8.

Nei giorni successivi, una strana calma si impadronì di Edwin. Era la calma di un uomo che ha accettato il proprio destino, si tratti del plotone d’esecuzione, di morte per iniezione letale o di dover affrontare un capo tirannico, avendo come uniche armi vuote scuse e deboli pretesti. Era una calma profonda, esistenziale. Una calma che consentiva a Edwin di scivolare sulla superficie di onde squassate dalla bufera con assoluto aplomb. Addirittura con grazia. Aplomb e grazia, erano queste le qualità che ora Edwin voleva coltivare.

Quando Nigel l’aveva dileggiato per il manuale di autoaiuto scomparso (“il libro che avrebbe cambiato l’umanità”, come l’aveva irridentemente definito Nigel), chiedendo a Edwin se l’autore non si stesse preparando anche per camminare sull’acqua, guarire i ciechi e sanare gli storpi, Edwin si era girato e con suprema dignità gli aveva detto: “Nigel, vai a fare in culo e poi impiccati”. Proprio così, con aplomb e grazia: “Vai a fare in culo e poi impiccati”.

“Ehi, Edwin, lo sai come si dice. Pietre e bastoni…”4 Nigel era in piedi davanti alla scrivania di Edwin, il volto contratto in quello che voleva sembrare un sorriso.

“Oh, le parole possono fare del male. Ti sei mai preso un dizionario illustrato sulla testa? Vuoi provare a vedere l’effetto che fa?”

“Andiamo, Edwin. Se non posso nemmeno rallegrarmi della tua imminente autodistruzione, che cosa mi rimane?”

“Schadenfreude,” disse Edwin. Era uno dei termini intraducibili di May. “Il piacere che si trae assistendo alle disgrazie altrui.” Una parola tedesca (ovviamente).

Edwin si girò verso Nigel e gli disse, dolcemente: Perche non prendi la tua sensibilità schadenfreude e non te la metti su per il…“.

“Lo sai qual è il tuo problema, Edwin?”

Edwin puntò un dito moralistico contro il petto di Nigel. “Sì. Che non sto al gioco. ”

“Oh, no. Tu stai al gioco. È solo che ci stai male. Insomma, perché diamine hai promesso una simile assurdità? Che cosa ti è venuto in mente? Come quel libro che hai tanto sostenuto la scorsa stagione. Com’è che si intitolava?”

Edwin distolse lo sguardo. “Lasciami in pace,” disse.

“Muori, radicale, muori! Era così. Era questo il titolo, giusto? ‘Una generazione in punto di morte di fronte alla vecchiaia, all’incanutimento dei peli pubici, all’impotenza sessuale e al cancro alla prostata. La generazione convinta di restare per sempre giovane ora, decrepita, sprofonda nell’angoscia. Vittima della calvizie, della flatulenza, grassa e flaccida.’ Era così, vero? Era così che diceva il lancio. A che diavolo stavi pensando? E l’avevi presentato come un libro umoristico, Cristo santo.”

“Be’, io lo trovavo divertente.”

“Senti…” Nigel si protese verso Edwin facendo ciondolare la cravatta sulla scrivania. “Che cosa cercavo di dirti la prima volta che tirasti fuori la proposta? Ti dissi: ‘I cinquantenni faranno fuoco e fiamme, ma non la manderanno giù. E non amano essere presi in giro’. Questo ti dissi, e tu mi hai dato retta? No. Mi hai detto di andare aff… Queste sono state le tue parole, per usare un eufemismo. Sei sempre così volgare, Edwin.”

“Quel libro sui radicali cinquantenni si sarebbe venduto. Si sarebbe venduto a strafottere.”

“Edwin, i radicali nordamericani si sentono superiori a tutti quanti. Superiori ai loro genitori, superiori a noi. E per quanto riguarda il loro posto nella storia, sono assolutamente privi di senso dell’umorismo. Questo lo sai tu, lo so io, lo sappiamo tutti. ”

“Va bene, va bene. Pensavo che potessimo fare controtendenza. Pensavo che una volta tanto avremmo potuto far vedere che abbiamo una spina dorsale.”

Quello che però Nigel non sapeva, e che non sapeva nemmeno May, era che l’autore di Muori, radicale, muori!, Douglas C. Upland, era in realtà lo pseudonimo di Edwin Vincent de Valu. Quello che aveva proposto in riunione era il suo libro, era il suo manoscritto quello che il signor Mead aveva bollato come “puerile, infantile e tutti gli altri aggettivi che significano ‘giovane’”. E in quel momento, mentre Nigel lo prendeva a male parole, all’insaputa di tutti il manoscritto di Edwin era lì nel cassetto, che respirava, pulsava di vita, restio a morire. (E chissà quanti altri redattori avevano nei cassetti manoscritti segreti come quello, che respiravano silenziosamente, in attesa del momento giusto per uscire alla luce… Magari perfino il signor Mead ne aveva uno o due nascosti nei recessi più bui del suo ufficio.)

“Nigel,” disse Edwin, “non so se te ne sei mai reso conto, ma io ti disprezzo. Mi fai venire la pelle d’oca.”

Nigel si piegò in avanti, la cravatta penzoloni, la voce più condiscendente che mai. “Tu non odi me, Edwin. Tu odi ciò che rappresento. Tu odi il successo che mi sono conquistato, nonostante le carte false che ci hanno fatto.” (Con quel “ci”, ovviamente alludeva alla Generazione X.5 Nigel ne parlava come se si trattasse di una nobile confraternita, invece che di una categoria demografica di giovani adulti senz’arte né parte.) “Non sono io quello che odi, Edwin.”

“Oh sì invece,” disse Edwin sorridendo, mentre infilava la cravatta di Nigel nel temperamatite. “Sei proprio tu.”

“Senti, se vuoi che ti aiuti con il signor Mead quando rientrerà, io… ehi! Ma che… ” stava per finire garrottato. “Accidenti, Edwin! ” Boccheggiando man mano che il nodo si stringeva, Nigel tirò la cravatta, ormai spiegazzata e mezzo sbrindellata, per liberarla dal temperamatite, facendo svolgere la manovella come se ci fosse una molla a tirarla. “Accidenti! Accidenti a te!”

“Ah, ah, ah,” disse Edwin agitando un dito. “Contegno.”

Quando finalmente riuscì a estrarre dal temperamatite di Edwin ciò che restava della cravatta, Nigel era tutto rosso in faccia e semistrangolato. “Era seta pura!”

“Be’, ora è merda pura.”

“Ti manderò il conto,” disse Nigel agitatissimo, uscendo furioso dal cubicolo di Edwin. “Puoi starne certo. ”

“Torna pure! ” gli disse Edwin. “La porta è sempre aperta! ”

Edwin si appoggiò allo schienale, le mani dietro la testa, e ancora una volta si stupì della propria calma profonda. L’ulcera si stava comportando bene; se la stava godendo. Godendo come un paracadutista a cui non si apre il paracadute si può godere la brezza.

Sono in caduta libera, pensò. E ho appena fatto a pezzi la cravatta di Nigel.,.

Non riusciva a smettere di ridacchiare.

E così la settimana passò. Edwin si sentiva più calmo e pieno di aplomb di quanto non fosse mai stato in vita sua, talmente calmo da aver quasi raggiunto uno stato di satori. O di stasi. A volte è difficile dirlo. Sapeva che di lì a poco ci sarebbe stato uno schianto e un’esplosione, sapeva benissimo che il piano di May (“l’affare è andato a monte”) non avrebbe funzionato. Chiunque altro alla Panderic avrebbe anche potuto farcela, ma Edwin no. Ci sarebbero state domande. Telefonate di controllo alla Random House. Minacce, accuse, risposte sferzanti e poi, lentamente, il cappio si sarebbe stretto e tutto sarebbe ripiombato addosso a Edwin. Il signor Mead non si era mai veramente fidato di lui, e aveva ottimi motivi. Dopo tutto, una volta Edwin aveva fatto fuori un autore particolarmente importuno. L’aveva ammazzato. Non in senso letterale, ovviamente. Aveva semplicemente tagliato i rapporti e poi, convocato inaspettatamente dal settore marketing, aveva dichiarato: “È, mmm, morto”. No. Edwin non si sarebbe mai sognato di uccidere davvero uno dei suoi autori. Sperava un giorno di imbattersi nel misterioso signor Soiree in modo da poterlo ringraziare come si meritava. Ringraziarlo per avergli mandato quell’enorme plico dattiloscritto. Ringraziarlo per aver scatenato la crisi che aveva costretto Edwin a uscire dal mondo dell’editoria, che lo aveva costretto nella miseria, che lo aveva costretto in uno scatolone obbligandolo a una dieta di formaggio rappreso grattato dai cartoni di pizza nell’immondizia. Costretto a uscire dal solco della propria esistenza.

Mentre le ore e i giorni prima del ritorno del signor Mead si assottigliavano, Edwin passava il tempo a inscatolare la propria vita. Sgombrò la scrivania, rubacchiò qualche dischetto del computer e salutò i colleghi che riusciva a sopportare, e viceversa. (La lista era cortissima. Praticamente si esauriva con May.) Nigel gli presentò un conto di 136 dollari per la cravatta rovinata e Ëdwin si cacciò scrupolosamente il conto sul fondo delle mutande e per il resto della giornata ci tenne il sedere sopra. Furono ore splendide, gioiose. Edwin riuscì anche a scusarsi tardivamente e goffamente con May. “Mi dispiace,” le disse. “Insomma, per averti messo le mani addosso nel taxi il giorno che mi sono dato malato. Mi dispiace proprio tanto, e volevo solo farti sapere che non l’avrei mai fatto se non fossi stato così ubriaco. Davvero, diversamente non ti avrei mai fatto delle avance. ”

Stranamente, non gli sembrò che la cosa la facesse sentire meglio. “Lo so che non l’avresti mai fatto,” rispose lei. Lo so.

Il venerdì Edwin la invitò fuori a bere qualcosa dopo il lavoro, ma May non parlò molto. Rimase seduta lì a giocherellare con la sua acqua minerale, rispondendo con cenni e alzate di spalle, lasciando sul bordo del bicchiere tenui ferite pastello con il suo rossetto dal colore acceso.