta del cortile sul retro con un calcio. Perché quel figlio di puttana non era morto e basta? Trovò Tupak rannicchiato in un angolino, paralizzato dal terrore. “Che cosa vuole? Che cosa vuole?”
Edwin aveva il fiatone. Il cuore gli martellava nel petto e la faccia grondava sudore. “Mi dispiace,” disse, “ma devo ucciderla.” Edwin trafficò con il fucile. Non era così che si era immaginato il suo primo incontro faccia a faccia con Tupak Soiree. “Mi dispiace,” disse Edwin, “ma devo farlo.”
Edwin stava per spiaccicare la celestiale materia grigia di Tupak Soiree, Messaggero d’Amore, Apostolo di Gioia, quando notò il dito ancora ricurvo incastrato nel naso di Tupak. Un uomo non poteva morire in quelle condizioni… Senza pensarci, Edwin allungò una mano ed estrasse il dito dal naso del guru, poi con un brandello di tenda improvvisò un laccio emostatico da legare attorno al moncone. “Tenga schiacciato qui,” disse. “Non sanguina molto. Probabilmente il calore dell’esplosione ha cauterizzato la ferita. Credo che nelle dita non ci siano arterie, quindi probabilmente meno peggio di quello che sembra. ”
“Grazie,” disse Tupak con voce querula.
“Ecco, vede?” L’emorragia era cessata quasi del tutto. “Tenga schiacciato forte con la mano in alto e vedrà che passa, okay?”
Nonostante le lacrime e il dolore, Tupak fece un sorriso coraggioso. “Okay,” biascicò.
“Così va meglio,” disse Edwin. “E ora devo ucciderla.”
“No, no, no, no, per favore, buon Dio, no. Almeno… almeno mi dica chi è lei.”
“Sono, mmm, il suo redattore.”
“Perché, ho un redattore?”
“Alla Panderic, non si ricorda? Il libro? Ci siamo parlati per telefono diverse volte.”
La paura di Tupak cominciò a scemare. “Edward?” chiese.
“ Win. Edwin. Spero che questo non si ripercuota sul rapporto redattore-autore, che dovrebbe essere fondato sulla reciproca fiducia, ma…” fece un passo indietro e alzò la canna del fucile. “Addio, Tupak.”
“Ma io non ho fatto niente! Non l’ho nemmeno scritto io, il libro.”
“Lo sapevo! Un computer, dico bene? Lei è una specie di genio del male. Ha programmato un computer in modo da fargli battere a macchina un dattilo di un migliaio di pagine.”
“No, no,” singhiozzò il guru. “Non sono un genio. Non sono un cervellone. Sono soltanto un attore.”
“Un attore?”
“Il mio nome è Harold T. Lopez. La ‘T’ sta per Thomas. Per favore non mi uccida. Mi sono diplomato con il Tri-State Community College Drama Program. Non sono nemmeno mai stato in Bangladesh. Per favore, non mi uccida.”
Edwin abbassò l’arma. “Harry? Lei si chiama Harry?”
Il guru ricacciò indietro un singhiozzo e annuì.
“Ma se quel libro non l’ha scritto lei, chi è stato?”
Harry Lopez (alias Tupâk Soiree, alias Signore dell’Universo) frugò freneticamente nei cassetti della scrivania mentre Edwin se ne stava seduto accanto, con l’Atku-17 pronto. Nonostante la mano che gli pulsava dolorosamente, infagottata in una maldestra fasciatura raffazzonata, cosa che rendeva ancora più difficile maneggiare carte, Harry fece del suo meglio. Una minaccia di morte imminente fa miracoli sulla concentrazione.
“Ecco,” disse Harry. “Ecco, vede? Questo è il mio curriculum e questa la mia fototessera. Non è il mio ritratto migliore; insomma, sembro più grasso di almeno cinque chili. Vede? Questi sono i film in cui ho avuto una parte. Questo è l’elenco degli spettacoli teatrali e questa è la mia insegnante di recitazione. Se vuole può chiamarla, garantirà per me.”
Edwin guardò il tutto in silenzio, incredulo. Effettivamente era il curriculum di Tupak Soiree. “C’è scritto che lei è l’ideale per ruoli di fuorilegge e/o amanti latini dalla carnagione scura’.” Sollevò un sopracciglio.
“Un’idea del mio agente,” disse Harry in tono piuttosto imbarazzato.
“È vero che sa ballare il tip tap e suonare il sax?”
“No. Insomma, non proprio. Ma tutti abbelliscono un po’ il proprio curriculum, no?”
Edwin mise da parte il foglio e fece la domanda, l’unica domanda che gli stava a cuore: “Chi è Tupak Soiree? Il vero Tupak Soiree”.
La risposta che arrivò non era quella che si aspettava. “Non esiste nessun Tupak Soiree,” disse Harry. “Non è mai esistito. È una truffa. Lei è stato raggirato, Edwin. Sono stato ingaggiato solo come controfigura per l’unico motivo che il suo capo ha cominciato a offrire soldi per le interviste. Sono stato ingaggiato per trattare con i media, per fare le interviste, per aiutare le vendite del libro, per dare ai lettori qualcuno su cui concentrare la propria adorazione. Tupak Soiree non esiste. E soltanto un ruolo, una parte che mi è stata assegnata.”
“Da chi, Harry? Chi l’ha ingaggiata?”
Harry fece un respiro profondo. “Un tizio giù a Paradise Flats. Un tizio che si chiama McGreary. Jack McGreary.”
Edwin si sedette. “McGreary. Perché il nome mi suona familiare? Non era il suo padrone di casa?”
“No,” disse Harry. “Non è mai stato il mio padrone di casa. Non lo conoscevo neanche finché non è comparso all’agenzia per il casting di Silver City. Io stavo facendo un po’ di teatro comunitario, pantomime introspettive con un solo personaggio, qualche opera sperimentale… ho fatto una commedia decostruzionista che consisteva in un unico suono: ‘Moo’. Ha avuto ottime recensioni, soprattutto dalla stampa alternativa. La comunità artistica locale l’ha salutato come un…”
“Harry? Sono armato, se lo ricorda?”
“Mi scusi. Dov’ero rimasto?”
Edwin produsse un suono a metà fra un sospiro e un grugnito “Stava facendo teatro comunitario a Silver City.”
“Giusto. Poi arriva il signor McGreary e mi chiede se mi va di guadagnare un sacco di soldi e vivere in una grande villa. Gli rispondo di sì, spinto da evidenti motivi artistici. Insomma, era la parte di tutta una vita. Mi chiede se penso di poter recitare il ruolo di un mistico dell’India orientale. Be’, mia madre era italiana e mio padre messicano, per cui non ero sicuro di potercela fare. Che ne so io dell’India? Ma il signor McGreary mi dice: ‘Per quello non ti preoccupare. Ti ricordi Archibald Belaney? Un inglese con gli occhi azzurri che riuscì a convincere il mondo di essere un anziano indigeno di nome Gufo Grigio? Li ha presi in giro per anni tutti quanti. La gente vede quello che vuole vedere’. A quel punto,! che diavolo, accetto la parte. Niente audizioni, niente provini. Solo una bella stretta di mano e una percentuale sui proventi, per così dire. Sono stato ingaggiato subito prima dell’intervista da Oprah. ” ] Harry si avvicinò, si sedette e guardò Edwin con sguardo implorante. “Deve credermi, non avrei mai immaginato che potesse finire così. Mi è sfuggita di mano. All’inizio spendevo tutto per comprare il silenzio dei vecchi amici. Sa, corrompere gli ex compagni di classe, passare mazzette per zittire gli insegnanti del college. Poi però loro hanno cominciato a leggere il libro e a restituirmi i soldi. Dicevano che ero un genio, nonostante io gli ripetessi che non avevo scritto una riga di quel libro. Mi ero limitato a impararne a memoria qualche passaggio chiave.”
“Lo so,” disse Edwin. “L’ho vista ripetere concetti a pappagallo.”
“Mi dispiace,” disse Harry. Ed era vero. Si agitò sulla sedia, sempre tenendo in alto la mano fasciata, e aggiunse: “Non sono poi così cattivo, sono soltanto un pessimo guru. Deve capirmi. Era un ingaggio. Insomma, stavo recitando, tutto qui. Mi aspettavo che da un momento all’altro qualcuno avrebbe mangiato la foglia, e invece non è successo. Era come se volessero farsi prendere per il naso. Era come se preferissero l’illusione alla realtà. Voglio dire, non avevo nemmeno l’accento giusto. Ho fatto solo un corso accelerato sui dialetti, senza neanche studiare le varianti dell’India orientale. Ho imparato una decina di cadenze cockney e tutti gli accenti inglesi possibili e immaginabili, ma i dialetti pakistani o indu li insegnavano solo a partire dal secondo anno, e io come complementare ho scelto informatica. Per questo il signor McGreary ha scelto di darmi come città natale un oscuro villaggio nel Nord del Bangladesh; pensava che ci fossero meno probabilità che qualcuno lo conoscesse. L’accento mi ha dato grossi problemi. Peccato, perché con l’irlandese me la cavo benissimo. Davvero. Avevo 8+. Vuole sentire?”.
“Mi risparmi i suoi numeri da cabaret,” disse Edwin.
“Però so comporre eccellenti limerick,” disse Harry, modesto come sempre.
“Il fucile, Harry. Si ricorda?”
“Oh,” fece Harry afflosciandosi.
“Non me ne frega niente dei voti che ha preso in dialettologia, capito?”
Harry abbassò lo sguardo, avvilito. “È la stessa cosa che diceva anche il signor McGreary, solo che lui era meno educato. Diceva: ‘Pezzo di cretino. Chi diavolo crederà mai a un americano italo-messicano con l’accento irlandese e un nome come Tupak Soiree?’. Continuava a darmi delle gran pacche sulla testa. Non era granché simpatico, come persona. Credo proprio che dovrebbe ritrovare il fanciullo che ha in sé. ”
“Dove sta adesso? Questo signor McGreary, come faccio a trovarlo?”
“Per quanto ne so io, è ancora a Paradise Flats.”
Edwin si alzò per congedarsi. “Grazie, Harry. È stato un piacere. Mi dispiace per il dito. ”
“Senta,” disse Harry. “Se va a Paradise Flats, stia attento. È un tipaccio.”