49.
La casa mobile argentata friggeva nella calura, e sotto gli opprimenti raggi UV del deserto il metallo mandava un riflesso accecante. Un cartello, con una scritta talmente sbiadita da essere ormai poco più che un ricordo, annunciava la Fairview Trailer Park Community, ma a parte l’unica “solitaria” casa mobile non c’era traccia di comunità, passate o presenti, seminomadi o di altro genere. Uno spiazzo pieno di rottami, con un furgone tutto arrugginito, senza paraurti, e un cavo di prolunga che correva molle fino a un lontano palo della luce. Tutto attorno, l’orizzonte piatto e bruciato dal sole.
“Ma ci pensate, vivere quaggiù?” mormorò il signor Mead. Il volto era madido di sudore, la voce flebile e roca. “Una casa mobile di metallo ai margini del deserto senza un filo d’ombra? Dev’essere come vivere in un forno.”
Edwin spense il motore e la macchina avanzò ancora qualche metro prima di fermarsi. Silenzio. All’interno della casa mobile non si mosse niente, nessuno sbirciò da dietro le veneziane, nessuna porta si aprì cigolando.
“Non vogliamo avvicinarci un po’?” chiese Mr Ethics, dando un’occhiata al tratto che separava la macchina dalla porta d’ingresso.
Edwin scese e, schermandosi gli occhi dal sole, scrutò la casa mobile. Ethics e Mead fecero altrettanto mentre in sottofondo, in sordina, partiva la colonna sonora del Buono, il brutto e il cattivo.
“L’avete visto Il mucchio selvaggio!” chiese Edwin. “Sam Peckinpah. Finisce con una banda di cowboy che camminano in mezzo alla strada per la resa dei conti finale. Be’, ci siamo. Questa è la nostra occasione di vivere una vera scena alla Peckinpah.”
“Ma non finivano tutti morti ammazzati?” chiese Mr Ethics.
“Aspettate!” esclamò il signor Mead. “Avete visto? Quella finestra laterale, laggiù. La tendina si è mossa. Un momento fa… ecco! Ancora, avete visto?” Abbassò la voce. “Qualcuno ci sta osservando.”
Il signor Mead raddrizzò le spalle e fece un passo in avanti tenendo alta sopra la testa, come un cartello segnaletico, una copia di Quello che ho imparato sulla montagna. Era la stessa copia intrisa di sudore che si portava dietro da quando avevano lasciato la città e la brandiva così come in Europa dell’Est brandiscono amuleti e teste d’aglio per scacciare i pericoli. O il male.
“Signor McGreary!” chiamò, il libro ben in vista, con una voce che rimbombò nel nulla. Nelle desolate distese desertiche fuori da Paradise Flats era come urlare nel vuoto; i suoni, senza niente che potesse rimandarli indietro, tendevano a smorzarsi nel silenzio. Era un paesaggio senza montagne, un paesaggio senza echi. “Signor McGreary! Possiamo parlarle un momento? Siamo suoi ammiratori. E il suo libro ci è piaciuto da impazzire!”
La replica arrivò immediata e inaspettata: uno sparo, un forte barn e il libro esplose nella mano del signor Mead, facendo volare in aria frammenti e brandelli di carta.
“ Gesù Cristo! ” Il signor Mead cadde in ginocchio e Mr Ethics si tuffò di testa sul sedile posteriore della macchina. Edwin si era abbassato istintivamente, ma rimase dov’era. Non fuggì e non si nascose.
“Quel pazzo bastardo ci vuole ammazzare!” gridò il signor Mead correndo a testa bassa verso il sedile del passeggero. Un conto era trovarsi davanti alla canna arrugginita di un fucile sovietico, un altro confrontarsi con un genio del male nello spiazzo davanti a casa sua. “Andiamo!” sbraitò il signor Mead. “Andiamo, andiamo, andiamo!”
Edwin si girò disgustato e abbassò lo sguardo sui due uomini rannicchiati nell’auto. “Signor Mead, se avesse voluto ucciderla, a quest’ora sarebbe morto. Ha mirato al libro.”
“Non me ne frega niente. Basta così. Salga e metta in moto, Cristo santo.”
“L’ho sempre saputo che lei era un vigliacco,” disse Edwin. (A quel punto il disgusto gli schiumava dalla bocca come uno sputo.)
“Noi ce ne andiamo,” disse il signor Mead. “In questo istante. Fine della discussione.”
“Ah sì? Un dettaglio, Einstein: le chiavi della macchina ce le ho io.” Edwin le fece tintinnare in aria. “E non si va proprio da nessuna parte. Dobbiamo fare questa cosa; bisogna finire quello; che abbiamo cominciato.” Poi, tornando a rivolgere la sua attenzione alla casa mobile con il suo luccicante rivestimento argenteo, Edwin fece un respiro profondo e si piantò a gambe larghe. Sebbene avesse la camicia incollata alla schiena e il sudore che gli grondava dai capelli, si costrinse a una posa di una calma glaciale. “Signor McGreary! ” gridò. “Mi chiamo Edwin de Valu. Sono il suo redattore alla Panderic. Ci siamo parlati per telefono, non si ricorda?”
Niente. Il silenzio era snervante e il caldo cominciava a dargli alla testa, quasi come un’allucinazione. Fece un passo in avanti… e uno sparo a pochi centimetri dai suoi piedi alzò uno schizzo di polvere.
“Chiavi di riserva!” berciò il signor Mead. “Sotto il tappetino, Bob. Svelto!”
Mr Ethics strisciò pancia a terra dal sedile posteriore al posto di guida, armeggiò sotto il cruscotto, accese il motore e ingranò la retromarcia. “Edwin,” strillò. “Andiamo a cercare rinforzi! Tenga duro, torniamo subito. ”
“Fermatevi!” gridò Edwin correndo inutilmente mentre Mr Ethics accelerava facendo retrocedere la macchina in una nuvola di polvere. “Tornate qui! ” gridò Edwin. “Tornate qui, bastardi senza fegato!”
Se n’erano andati. Ora Edwin era solo, senza un posto in cui nascondersi. Si girò, le mani in alto, aspettando lo sparo successivo. Che non arrivò. Da qualche parte all’interno della casa mobile si sentì invece provenire un rombo sordo. All’inizio era una risatina, poi diventò una risata vera e propria che alla fine si trasformò in una fragorosa sghignazzata. Sarà questa l’ultima cosa che sentirò nella vita? pensò Edwin. Una folle risata mefistofelica? Sarà questa l’ultima cosa che sentirò?
Ormai il sudore gli ruscellava giù per il corpo, inzuppandogli la cintola, solcandogli il volto e bruciandogli gli occhi come un velo di sale. Fece un passo avanti, poi un altro. Piano piano. Poi, ridotto l’angolo di tiro, si mise a correre a lunghe falcate, chino in avanti, zigzagando meglio che poteva, fino a raggiungere la porta della casa mobile.
“Non spari,” gridò. “Sto entrando e sono disarmato. Non spari! ”
Per la verità, non era proprio così. In realtà Edwin era armato. Aveva una piccola pistola, col colpo in canna e pronta a far fuoco, fissata col velcro all’interno del polpaccio destro. “Non voglio farle del male!” disse Edwin. Ma stava mentendo.
La zanzariera si aprì su un interno umido e buio, pervaso dall’odore pungente di sudore e di fumo stantio. “Jack?” fece Edwin entrando.
Si era aspettato di trovarsi faccia a faccia con un fucile spianato davanti a due occhi spiritati da demonio. Invece si ritrovò in una stanza piena di… libri. Scatoloni e scatoloni di libri. Ce n’erano impilati in ogni angolo. L’unico spazio visibile era un divano letto con le lenzuola aggrovigliate e i cuscini stinti e logori. Una poltrona a scacchi sfondata, con le cuciture lise, circondata di croste di pane e bicchierini di caffè che sembravano caduti a terra dopo un’esplosione. Scatoloni di libri. Libri e scatoloni. E in mezzo, immerso nella penombra, Jack McGreary.
L’arma, una specie di fucile da caccia, era appoggiata su un tavolo da cucina straboccante di pentole e padelle e disseminato di piatti sporchi e di altri libri. Jack era in piedi in canottiera, una bottiglia di Southern Comfort e un bicchiere scheggiato davanti. Una lama di luce da una finestra laterale gli illuminava la faccia. La faccia di un orso. La faccia di un pugile. Bocca larga, mandibolona, naso rotto, barba sfatta. Un paio di mezzi occhiali da lettura, che gli conferivano un’aria stranamente buffa, e dietro le lenti due occhi puntati su Edwin. I capelli bianchissimi e tagliati alla bell’e meglio, scarmigliati come se si fosse appena svegliato da una pennichella alla Van Winkle.9 Le mani che allungò per versarsi un goccio di whisky erano grosse. Sembravano mani da muratore: nocche grosse e spaccate, dita tozze e callose. Non erano le mani di un guru, e nemmeno quelle di uno scrittore.
Anni dopo, quando la memoria di quell’incontro si era da tempo sublimata nel mito, Edwin non avrebbe ricordato gli occhi (freddi come pietra grigia), né la stazza o l’enorme statura dell’uomo (almeno uno e novanta per oltre centotrenta chili). No. Avrebbe ricordato quelle mani, quelle mani grosse, smisurate. Erano le mani che si sarebbero fissate nella mente di Edwin.
La voce, quando parlò, era aspra e profonda, baritonale: in sé, una terza presenza. “Bene bene bene. Edwin de Valu. Redattore e asino patentato. Finalmente ce l’hai fatta a scovarmi.”
“Salve, Jack.”
“Un bicchierino?”
Edwin annuì. “Ne prenda uno anche lei.” Un bicchiere prima di morire.
Ma Jack non si mosse. Rimase lì a scrutare Edwin fra le palpebre socchiuse, come cercando di cancellarlo dalla faccia della terra con un mero atto di volontà. “Perché sei venuto?” chiese Jack.
“Sono qui perché so. So tutto. So di Harry Lopez. So di tutta! quanta la faccenda. Cacchio, ho perfino cercato di uccidere Harry. ”,1 La minaccia era implicita, ma Jack rimase impassibile.
“Ed è morto?”
“Purtroppo no, ” rispose Edwin, calcolando mentalmente la distanza tra la mano sul whisky di Jack e il grilletto del fucile e confrontandola con il tempo che gli ci sarebbe voluto per buttarsi a terra, estrarre la pistola, sparare rotolandosi teatralmente sul pavimento della casa mobile e magari, mentre cacciava un colpo dopo l’altro nel largo petto dell’uomo, proferire qualche arguta parola di addio. “Comunque,” disse Edwin. “Avrà sentito: Harry ha abbandonato tutta la storia del ‘maestro illuminato’ e ha rinunciato alla sua divinità. Tanto meglio, visto che per dirla tutta non era molto bravo nel suo ruolo. Insomma, non era certo il più grande attore che abbia mai calcato le scene. ”
“Su questo non c’è dubbio,” disse Jack con una risatina bassa e chioccia. “Di sicuro non era Barrymore, te lo dico io. Gli hai mai sentito fare l’accento scozzese?”
“No, ma voleva propormi (o meglio: infliggermi) la sua versione dell’irlandese. ”
“Stessa roba. Bravo ragazzo. Simpatico. Ma di certo non un’aquila.”
“Il suo libro, Jack. La settimana scorsa è arrivato a sessantacinque milioni di copie. Senza contare l’indotto, gli stralci e le cassette. Sessantacinque milioni, Jack. E rotti. Non avevamo mai visto niente di simile. Una cosa senza precedenti. Quando il libro ha cominciato a decollare, ho pensato tra me: Ehi, magari ci ritroviamo per le mani un’altra Profezia di Celestino. Invece siamo andati ben oltre.”
Jack rise, una risata ruvida come tela grezza, ruvida come tela grezza lacerata. “Ah, sì. La profezia di Celestino. L’idea che gli stupidi hanno di un libro intelligente.”
“Senta, Jack.” Edwin fece un altro passo in avanti. Gli sembrava di giocare una partita mortale di Un-due-tre-stella. Un-due-tre…
“Fermo lì, ” disse Jack portando la mano sinistra sul fucile. Contemporaneamente, con un gesto fluido, tolse di mezzo il Southern Comfort. “Ambidestro,” disse. “Certe volte può tornare utile.”
“Su, andiamo, Jack. Di me può fidarsi, sono il suo redattore. I rapporti autore-redattore devono basarsi sulla reciproca fiducia.”
“Tu sei quell’idiota figlio di puttana che voleva riconfezionare il mio libro col titolo di Cioccolatini per l’anima, o stronzate del genere.”
“Mmm, sì. Sarei io. Però ho riconosciuto l’errore, Jack. Ho visto lo sbaglio che stavo per compiere. E abbiamo pubblicato il dattiloscritto esattamente com’era. Non abbiamo cambiato una parola, una sola virgola, proprio come voleva lei. Ho rispettato i suoi voleri, Jack, e perché? Perché sono un uomo d’onore.”
“Cazzate. L’hai fatto perché dovevi, l’hai fatto perché, nella tua infinita stupidità, avevi cancellato le righe del contratto che avrebbero concesso all’editore qualsiasi cosa. Quando l’ho visto sono scoppiato a ridere. Si può essere più miopi di così? Si può essere più asini di così?”
Edwin fece una smorfia che avrebbe potuto benissimo passare per un sorriso. “Indubbiamente lei ha saputo prendermi per il verso giusto. Sissignore. Sono un asino, va bene. Però c’è una cosa che le devo chiedere…” (“…prima di ucciderla,” stava quasi per lasciarsi sfuggire.) “Come ha fatto? Dove l’ha presa la formula perfetta? Funziona tutto, Jack. Tutto. Gli esercizi per l’autostima. Il piano per la perdita di peso. Le tecniche per smettere di fumare. Persino il Li Bok. Come ha fatto, Jack? Devo saperlo.”
“Li Bok?” Il fumo della sigaretta gli andò di traverso e Jack tirò su una scatarrata dalla gola. “Be’, vedi,” disse ansimando. “Li Bok è l’abbreviazione di Lila Bauchenmier. Una baldracca che ho conosciuto quando facevo il militare in Louisiana. Dopo la guerra. Sapeva trucchi di tutti i generi, Lila, ma quello che c’è nel libro era la sua specialità. Una specie di autografo. I dodici sacchi meglio spesi della mia vita, ragazzo mio. Cribbio,.sarà stato, non so, cinquanta, sessant’anni fa, forse anche di più. L’ultima volta che ho avuto sue notizie, Lila si trovava in una casa di riposo in Florida. Si era sposata, sai, aveva figli e nipotini. Ha vissuto nei quartieri alti per anni. Di tanto in tanto mi manda ancora qualche cartolina, ma ormai comincia a non esserci più con la testa. Alzheimer. O forse solo la vecchiaia. Comunque, quando ho scritto il libro, ho pensato che fosse bene metterci dentro qualche ‘rivoluzionaria tecnica sessuale’, e i movimenti di Lila sono sempre stati il meglio. L’ho chiamata Li Bok solo perché era più esotica. Sai, tanto per dare un tocco di misticismo tantrico orientale. ”
“E la parte sul Li Bok per omosessuali?”
Jack si strinse nelle spalle. “A chiunque piace pensare di appartenere a una sottocultura o a un’altra, ma quando si tratta del corpo (e della mente) siamo fatti pressappoco tutti alla stessa maniera. I punti di contatto sono maggiori delle differenze, ragazzo mio. Non ho fatto altro che estrapolare. ”
Jack lasciò cadere il mozzicone di sigaretta in una padella nell’acquaio. Man mano che i suoi occhi si abituavano all’oscurità e ’’ alla penombra, Edwin vedeva emergere con maggiore chiarezza i lineamenti di Jack. Avvicinandosi pian piano, di nascosto, un passettino dopo l’altro, Edwin poté distinguere la ragnatela di capillari rotti che segnava il naso del vecchio, testimonianza di forti bevute e di una vita vissuta intensamente.
Jack McGreary girò lo sguardo intorno, sulle scatole e le cianfrusaglie della sua esistenza e disse, con un sospiro rauco: “Chi l’avrebbe detto che una casa mobile così piccola potesse contenere tante cianfrusaglie?”. Le pareti mostravano riquadri più chiari dove una volta c’era appeso qualcosa, ma ora era sparito tutto, stipato nelle scatole. Jack alzò una risma di fogli sciolti, che sembravano ritagli di riviste (in realtà si trattava di pagine di libri rari, sottratte con l’aiuto di un taglierino) e la lasciò cadere in una scatola di cartone. “Quarant’an-: ni e rotti,” disse. “Quando mi sono trasferito in questo parcheggio per roulotte, era pieno fino all’ultimo buco. Le case mobili erano allineate con precisione prussiana e brillavano sotto il sole pre-buco nell’ozono. Erano l’ultimo grido della modernità, come le cene davanti alla tv e le missioni spaziali dello Sputnik. Certo, Paradise Flats era già un’area depressa, sonnacchiosa (anzi, narcolettica), ma non avrei mai pensato che si sarebbe dissolta fino a questo punto. Ogni anno penso: Be’, questa cittadina non può diventare più piccola di così, e invece ogni anno diventa più piccola. È come veder rinsecchire un cadavere. ”
“È nato qui?”
Jack annuì. “Qui. Messo al mondo da una levatrice finlandese, sotto una mezza luna in una notte piena di stelle. Questo almeno è quello che ricordava mia madre. Per un paio d’anni ho vissuto a Silver City. Sono stato in marina e poi nella marina mercantile. Ho fatto qualche anno di università a Phoenix con la legge sui Gì, finché non fecero qualche controllo sul mio passato e mi sbatterono fuori a calci in culo. Dev’essere stato per qualche pasticcio che avevo combinato in Belgio.”
“Mercato nero?” disse Edwin.
“Lo sapevi già? ”
Edwin annuì.
“Sta di fatto che la mia carriera accademica si chiuse lì, questo è sicuro. Un peccato, perché studiare mi piaceva. Mi piacevano i libri- Mi piacevano le idee. Mi piaceva rigirarmele nella testa, vederle da più angolature possibile. Studiavo fisica, ragioneria, filosofia, qualsiasi cosa. Mi iscrivevo a tutti i maledetti corsi che mi sembravano interessanti.”
“E poi è finito qua,” disse Edwin. “In questo buco squallido. Perché? Cos’è successo? ”
“Non lasciarti ingannare da questo mio modesto ritiro. Ho fatto più cose nella mia vita di quante ne potresti fare tu in una decina. Sono stato a Bangkok e a Guayaquil. Sono stato picchiato e lasciato per morto giù in Australia. Mi sono ubriacato con re e pagliacci, imbroglioni e reginette di bellezza. Sono stato a tutte le latitudini e in quasi tutti i continenti. Sul corpo ho cicatrici che non ricordo nemmeno più come mi sono procurato. Ho dormito nei bassifondi e su calde spiagge tropicali. Ho viaggiato in autostop e preso a prestito mogli altrui, e ho fatto il giro del mondo più volte di Magellano. Ma Paradise Flats è sempre stata la mia casa, e sono sempre tornato qui.” Dette un’occhiata alla sua cella buia e soffocante e ripetè: “Sono sempre tornato qui. Un po’ come un detenuto in libertà vigilata”.
Nel frattempo, Edwin era riuscito a scivolare vicino al tavolo della cucina e perfino, con aria da niente, a spostare di lato la canna del fucile di Jack. Prendendo una sedia vicino al tavolo, portò con indifferenza una mano alla gamba, tirò indietro il velcro, appena appena. Tanto per controllare. Toccò il calcio della pistola, liscio e invitante.
“Non ha risposto alla mia domanda,” disse Edwin. “Come ha fatto? Dove l’ha trovata la formula perfetta per la felicità umana? Immagino non in cima a una montagna tibetana.”
Jack rise. “Ho detto questo? Tibet? Credevo di aver parlato di Nepal. Non che la cosa abbia importanza.”
Edwin si sporse in avanti e la sua voce prese un tono confidenziale. “Ero convinto che avesse creato un complesso programma di computer. O magari che lei fosse una specie di genio del male che aveva praticato un’ipnosi di massa, un Rasputin dell’autoaiuto. Com’è la faccenda?”
“Il tuo bicchierino,” disse Jack. “Me ne stavo dimenticando.”
Pescò dal lavandino un bicchiere un po’ meno sporco degli altri, ne ripulì il bordo con un angolo della canottiera e versò un goccetto a Edwin. Edwin non esitò. Prese il bicchiere, trangugiò il tutto e lo ingollò reprimendo un brivido ben poco virile. “Roba buona,” gracchiò cercando di darsi un tono risoluto.
“Il mio vecchio era un piccolo fittavolo,“ disse Jack. ”A St. Kilda, nelle Ebridi Esterne. Isole fantasma di granito, oltre il nulla. Nella storia di quelle isole ci sono soltanto cinque cognomi, e il: mio è uno di quelli. Dagli anni venti non è rimasto più nessuno a St. Kilda. Solo qualche casa di pietra, un cimitero e non so quante tombe anonime. Il mio vecchio venne nel Nuovo Mondo in cerca di qualcosa di meglio. Arrivò insieme ad altri, tutta una nave di McGreary, e li misero a lavorare nelle miniere di carbone di Cape Breton. Il mio vecchio scese giù a cercare lavoro sulla costa, seguendo la pista del carbone per tutti gli Appalachi, sgobbando in cambio di un tetto, e finì per approdare qui, a lavorare nelle miniere di sale… be’, un bel passo avanti. Dal nero carbone al bianco sale, il mio vecchio. Il mio povero vecchio. Il carbone ti sporca le unghie, ma il sale ti entra nella pelle. ‘Sudiamo sale,’ diceva sempre. ‘Non te ne dimenticare mai.’ Diceva che era ‘elementare’. Si innamorò di mia madre e si stabilirono qui. Lavoravano sodo e trascorsero così il resto delle loro piccole vite monotone. Sono sepolti tutti e due nel cimitero a est della città. Uno accanto all’altra. Una volta le loro tombe erano all’ombra, ma qualche anno fa una malattia degli olmi olandesi ha distrutto l’intero filare di alberi e ora le lapidi dei miei genitori sono sotto il sole a picco, senza nessun riparo. Peccato, visto che venivano ambedue da climi più freddi. Mia madre era scandinava, sai. Mi raccontava sempre della neve, di com’era, di che sapore aveva, di come si scioglieva in mano. Era bianca e pura. Elementare. ‘Come il sale?’ chiedevo io. E lei, brusca: ‘No. Non come il sale. Neanche un pò“.”
Jack prese un’altra sigaretta, ne strappò via il filtro e cercò un fiammifero. Stava per accendere il gas, quando Edwin si chinò in avanti facendo scattare il suo Zippo falso. Jack accettò senza un commento né un cenno di ringraziamento. L’interno della casa mobile di Jack era appestato dall’odore di fumo, depositatosi, come strati di lacca, in una patina puzzolente e oleosa.
“Paradise Flats,” disse Jack. “Spezzata e fallita. Il mio vecchio venne assunto allo scalo ferroviario, a furia di sgobbare riuscì a diventare magazziniere capo e si mise subito a costruire la casa dei suoi sogni. Magnifica. Una villa imponente con le persiane, una scalinata ricurva e una biblioteca in ogni stanza. Poi però il Grande Boom della Potassa si trasferì al Nord, tutta l’economia cambiò e la Berton Line chiuse i battenti proprio nel momento di maggior prosperità. La ferrovia si spostò a est, dietro le colline, verso la costa e il mio vecchio… perse tutto. Il lavoro. La casa. Tutto. Aveva fatto appena in tempo a gettare le fondamenta. Il suo sogno era ridotto a questo: un buco nel terreno pieno di erbacce e fiori selvatici. Quando mia madre morì, mi ci portò e mi fece vedere dove avrebbe dovuto esserci la scalinata, la veranda. Puntava il dito in aria e parlava di cose intangibili come se esistessero veramente, come se fossero veramente lì. Era un illuso, mio padre… E adesso arrivi tu a chiedermi da dove viene il libro. Viene da Paradise Flats. Viene da qui.” Jack posò le mani sul suo ampio ventre. “Viene dalle viscere. Tutti i libri che ho letto, tutto l’alcol che ho bevuto, tutte le battaglie che ho perduto, tutti i cazzotti che ho tirato. Ognuno di noi è una collezione di riferimenti incrociati, ragazzo mio. Tutte le donne che ho sedotto. Tutte le bugie che ho detto. Tutti i peccati. Tutti i trionfi. Tutte le piccole vittorie e i grandi fallimenti. Ci ribollono dentro e quando moriamo ce ne portiamo via una moltitudine. Questo è Walt Whitman, fra parentesi. ‘Ognuno di noi contiene moltitudini.’”
“Lo so,” disse Edwin quasi in un sussurro. “Whitman. ‘Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono grande, contengo moltitudini.’”
“Vuoi conoscere il mio segreto? Non c’è nessun segreto. Mi sono seduto al tavolino e ho scritto. Ho scritto tutta quella maledetta roba d’un fiato, senza mai fermarmi per cambiare qualcosa o per controllare quello che avevo scritto. Avevo capito che l’autoaiuto è un pozzo di soldi. Vuoi sapere perché ho scritto quel libro? Per denaro, denaro puro e semplice.”
“Ma allora perché non ha investito in buoni del Tesoro giocando sui fusi orari?”
“Funziona veramente?” chiese Jack.
“Milioni, Jack. La gente ci ha fatto i milioni.”
“Be’, che mi venga un colpo. Che diavolo, stavo facendo la fila in banca per riscuotere la pensione, quando mi sono messo a scartabellare un dépliant sulle normative bancarie del governo. Le scappatoie erano lampanti. Qualunque idiota avrebbe potuto vederle.”
“Ma… le ricerche che sono state necessarie per Quello che ho imparato sulla montagna. Certo, in buona parte è materiale riciclato da altri manuali di autoaiuto, ma non così il nucleo centrale, né il modo in cui è stato messo assieme. Quel libro richiede una grandissima esperienza, Jack. Anni di ricerche e di profonda conoscenza della psiche umana. Io credevo che fosse stato scritto sotto pseudonimo, un comitato o roba del genere.”
“Magari l’ha scritto Francis Bacon,” disse Jack. “O forse sono stati gli Ufo. O gli angeli. La Panderic pubblica un sacco di quelle cazzate; magari sono stati gli angeli a scrivere quel libro. Un comitato di angeli. Su un Ufo. Con una bacchetta da rabdomante ficcata super il culo.”
“Io non mi occupo di libri di Ufo,” ribattè Edwin puntigliosamente. “Io mi occupo di manuali di autoaiuto.”
“Stesse fregnacce. No. Non c’è nessun comitato, ragazzo mio. Soltanto io, da solo qui nella mia casa mobile. Quello che ho fatto è stato di andare su a Silver City a fare incetta di edizioni economiche. Ne ho comprato chili e ho passato le due settimane seguenti immerso in cose come potenziamento, chiusura, affermazione, valorizzazione e masturbazioni emotive. ‘Non è colpa vostra.’ ‘Imparare a volersi bene.’ ‘Siete speciali e unici, proprio come chiunque.’ M’è toccato digrignare i denti e roteare gli occhi tante di quelle volte che avresti giurato che ero epilettico. Sono alcuni tra i libri peggiori che abbia mai letto. È un miracolo che tutto il settore dell’autoaiuto non sia crollato nella parodia di se stesso, te lo dico io. Comunque, ho letto tutto quello che sono riuscito a digerire, poi mi sono messo a tavolino e ho buttato giù la mia versione. Quello che non sapevo, me lo inventavo. Mi ci sono voluti un paio di giorni. Una settimana al massimo. Come dicevo, non mi sono preso la briga di riscrivere niente. Sapevo che si sarebbe venduto; questo era il punto. Non ho fatto altro che dare alla gente quello che voleva sentire, quello che tutti si aspettavano di sentire, sotto forma di manuale in un volume unico. Mi è avanzata un sacco di carta. Ne ho comprato a palate su a Phoenix, duemila fogli a metà prezzo.”
Ci fu una pausa. Una pausa lunga, molto lunga.
“Tutto qua?” fece Edwin incredulo. “Si è seduto e l’ha battuto a macchina?”
“Esattamente. Non avevo né uno schema né niente. Ho continuato a battere sui tasti finché hanno cominciato a farmi male i polsi e mi è venuto mal di testa, e allora ho smesso.”
“E allora ha smesso…” Edwin faticava a elaborare la rivelazione. (Ammesso poi che le rivelazioni possano essere effettivamente “elaborate”.) Non era ciò che si aspettava. Invece di un Lex Luthor10 rintanato in qualche segreto covo di canaglie, Edwin si trovava davanti uno sconclusionato scrittore pieno di Southern Comfort, che sfornava un dattiloscritto “per soldi”.
“Meglio ancora,” aggiunse Jack con un inaspettato sorriso. “Non l’ho nemmeno mandato a nessun altro. Non l’ho sottoposto a più editori, è stato un colpo secco. Diavolo, non potevo permettermi di mandarlo a nessun altro. Con tutti quegli accidenti di libri che avevo comprato mi restavano sì e no i soldi per i francobolli.”
“E perché proprio a noi? Perché alla Panderic?”
“Perché voi pubblicavate già Mr Ethics e ho pensato che, se pubblicavate quella merda, potevate pubblicare di tutto. Ho pensato che il vostro livello era più basso di molti altri.”
“A dire il vero, Mr Ethics poco fa era lì fuori. Siamo venuti insieme quaggiù. Avrebbe dovuto darmi man forte.”
“Veramente?” fece Jack. “Mr Ethics? Quello che sventolava il mio libro?”
“No, l’altro. Quello che ha preso la macchina e se n’è andato, lasciandomi qui a morire.”
Il volto di Jack si illuminò. “Stai scherzando? Cristo, è meraviglioso. Accidenti. Ce l’avevo nel mirino, anche lui. Avrei potuto fargli saltare le cervella come niente, a titolo di servizio reso alla letteratura. La lingua inglese mi avrebbe ringraziato. Lo stile di quell’uomo è abominevole, per non parlare del contenuto. Nient’altro che una minestra riscaldata di un manuale sui principi basilari dell’etica, mescolata a psicologia spicciola e narcisismo all’acqua di rose. Etica? Ah. Quel tipo ha travisato completamente il termine. Aristotele si rivolta nella tomba. Perché sai, ragazzo, l’etica non serve a scegliere tra il bene e il male; serve a scegliere tra il grigio e il grigio. Serve a scegliere tra due linee d’azione ugualmente desiderabili, che però si escludono a vicenda. Libertà o sicurezza? Coraggio o comodità? Introspezione o gioiosa felicità? Colonna A o Colonna B? Mr Ethics dei miei coglioni. Avrei dovuto sparargli. ”
Jack fece un altro giro di Southern Comfort e insistette per un brindisi.
“Alla parola scritta!” disse Jack alzando il bicchiere. “Ai personaggi che esistono soltanto sulla carta stampata. Ai personaggi che esistono soltanto nei libri e non ne sono nemmeno consapevoli, che esistono soltanto sulla carta stampata eppure vivono, respirano e soffrono quando scompaiono.”
“A noi,” disse Edwin, disorientato e vagamente in difficoltà.
“A noi,” disse Jack. “Allora, Eddie. Voglio sapere: sono state le margherite, vero?”
“Le margherite?”
“A richiamare la tua attenzione sul dattiloscritto. Sono state loro a fartelo ripescare dalla pigna purulenta. Le margherite, giusto? ”
“Santo cielo, no. Non sono state le margherite. Le ho trovate tremende. Insopportabilmente leziose. In realtà, Jack, io l’avevo scartato, il suo dattilo. L’avevo buttato via senza nemmeno guardarlo. Soltanto dopo che…”
“Ma certo,” disse Jack, chiaramente senza credergli. “Sono state le margherite. Lo sapevo. I settanta centesimi meglio spesi della mia vita.”
“Ma… ma accidenti, Jack. Lei ha smontato la teoria economica keynesiana in otto pagine e mezzo. Non può averlo fatto con uno schioccar di dita. Fior di professori e uomini di governo mi hanno telefonato in preda al panico, dicendo che lei aveva minato tutto ciò in cui credevano. ”
“Ah, quello. Ma andiamo, la teoria di Keynes sull’intervento nei mercati non sta in piedi. È lampante per tutti. I mercati funzionano nonostante le idee di Keynes, non grazie a loro. Pensavo che fosse evidente.”
“Lei ha studiato teoria economica?”
“A che serve studiare teoria economica? Sarebbe come studiare i tarocchi. L’economia non è una scienza, ma vudu e pii desideri travestiti da pensiero sistematico. Il re è nudo, ragazzo. Non ha nemmeno un corpo. È un miraggio. Smontare la moderna teoria keynesiana presenta più o meno lo stesso grado di difficoltà che smontare una favola per bambini. Più o meno come osservare che ‘in genere, i maiali non vivono in case di paglia, di tronchi o di mattoni’. Non avevo nessuna intenzione di stendere un trattato di economia… insomma, in fondo si trattava di un manuale di autoaiuto… ma mentre stavo scrivendo ho visto un documentario in tv. Lo seguivo distrattamente intanto che battevo a macchina. Parlava di John Maynard Keynes. Che diavolo ne sapeva quel vecchio ubriacone? Mai sentite tante stupidate. Così ho buttato giù anche una sezione su Keynes, al volo, segnalando le sciocchezze e le contraddizioni delle sue teorie.”
“Ha smontato John Maynard Keynes dopo aver visto un documentario alla tv?” L’incredulità di Edwin si stava rapidamente trasformando in sbigottimento.
“Non proprio. A un certo punto il segnale era così disturbato che ho perso l’ultima parte. Qui non abbiamo la tv via cavo; mi tocca arrangiarmi con l’attaccapanni sopra l’apparecchio e la ricezione va e viene. Prendo soltanto un canale e qualche emittente locale qui di Silver City.”
“Ha smontato John Maynard Keynes dopo aver visto parte di un documentario televisivo?”
“Esattamente. Un altro goccio di Southern Comfort?”
Edwin annuì esterrefatto. “Sì,” disse. “Direi di sì. Direi che ho proprio bisogno di un altro bicchiere.” Trangugiò anche quello in un colpo solo, sentì un formicolio invadergli braccia e gambe in un presagio di sbronza e chiese, implorò: “Ma Jack, Le sette leggi del denaro, io l’ho studiato al college. L’ho letto e riletto prendendo appunti tornando sui punti salienti, confrontandoolo con altre teorie. Lei non può essersi limitato ”
“Le sette leggi del denaro? Ah sì. L’ho letto al cesso. Più che letto, gli ho dato una scorsa. Tutte quelle sciocche conclusioni mistiche non valgono niente, ma le premesse di base sono solide. Così ho inserito anche quello, l’ho buttato dentro come un’altra zolla di fango. Perché?”
“Penso, ” disse Edwin, ingoiando il whisky e asciugandosi la bocca con il dorso della mano, “penso…” ma a quel punto faceva fatica a connettere chiaramente. Anzi, a quel punto praticamente sudava Southern Comfort, il whisky gli usciva dai pori e i suoi cinque sensi ci sguazzavano dentro. “Penso di averne sentito abbastanza. Signor McGreary, lei è un impostore e un imbroglione. Non è molto migliore di Stalin. Il suo libro ha provocato danni indicibili a persone che amo… alla persona che amo. Lei ha tolto la tristezza dallo sguardo della mia migliore amica. E per questo, lei deve pagare!” Si afflosciò in avanti cercando alla cieca la pistola assicurata al polpaccio, ma il movimento improvviso gli fece girare la testa e cadde a faccia in giù contro lo spigolo del tavolo e poi per terra. Accidenti a quel pollice storto, non riusciva più a fare niente! Edwin stava annaspando inutilmente con la cinghietta (chi l’avrebbe mai detto che il velcro avesse una tenuta simile) quando sentì qualcosa di freddo e liscio sfiorargli la tempia. Era (naturalmente) la canna del fucile di Jack.
“Ti do un consiglio utile,” disse Jack. “Magari potresti prendere un appunto: quando si vuole tendere un agguato a qualcuno, prima si spara poi si beve. Invertendo l’ordine si hanno buone possibilità di mandare tutto a puttane.”
“Scommetto che a Starsky e Hutch non è mai successo,” disse Edwin sconsolato.
“Continua a fare il redattore,” disse Jack. “Le azioni eroiche lasciale a qualcun altro.”
Dopo averlo alleggerito della pistola e perquisito a scanso di ulteriori sorprese, Jack costrinse Edwin a rimettersi a sedere e a farsi un altro bicchiere. “Niente rancori,” disse Jack. “Ho perso il conto di tutti quelli che hanno tentato di ammazzarmi nel corso degli anni.”
Edwin, di pessimo umore e con i testicoli doverosamente rattrappiti dalla vergogna, non disse niente. Rimase lì a fissare il piano del tavolo in un silenzio immusonito.
“Perché sparare a un vecchio indifeso come me?” chiese Jack. “Settantotto anni, solo in una casa mobile in mezzo al nulla. A che pro tutta questa fatica?”
“Perché,” gracchiò Edwin. “Lei è un assassino. Quello che ha fatto, con quel libro, è un omicidio. Un omicidio di massa.”
“Davvero? E come mai?”
Edwin alzò gli occhi, puntandoli dritti in quelli di Jack, senza batter ciglio. “Che cosa siamo, Jack? Chi siamo? Non il nostro corpo. Né i nostri beni, i nostri soldi o il nostro status sociale. Siamo invece le nostre personalità. Le nostre fissazioni, le nostre manie, le nostre eccentricità, le nostre frustrazioni e le nostre fobie; tolto quello, che cosa rimane? Niente. Soltanto vuoti gusci umani, felici e senz’anima. Occhi vacui ed espressioni vuote, Jack. Ed è quello che vedo in giro ora. Paradise Flats ne è rimasta fuori, per il momento. Ma arriverà anche qui, può giurarci. E che succederà allora? Una volta andata anche Paradise Flats, dove troverà scampo dalla felicità®? Fra poco tutti diranno le stesse cose, sorrideranno allo stesso modo, penseranno le stesse cose. Le singole personalità stanno diventando sempre meno differenti. La gente sta scomparendo. E tutto questo per causa sua, Jack. Lei è un assassino. ”
Ci fu una lunga pausa glaciale prima della risposta di Jack. “Io non sono un assassino. Sono soltanto riuscito là dove Thomas More e Platone, sant’Agostino e Charles Fourier, Karl Marx e comesi-chiama, Huxley, si erano cimentati e avevano fallito. Io non ho creato un’utopia, non un mondo uscito dalla fantasia, inesistente per definizione, ma una eutopia. Dove eu, come in ‘euforia’, dal greco, significa ‘buono’. Eutopia: hic et nunc. E ti sfido a negare che grazie a quello che ho fatto io ora il mondo è un posto più bello.”
“Più bello ma non migliore. È questa la cosa buffa, Jack. Ora che ci siamo conosciuti, ora che la vedo per quello che lei è, in fondo ciò che conta non è se la uccido o meno. Lei ha i giorni contati. Lei, con le sue dita macchiate di nicotina, con la sua alitosi da bevitore di whisky e la sua abissale maleducazione. Lei è un anacronismo, Jack. Nel Nuovo Ordine Mondiale che sta sorgendo non c’è posto per lei. Nella nuova e brillante Religione universale della Felicità®, lei non è che un eretico. Lei non ha un posto, Jack. ”
“Bah. E questo sarebbe il meglio che sai fare? È questo l’insulto più grosso che riesci a scagliarmi addosso? Io sono già un anacronismo, ragazzo mio. Quanto a quello che sarà di tutti voi, non mi interessa. Non me ne frega un bel niente. Una volta che me ne sarò andato, niente conterà più. Se me ne vado, il mondo se ne va con me. Che importa se il futuro è grigio e amaro o tutto miele e di sole? Se muoio, tutto muore con me. Ciò che succede dopo non ha alcun peso.”
“Non mi propini queste stronzate solipsistiche! ” fece Jack’ debitamente impressionato. “Solipsismo. Ben detto. lu si che sai il fatto tuo.”
“Certamente! “ ruggì Edwin, alzandosi in piedi, le braccia spalancate, bono un redattore! So tutto! Ho la testa talmente zeppa di informazioni inutili che me ne libero solo la sera quando vado a dormire. I pensieri girano e girano senza sosta. Nemo saltat sobrius, Jack! Nemo saltat sobrius.”
“James Boswell,” disse Jack. “Gli uomini non ballano quando sono sobri.”
“Esattamente! H mondo sta perdendo i suoi danzatori ubriachi. Certo, abbiamo girotondi e canti tutti insieme attorno al fuoco, ma l’ebbra danza della vita è giunta al termine. Ed è tutta colpa sua.”
“No,” disse Jack, e per la prima volta la sua voce suonò alterata. “Non è colpa mia. Io ho dato alla gente ciò che voleva: non la libertà, con il suo pesante fardello di responsabilità, ma la sicurezza. Sicurezza di non dover pensare. Sicurezza da se stessi. Io so che cosa vuole la gente: non vuole essere libera, vuole essere felice. E le due cose spesso si escludono a vicenda. Guarda, voglio farti vedere una cosa. ” Tirò a sé uno scatolone riempito a metà, ci frugò dentro e ne pescò una foto incorniciata che era già stata riposta. Era la foto di un giovanotto (intorno al 1973) con due comici basettoni e una camicia di poliestere. Guardava fisso in macchina con malcelata ostilità.
“Questo è mio figlio,” disse Jack. “Allan, della mia prima moglie. Se n’è andata quando lui aveva dodici anni, portandoselo prima a Silver City e poi a Phoenix. È diventato maggiorenne tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta. Vuoi sapere perché ero tanto sicuro che il mio libro si sarebbe venduto? Per via di Allan. Allan è passato attraverso le droghe psichedeliche, la meditazione trascendentale e l’analisi transazionale. È saltato su tutte le mode della cultura pop, su tutti i carrozzoni più stupidi dell’autocompiacimento. E per che cosa? È finito a Cleveland, a lavorare per una compagnia che fa assicurazioni sulla vita, ad alimentare le paure della gente sulla morte e sul futuro, passando da uno psicoanalista all’altro. Allan non è un’anomalia, è un capo branco. Che diavolo, non si è perso nemmeno i ritorni di vite precedenti. A quanto pare lui era un re, pensa un po’ che sorpresa. Nessuno scopre mai di essere stato un contadino analfabeta morto di scabbia e sepolto in un lazzaretto. Nossignore. Siamo tutti speciali, se non in questa vita, in quella di qualcun altro. Il nostro Allan è stato contagiato da ogni moderno male noto all’uomo. Un terapista gli ha diagnosticato una Sindrome da Stanchezza Cronica e un altro un Disordine da Deficit di Attenzione nell’Adulto. Piuttosto contraddittorio, non trovi? È stato in ipnosi e ha scoperto che io avrei abusato di lui da bambino, il che è una stronzata. Allan avrebbe potuto farmi arrestare e mettere al fresco se poco dopo il suo terapista non fosse stato sbugiardato. I suoi falsi ricordi rimossi però sono ancora lì, e mi ha detto: ‘Magari non saranno veri, ma tu ne sei comunque responsabile’. Dopo di che mi ha scritto questa Dichiarazione di Indipendenza a suo uso e consumo (all’età di quarantacinque anni, bada bene) in cui mi spiegava che ero stato un padre inetto e come finalmente si fosse concesso di essere se stesso, bla bla bla bla. Gli ho risposto dicendogli di andare a farsi fottere e da allora non ne ho saputo più niente. ”
“Ma che cosa c’entra tutto questo con…”
“Lasciami finire,” disse Jack. “Vuoi sapere da dove nasce il libro? Nasce da Allan. Nasce da mio figlio. Alcuni anni fa sua moglie ha avuto un figlio, io sono andato a vedere il piccolo e Allan è uscito dalla stanza. ‘Non voglio dividere il mio spazio con te,’ mi ha detto. Poi però è rientrato e ha attaccato la solfa che mi ero disinteressato della sua crescita e che ero stato la causa del suo divorzio e che… insomma, che qualsiasi cosa, piccola o grande, gli fosse andata storta nella vita non era colpa sua. E come dicevo, Allan non è un’anomalia. E la regola. Così, quando ho deciso di scrivere un libro e fare un sacco di soldi, mi sono detto: Che genere di porcheria comprerebbe mio figlio? Qual è il messaggio autogratificante che potrebbe attirare uno come lui? Quale sarà la rete più grande? Qual è la cosa che mi frutterà di più? Il risultato è Tupak Soiree e Quello che ho imparato sulla montagna.”
Edwin aveva il voltastomaco. Difficile dire quanto fosse dovuto al Southern Comfort, quanto al caldo e quanto a ciò che aveva sentito. Forse erano le tre cose insieme, ma l’effetto complessivo era comunque opprimente. Gli bruciava l’ulcera e si sentiva tutto accaldato e appiccicaticcio.
“E così?” disse Edwin. “È così che finisce il mondo? Non con un’esplosione, ma con un caloroso abbraccio confuso?”
“Guarda in faccia la realtà, Edwin. I tempi dei casinisti sono finiti. L’Era della Piacevolezza è alle porte e non ci possiamo fare un bel niente. Non sono stato io a provocare tutto questo, io l’ho solo aiutato a venir fuori. Quello che ho imparato sulla montagna non è stato altro che il libro giusto al momento giusto. Non è un libro che precorre i tempi, ma il libro del suo tempo.”
“Zeitgeist,” disse Edwin. “Una parola tedesca; significa…”
“Lo so che cosa significa. E sono d’accordo. Io ho colto esattamente lo spirito del nostro tempo. Il nostro Zeitgeist. La nostra apocalisse post-Reed. Il nostro ritorno nell’Eden. La nostra bandiera bianca della resa finale.”
“Reed ” fece Edwin. “C’era un appunto scritto dietro una pagina. Qualcosa a proposito di Oliver Reed. La calligrafìa era confusa, come se fosse stato scritto da un ubriaco.”
“Probabilmente è così.”
Jack offrì un altro goccetto a Edwin, che però stavolta rifiutò.
“Allora una sigaretta?”
“Sto cercando di smettere.” Edwin si rigirò lo Zippo nella mano, alzò lo sguardo e disse: “Quella cosa proprio non l’ho capita. Oliver Reed, che c’entra in tutta questa storia?”.
“Niente,” disse Jack. “Qui sta il punto.”
Edwin continuò a fissarlo, perplesso.
“Un giorno,” riprese Jack, “quando i futuri antropologi ripercorreranno lo spirito del nostro tempo, quando ricostruiranno ciò che è andato male, a che punto abbiamo cominciato ad andare alla deriva, senza dubbio faranno risalire il crollo al 2 maggio 1999. Il giorno in cui è morto Oliver Reed.”
“Un attore di second’ordine. Perché?”
“Oh, Oliver Reed è stato ben più che un attore; è stato l’Ultimo dei Casinisti. E da allora è cominciata la discesa. A Ollie! ” Jack alzò il bicchiere, brindando non a Edwin, ma all’aria, al vuoto. Poi, girandosi verso Edwin, disse: “Tu sai quando è morto, ma sai anche come? Sai anche dove?”.
Edwin scosse la testa. Che differenza faceva?
“Oliver Reed è morto a Malta dopo aver surclassato la marina britannica in una bicchierata. Aveva buttato giù quasi cinque litri di birra e una dozzina abbondante di rum, e stava facendo a braccio di ferro con i marinai della fregata di Sua Maestà Cumberland della Royal Navy. Offriva un giro dopo l’altro ma nessuno riusciva a tenergli testa. I marinai si arrendevano e si allontanavano barcollando, sconfitti. E Oliver Reed morì vincitore. Morì sul pavimento di un bar di Malta e il suo ultimo addio, il suo dono prima di andarsene, fu il conto che lasciò da pagare ai marinai: oltre settecento dollari di beveraggi. Almeno da questo punto di vista, fu lui a ridere per ultimo.”
“E lei lo conosceva? Oliver Reed?”
“No, non esattamente. L’avevo incontrato una volta. A Manila. Si stava facendo sbattere fuori da un bordello da un paio di gorilla, e io lo salvai da un pestaggio. Vagammo per le strade fino all’alba, lui e io, cantando e ridendo. L’ho visto soltanto quella notte, e anche a me riuscì ad appiopparmi il conto, più di quaranta sacchi. Quella notte bevemmo a morte. Bevemmo fino alla dama in nero. Alla signora con la falce. ‘A morte,’ diceva Ollie. ‘Perché tutto resti interessante.’ Glielo chiesi quella notte. Gli chiesi se aveva paura di morire, e lui rispose: ‘Sì’. Proprio così: ‘Sì’. Anni dopo, ho letto una stronza biografia che gli attribuiva queste parole: ‘Non credo che moriremo, non foss’altro perché viviamo attraverso gli altri, nei loro ricordi e nella vita dei nostri figli e dei figli dei nostri figli’. Era uno che amava la famiglia, aveva avuto parecchie mogli, e figli che amava teneramente. Ma era troppo grande, capisci? Troppo grande per la vita e aveva paura di morire. ‘Comunque, sempre meglio bruciarsi che marcire,’ diceva. ‘Preferirei morire in una rissa da bar che in un reparto per malati di cancro terminale.’ Vedi, Ollie era uno che afferrava la vita. L’afferrava per la gola. La stringeva finché non sanguinava. Una donna, una scrittrice di nome Gilham, se non sbaglio, ha detto: ‘Oliver Reed ha due profondi occhi blu e un animo profondo e blu’. E io credo proprio che avesse ragione. Era un uomo troppo grande, troppo grande per questo mondo.”
Edwin non disse niente. A quel punto non era più tanto sicuro di sapere di chi stavano parlando, se di Oliver Reed o di Jack, e il ricordo di un attore di un’altra epoca morto da un pezzo riempiva la stanza completamente, impercettibilmente, come una nuvola di fumo.
“Oliver Reed è morto,” disse Jack. “E anch’io non mi sento molto bene. Quella notte a Manila, quella notte bevvi, pisciai e risi più di Oliver Reed, se potessi rivivere una notte della mia vita…” Il bicchiere di Jack era vuoto.
Edwin non aveva niente da dire. Niente da ribattere. Era uno spettatore dopo il passaggio della sfilata. Una sfilata, o forse un corteo funebre.
“Nostalgia,“ disse Jack. ”L’ultimo rifugio di coloro che furono. Quella notte a Manila, girovagammo finché ci fu qualcosa di aperto in città. Ollie era come un elefante scatenato, con la giacca piena di buchi e una strana luce folle negli occhi. Partiva per la tangente in tirate deliranti. Voleva fare a botte con la sua ombra. Si tirava in faccia il rum e chiedeva alle ragazze del barrio se volevano sposarlo. E quando lo trascinai via da un altro pasticcio in cui si stava cacciando, gli dissi: ‘Ollie, sei un maledetto attaccabrighe’. E lui: ‘No! Ti sbagli. Io non sono un attaccabrighe. Sono un casinista. E c’è una bella differenza. I piantagrane crescendo diventano preti, politici e riformatori sociali. Ficcano sempre il naso nella vita degli altri. I casinisti no. Fanno fuoco e fiamme, celebrano la vita e si dolgono della sua brevità. I casinisti distruggono soltanto se stessi, e lo fanno perché amano troppo la vita per poter dormire’.“ Ci fu un lungo silenzio intenso. Jack riempì un altro bicchiere fino all’orlo, ma non lo portò alle labbra. Amano troppo la vita per poter dormire.”
“Jack, stavamo parlando del libro.”
“Lo sai che aveva un gallo da combattimento tatuato sull’uccello? Be’, è così. Giuro. O che una volta si fece una scopata sul campo centrale di Wimbledon? A torneo finito, ovviamente. Lo sai che è stato il primo a dire ‘cazzo’ in un film? Lo sai?”
“Sì,” disse Edwin, con voce tutto a un tratto fioca. “Lo sapevo.”
“E lo sai che Oliver Reed aveva anche scoperto il segreto della vita?”
Edwin scosse la testa.
“È così,” disse Jack. “Davvero. Il segreto della vita, né più né meno. Vuoi che te lo dica?” Edwin non replicò, ma Jack continuò ugualmente, citando a memoria. “Il segreto della vita, di Oliver Reed: Non bere. Non fumare. Non mangiare carne. Morirai comunque. Be’, dico,” continuò Jack, “onestamente, credi che un pivello viso pallido allevato a latte come te avrebbe qualcosa da aggiungere? Più schietto e brutale di così non si può, ti pare?”
Edwin non aveva niente da aggiungere, e Jack lo sapeva. Una macchina si stava avvicinando, il rumore si faceva sempre più forte. Dentro la casa mobile il caldo era diventato insopportabile; Edwin pensò di essere sul punto di svenire o di perdere i sensi.
“I tuoi amici,” disse Jack guardando fuori dalla finestra. “Sono tornati.”
Edwin annuì. Si alzò, fece per dire qualcosa, poi cambiò idea. Non trovava le parole.
“Aspetta,” disse Jack. “Prima che te ne vada…”
Edwin si voltò. “Sì?”
“Ecco.” Jack fece scivolare la pistola di Edwin sul tavolo della cucina. “Prendi. È tua. Fai quello che vuoi, a me non interessa più. ” Poi girò la schiena a Edwin, con un gesto apparentemente deliberato, e si mise a riempire di fogli un altro scatolone.
Edwin si sentì in mano il peso dell’arma. Guardò l’ampio dorso invitante di Jack McGreary e pensò: “Sarebbe facile. Impossibile mancarlo. Passerebbero settimane prima che qualcuno potesse accorgersi della sua scomparsa. Rimarrebbe qui ad arrostire come una mummia, come un pezzo di manzo essiccato al sole, come un anacronismo”. Edwin alzò la pistola, la puntò nel centro esatto e sussurrò: “Bang bang. Sei morto”.
Edwin abbassò l’arma e si diresse verso la porta.
Jack non si girò nemmeno. Si limitò a mormorare a mezza voce: “Vigliacco”.