33.

Alla fine, dopo tutto Edwin era uno che amava le scommesse. Solo che non era molto astuto. La riprova sta nel modo in cui aveva legato ogni sua speranza a ciò che avrebbero detto quelli del marketing. In realtà, stava puntando la sua stessa vita sul buon senso del marketing, il che dimostra soltanto fino a che punto fosse disperato. (In termini di affidabilità, il marketing è appena un gradino più in su dello studio delle viscere dei polli.) A Edwin restava una settimana da vivere, a meno di non riuscire a convincere il signor Mead a ritirare il libro. Il che era impossibile. Era troppo tardi. La Panderic aveva già messo mano a una decina di titoli derivati e di progetti ricalcati sul libro. (Cosa strana, il signor Soiree sembrava nettamente, e agli occhi di Edwin sospettosamente, disinteressato a scrivere altri libri di suo pugno. “Oh, santo cielo, no. Che le parole radiose di altri cercatori della via riempiano la grande visione. Lasciamo che altri scrittori portino avanti la crociata. A me verrà sempre il 15 per cento delle vendite, giusto? E sul prezzo lordo di copertina, vero?”)

Quello che ho imparato sulla montagna aveva dato vita a un’intera industria autosufficiente. Era una specie di mostro mitologico, una bestia dalle mille teste che era impossibile uccidere. Se però Edwin fosse andato dal signor Serpent e dagli altri armato di grafici a effetto e di complicati diagrammi di vendita, se fosse riuscito a convincere che Quello che ho imparato sulla montagna aveva raggiunto il picco e anzi ormai era in discesa, forse ce l’avrebbe fatta a uscirne vivo e con buona parte dei suoi arti intatti. Edwin avrebbe dovuto vendere ai suoi aspiranti assassini questa visione dei fatti. “Il trend è già al ribasso, signori miei. La moda è passata. Sono tornati i bei tempi felici! ” Sarebbe stato il colpo della vita di Edwin. E tutto grazie a quello che gli avrebbero detto giù al marketing.

La cosa era cominciata con un commento buttato lì in mensa (“Questo libro di Tupak Soiree prima o poi toccherà il picco! ”) che ben presto era diventato un’ipotesi di lavoro (“Pare che a giorni il libro di Soiree toccherà il picco”), per poi consolidarsi in una presunta autorevolezza (“Le vendite di Quello che ho imparato sulla montagna hanno toccato il picco. Definitivamente”).

Serviva soltanto una relazione formale piena di grafici a torta e diagrammi su carta millimetrata che dimostrassero come le vendite fossero sul punto di crollare. Al marketing ci stavano lavorando in quello stesso momento e Edwin ci pensò su un attimo, si chiarì le idee e disse fra sé: “Posso cavarmela”. Stava già provando il discorsetto che avrebbe tenuto al signor Serpent e agli altri la prossima volta che lo avessero rapito: “Signori, vorrei richiamare la vostra attenzione sullo schermo lì in alto…” (mentalmente si annotò: “Ricordarsi di tenere uno schermo a portata di mano per la presentazione”).

Poi però le cose cominciarono a ingarbugliarsi.

Il problema si presentò, come spesso succede, con un pensierino molesto: un sobbalzo della mente, un dettaglio apparentemente piccolo piccolo, apparentemente innocuo che potrebbe anche passare inosservato ma che, una volta focalizzato, a un tratto si palesò in tutte le sue orribili ramificazioni. Per Edwin, tutto iniziò quando un giorno arrivò a casa sfinito (ancora una volta), dopo aver tirato un calcio al gatto (ancora una volta, visto che chissà come Mr Muggins aveva eluso interi plotoni di sicari di Cosa Nostra), ingurgitato una birra (ancora una volta) ed essersi trascinato in salotto dove (ancora una volta) venne accolto dal solito benvenuto della moglie, ossia: “Ti sembro grassa?”.

“No,” sospirò. “Staibenissimo.”

Poi, proprio mentre stava per arrancare verso la doccia, le terribili implicazioni di quella domanda lo colpirono con tutto il loro peso. Si girò: “Perché me lo chiedi? Perché diamine me lo chiedi?”. La voce era pervasa dal panico.

Jenni sbattè gli occhi. “Di cosa stai parlando, musetto mio?” Provò anche a inalberare il solito broncio col nasino arricciato da far sciogliere il cuore, ma stavolta non funzionò.

“Jenni, perché continui a chiedermi se mi sembri grassa? Hai letto il libro di Tupak Soiree. Hai letto il capitolo sull’autorealizzazione e su come accettare il proprio aspetto fisico come affermazione di sé. Su come vivere dentro, e non contro il proprio corpo. Hai letto che bisogna trovare il peso più salutare e nel quale ci si sente a proprio agio, non quello imposto dalla società.

Allora, Cristo santo, Jenni, perché mi fai questa domanda? Perché mai continui a preoccuparti di sembrare grassa? Rispondimi! “ A quel punto Edwin stava gridando. Conosceva benissimo la risposta, e si rendeva conto di quanto terribile e ampio fosse il suo impatto.

“Edwin,” gli disse lei, “calmati. A quella parte del libro non sono ancora arrivata. Mi riproponevo di farlo, ma non ci sono riuscita. Ho letto prima la parte sul Li Bok e quella su come organizzare la propria giornata. E poi ho provato quelle ricette a base di rape in umido, ma non sono arrivata alla parte sulle diete, sulla perdita di peso e via dicendo. Mi riproponevo di farlo, ma non ho proprio avuto tempo.”

“Tempo? Tempo? Lavori a casa, Cristo santo. Il tempo è tutto quello che hai. Ti pagano per non far niente. ”

“Domani volevo prendermi una giornata. Pensavo di finire il libro. Non capisco perché ti scaldi tanto. ”

Edwin barcollò in corridoio, sentendosi invadere da un sudore freddo. “Procrastinatori,” disse. “Non ho tenuto conto dei procrastinatori. Sono un uomo morto. Mi ammazzeranno, mi faranno a pezzi e mi daranno in pasto ai pesci, o qualsiasi cosa si usi adesso. È finita. È tutto finito. Sono un uomo morto. ”

Continuò a ripetere la frase, un po’ come un mantra, un po’ come un lamento: “Sono un uomo morto. Un uomo morto”.

“La smetti?” disse Jenni, affacciandosi nell’ingresso e guardando quello straccio di suo marito. “Mi rovini l’umore.”

“May,” disse lui. “Devo parlare con May.”

Edwin fuggì da casa come un uomo che fugge da un edificio in fiamme. Si fece sette isolati di corsa, fino al Devonian Hotel, dove trovò una fila di taxi in attesa. Edwin saltò sul primo, gridò l’indirizzo di May e aggiunse: “Faccia in fretta! ”.

“Eh.” Il tassista si girò, con un sorriso da santo. “I nostri desideri non possono accelerare o rallentare il corso del tempo, che esiste a prescindere, e tuttavia ci avvolge nel suo calore. ”

Edwin spalancò gli occhi, con uno sguardo da pazzo colmo di odio. “Sta leggendo Tupak Soiree.”

“Proprio così. ” Il tassista sollevò il libro, la copertina nauseantemente familiare, insulsa con quei suoi due colori e quello scipito carattere tutto maiuscole, irrorando Edwin di banalità. “Sono quasi a metà. Illuminante.”

“Senta un po’,” disse Edwin. “Se non vuole che le cacci quel libro in gola, la pianti di sputare citazioni e metta quel cazzo di piede su quel cazzo di pedale. ”

“Fuori dalla mia macchina.”

“Cosa? Non può farlo.”

“Fuori dalla mia macchina. Non c’è posto sulla mia macchina per chi insulta le parole di Tupak Soiree. E ora, fuori, fuori! ”

Alla fine Edwin trovò un tassista che non aveva letto il libro (“Mi riproponevo di farlo, ma non ho ancora trovato il tempo”), e arrivò alla porta dell’appartamento di May all’imbrunire. Suonò e risuonò, schiacciando il pulsante con molta più forza del necessario.

May si stava facendo un té e il bollitore cominciava a fischiare proprio mentre Edwin le piombava in casa, gesticolando e agitando le braccia in tutte le direzioni. “È peggio di quanto avessimo immaginato! Molto peggio.”

“Edwin, non puoi presentarti qui in questo modo,” disse May, coccolando il gatto fra le braccia, una boule dell’acqua calda coperta di pelo che faceva le fusa. “Poteva esserci qualcuno.”

“Però non e e.”

“Sì, ma poteva esserci.”

Ci fu una pausa imbarazzata. Lui aveva dato per scontato che fosse sola. E così era. Sola e casta.

“Edwin,” disse, “ho un sacco di lavoro arretrato.” Indicò un cruciverba non finito e una guida ai programmi tv aperta sul tavolo. “Quindi direi che te ne devi andare.”

“May, ascoltami. Siamo sull’orlo del baratro. Esattamente sull’orlo. E come essere su un ottovolante in cima a un precipizio mortale. Se non facciamo qualcosa, siamo in un mare di guai. Mi hai sentito? Un mare di guai!”

Ormai il bollitore stava ululando, sostanzialmente come Edwin. May mise una bustina di té nella tazza, la riempì di acqua bollente e sfrigolante e si girò con aria torva verso il suo indesiderato ospite. “Volevi anche tu una tazza di té? ”

“Come? Sì, certo. Se lo stavi già facendo.”

“Bene. C’è un bar qui all’angolo. Perché non vai a prendertelo lì e a parlare da solo come quel pazzo svitato che stai diventando, e non mi lasci fuori da tutto ciò?”

“Procrastinatori, May. Mi sono dimenticato dei procrastinatori. Non capisci? Tutta quella gente che ha comperato il libro o che l’ha ricevuto in regalo e non è ancora riuscita a leggerlo. Pensa ai milioni di persone che hanno quel libro sullo scaffale. È una bomba a orologeria, May! Una bomba a orologeria che fa tic-tac, pronta a esplodere da un momento all’altro. Gli sconvolgimenti che abbiamo visto finora, l’industria del tabacco, il crollo dei produttori di alcolici, tutto questo non è niente, May. È solo la prima ondata. Abbiamo quasi dieci milioni di copie in stampa e questa è soltanto la prima ondata. Il peggio deve ancora venire. ”

“Edwin, qual è la parte della parola ‘vaffanculo’ che non capisci?”

“May, intorno a noi tutto è sul punto di crollare. Tutto. Parlo della società, del paese, dell’economia. È la fine della vita. E perché? Per colpa di Tupak Soiree e della sua ricetta per la felicità umana creata da un computer. Tu dicevi: ‘E allora la gente diventa felice. Che male c’è in questo?’. May, tutta la nostra economia si basa sulle debolezze umane, sulle cattive abitudini e sulle insicurezze. La moda. I fast food. Le macchine sportive. I gadget tecnologici. I vibratori. Le cliniche dietetiche. Le boutique del capello per uomini. Gli annunci personali. Le sette religiose marginali. Le squadre sportive di professionisti: è tutta una vita per delega! I parrucchieri. Le crisi maschili della mezza età. La frenesia degli acquisti. Tutta la nostra esistenza si fonda sul dubbio e l’insoddisfazione. Pensa che cosa succederebbe se tutti fossero veramente, autenticamente felici. Autenticamente soddisfatti delle proprie vite. Sarebbe un cataclisma. Il paese andrebbe completamente in tilt, e una volta in tilt l’America, non credi che il resto del mondo occidentale la seguirebbe? Sto parlando di un effetto domino su scala globale. La fine della storia.”

“Quindi Fukuyama aveva ragione,” disse May. “E allora? Ho altro a cui pensare.”

“Per esempio?” sbottò Edwin. “Che cosa può esserci di più importante di questo? ”

“Be’, tanto per incominciare buttar fuori dal mio appartamento un ex amante impazzito. ”

Questa frase ebbe il potere di immobilizzare Edwin proprio mentre stava per lanciarsi in un’altra tirata. “Ex?” disse.

“Devo chiamare la polizia? Devo richiedere un mandato di cattura? Devo…”

A quel punto, lui la baciò forte sulla bocca, come nei film, quando la musica sale in sottofondo e le onde si frangono sulla spiaggia incorrotta di un mondo incorrotto. La baciò, a lungo e intensamente, e poi fece un passo indietro guardandola come Errol Flynn, con occhi tenebrosi.

“Fuori,” disse May. “All’istante! E se ci riprovi un’altra volta, ti faccio arrestare. ”

“Ma, ma…”

“Mi hai sentito!”

E tanto peggio per i film.

“Passiamo la nostra esistenza a costruire castelli di carte, poi passiamo il resto della nostra esistenza ad aspettare che qualcuno inciampi nel tavolo. Sperando che qualcuno inciampi nel tavolo. Ci mettiamo i vestiti adatti al tempo di ieri. Tratteniamo il fiato. Confondiamo i nostri ricordi con quello che siamo…”

May Weatherhill era seduta da sola sotto l’abat-jour e leggeva il libro sussurrando a fior di labbra, davanti a una stanza vuota.

“Una volta un poeta ha scritto: ‘Se non può esserci parità negli affetti, voglio essere io quello che ama di più’. Ma io vi dico che quel poeta era un pazzo. Quando si parla di questioni di cuore, non c’è né ‘più’ né ‘meno’. C’è soltanto bisogno, desiderio e angoscia. Perché scegliamo sempre la persona sbagliata? Perché scegliamo di scegliere il cuore sbagliato? È perché siamo tutti segretamente innamorati della nostra tristezza, segretamente innamorati dei nostri errori? Io vi offro la gioia. Non la passione, sfavillante e bruciante, ma la gioia. Gioia pura. La gioia dell’eterno.”

May si guardò nello specchio, si vide per la prima volta, la prima volta in assoluto, e sentì strati e strati di illusione lentamente staccarsi e allontanarsi da lei.

Qualcosa si spostò. Qualcosa appena sotto la superficie, come una vena sotto la pelle.