17.

Nei quattro giorni successivi Edwin de Valu lavorò più di quanto avesse fatto nei sei mesi precedenti. Sfrondò, potò e tagliò via. Come una bestia mitologica, quel manoscritto doveva essere sconfitto, o quanto meno soggiogato e Edwin non poteva permettersi di cedere nemmeno di un millimetro. Non ora. E quindi, dopo aver annaspato, lasciando dietro di sé la scia dei resti drasticamente mondati di una prosa cosparsa di sangue, finalmente, contro ogni probabilità, riuscì a portare Quello che ho imparato sulla montagna a poco più di trecento pagine. Quella che era stata una palude di parole ora era una lettura agevole e rapida. Scompose il testo in “suggerimenti utili”, “trucchi facili” e “piccoli promemoria”. Aggiunse qualche commento per figure e indicazioni per possibili inserti ornamentali: una rosa qui, un disegnino di un cuore di cioccolato là. Le pagine erano coperte di ghirigori editoriali e noticine a margine buttate giù alla svelta, ma Edwin aveva vinto la sua battaglia. La prima infornata di Cioccolatini era quasi pronta. Impacchettò il manoscritto revisionato, lo inviò con la spedizione notturna via FedEx a Tupak Soiree, presso il Paradise Flats Trailer Park, dopo di che emise uno stanco ma trionfante sospiro. Non aveva l’energia per gioire, e nemmeno per alzare le braccia sopra la testa, ma aveva voglia di festeggiare. Da una settimana non si faceva una notte di sonno filato e si sentiva prosciugato nel corpo (in tutti i sensi), ma che diamine. Dette un colpo di telefono a May.

Il brindisi veloce si trasformò in uno spuntino veloce e lo spuntino veloce si trasformò in una lunga chiacchierata fino a notte fonda. Edwin aveva la sensazione di essersi liberato di un grosso peso. Aveva la sensazione di poter volare via da un momento all’altro, come se avesse il torace pieno di elio. E May gli sorrideva, una calda distesa color malva dietro il bicchiere di vino. (Aveva cambiato tonalità di rossetto, optando per un approccio più morbido, ma la linea di cosmetici era sempre la Crayola.) Edwin l’Appendiabiti Umano e May Labbra Color Malva: una coppia improbabile, seduta nella semioscurità, a ordinare vino e birra e a ridere del niente. Be’, non proprio. Ridevano del signor Mead, che poi era più o meno la stessa cosa.

“Andiamo, Edwin, qualche merito bisogna riconoscerglielo, all’uomo. Insomma, le sue cicatrici se l’è guadagnate. Il signor Mead si è pagato i debiti; ha fatto la sua ascesa scegliendo la via più impervia. Cristo, quell’uomo ha lavorato sei anni per Tom Clancy. Sei anni! Un record che probabilmente nessuno batterà mai. L’unico che ci si è avvicinato è quell’altro tipo, quello che ha passato quattro anni e mezzo con Clancy. Ed è finito in manicomio a farfugliare cazzate tecnologiche zeppe di paroloni complicati. Il signor Mead ne è uscito vivo. ”

Edwin conosceva la storia, l’aveva sentita molte volte. La si sussurrava al passaggio del signor Mead, con ossequio e deferenza. “Quello è l’uomo che ha passato sei anni a lavorare per Tom Clancy. ” Nel mondo editoriale, il signor Mead suscitava quel genere di rispetto normalmente riservato ai veterani induriti del Vietnam. “Pensa, sei anni. Sei anni.”

“Ehi,” disse Edwin, “hai mai sentito parlare di una cosa chiamata Tecnica Li Bok?”

“Mmm?” May aveva la bocca piena di torta al cioccolato. Aveva deciso di prendersi una giornata di riposo dalla dieta (una dieta di sedano e acqua minerale naturale), ed era decisa a godersela fino in fondo.

“Li Bok,” ripetè Edwin. “È una tecnica amorosa. Inizia la donna, ma siccome c’entrano sia l’angolatura che, mmm, il ritmo, in genere l’uomo e la donna finiscono, hai capito, raggiungono l’orgasmo nello stesso momento. Se ne parla nel libro di Soiree. È straordinaria. Giuro che sostituirà il punto G.”

“No,” fece May simulando orrore. “Il punto G no.”

“È vero. Questa storia di Li Bok funziona. Funziona davvero.”

“Be’,” disse May asciutta, “immagino che per funzionare ci sia bisogno di un partner.”

“No no,” rispose Edwin un po’ troppo velocemente. “Cioè, non c’è bisogno di un partner. Lo possono fare anche i single. C’è tutta una sezione sull’autoerotismo. Sai,” abbassò la voce, “masturbazione.”

“E perché mai,” disse May con voce improvvisamente gelida, “la cosa dovrebbe interessarmi?”

“È solo che, be’…”

“Edwin, per quello che ne sai tu, ho una decina di folli amanti che mi scrivono poesie. Per quello che ne sai tu, ci sono uomini che la sera tardi passano sotto la mia finestra soffrendo le pene d’amore. Per quello che ne sai tu, ci sono donne che passano sotto la mia finestra la sera tardi. Per quello che ne sai tu, a casa mia si tiene un’orgia tutti i giorni della settimana.”

“Va bene, va bene,” disse Edwin. “Ti credo. Non c’è bisogno di scendere nei dettagli. E comunque immagino che tu, dirigente di alto rango, non ti masturbi mai e poi mai. ”

“Au contraire,” ribattè May con nonchalance. “L’ho fatto proprio l’altra sera. E per tutto il tempo ho pensato a te.”

Edwin rise. “Touché.” Non si rese conto tuttavia, non poteva rendersene conto, che May diceva la verità.

“E poi,” continuò May, “che mi dici dei matrimoni fra persone dello stesso sesso? Si direbbe che al tuo signor Soiree sia sfuggito qualcosa.”

“In realtà no. C’è una variazione del Li Bok per coppie gay. Certo, è un po’ più schematico. ”

May gli scoccò un altro sorriso color malva. “Allora bene,” disse. “Dovrai fare la prova, no? Assicurarti che funzioni anche per i gay.”

“Non c’è problema, ” fece Edwin. “Chiederò aiuto a Nigel. Perché no? Dopo tutto, sono anni che me lo mette nel culo. ”

May rise e Edwin ordinò ancora da bere.

“Oliver Reed,” disse Edwin. “L’attore. Che cosa sai di lui?”

“Superman?”

“No, non Reeve. Reed. Oliver. Un attore inglese, nato a Wimbledon, il 13 febbraio 1938. Ho trovato il suo nome nella lista delle biografie di celebrità della Panderic. Ti ricordi quel kolossal sui gladiatori? C’era Oliver Reed. È stato il suo ultimo film; è morto sul set. In Italia o giù di lì. Pare che non avesse ancora finito di girare tutte le scene, così hanno messo la sua faccia sul corpo di qualcun altro, con una tecnica digitale.”

“Abbastanza raccapricciante,” commentò May.

“Oliver Reed aveva cominciato a recitare in film dell’orrore di serie B. Casomai, era una specie di anti-Superman. Film assolutamente terribili, niente di nobile o di eroico. Ho qui l’elenco da qualche parte… Eccolo qua. Il suo primo ruolo da protagonista è stato in Implacabile condanna. Poi ha fatto Il mostro di Londra. Che altro? Gli spettri del Capitano Clegg, Revolver, Il pozzo e il pendolo. Ha avuto anche qualche parte da bravaccio: I pirati del fiume rosso, Gli arcieri di Sherwood, I tre moschettieri, I quattro moschettieri e così via. Ha fatto il cattivo nel musical Oliver! e il ballerino in La congrega dei gentiluomini. Ma in linea di massima era una specie di fustacchione prezzolato di second’ordine. Occhi azzurri. Genere bel tenebroso. Una serie di storie scandalose con primedonne, molte risse da bar, roba del genere. A un certo punto Reed era diventato uno scazzottatore niente male, e anche un noto ubriacone. Ha fatto oltre sessanta film, pa che mi venga un colpo se ricordo di averne mai visto uno. È strano. A quanto ne so, Oliver Reed non ha mai letto un solo manuale di autoaiuto. Diceva che l’unico rimpianto della sua vita era di non aver prosciugato tutti i pub e di non essere andato a letto con tutte le donne del pianeta.”

“Affascinante,” disse May.

Edwin annuì. “Non era esattamente un sentimentalone.”

“E allora?”

Edwin si strinse nelle spalle. “E allora niente. Solo che… insomma, solo che sul retro di una delle pagine del manoscritto c’è un appunto su Oliver Reed scarabocchiato da Tupak Soiree, apparentemente casuale, e non riesco assolutamente a immaginare il perché. Che c’entra Oliver Reed con tutto il resto? Che cosa ha a che fare con la ricerca dell’illuminazione spirituale o con il raggiungimento della calma interiore? ”

“Magari Soiree stava parlando al telefono,” disse May. “Sai, quando butti giù un appunto sul primo pezzo di carta che ti capita davanti. Probabilmente stava chiacchierando con qualche amico che guarda caso era un appassionato di cinema, l’amico ha accennato a Oliver Reed e Soiree ha scritto il nome, così, distrattamente. Non mi sembra il caso di cercare significati nascosti in una cosa che un autore ha scarabocchiato sul retro di un manoscritto. ”

“Hairagione,“ disse Edwin. ”Dev’essere andata così. Avrà buttato giù un appunto, insomma, che cosa possono avere in comune un lupo mannaro e Tupak Soiree? Giusto? Eppure…“ Si perse in qualche pensiero. Istintivamente, Edwin sapeva che doveva esserci dell’altro, sapeva che forse la morte di Oliver Reed era la chiave per comprendere il vero intento di Tupak Soiree. Ma qual era il nesso? E che senso aveva quell’aggiunta: ”…e anch’io non sto molto bene! Che cosa stava cercando di dire Tupak Soiree? E perché mai un pio guru che faceva mostra di rifuggire dall’alcol avrebbe dovuto scrivere un appunto del genere sotto la sua evidente influenza?

“Pronto?” disse May. “Qui torre di controllo.”

“Scusa,” disse Edwin, riscuotendosi. “Ero distratto.”

“Me ne sono accorta,” disse May. “Mi rendo conto di non essere la conversatrice più brillante del mondo, ma mi piacerebbe pensare che si possa trascorrere una serata insieme senza che tu sprofondi nel silenzio ogni cinque minuti.”

“Mmm?” fece Edwin. Era lì per distrarsi di nuovo.

May rise. “Stavo giusto osservando l’eccellente qualità della nostra comunicazione. I giapponesi la chiamano ah-un, la comunicazione senza parole tra vecchi amici e…” si bloccò. L’espressione si riferiva anche a due amanti.

Edwin stava per rispondere, quando qualcosa colpì la sua attenzione. Qualcosa all’esterno. Dalla finestra vide una squadra in servizio notturno che, lampeggianti accesi e sirene spiegate, stava sollevando un cartellone pubblicitario. Era enorme, e intanto che lo collocavano al suo posto davanti a un edificio abbandonato, Edwin vi lesse: “Presto un nuovo progetto della Fondazione Rory P. Wilhacker! ”. E immediatamente dimenticò Oliver Reed.

“Mi stavo chiedendo,” disse Edwin, parlando tra sé più che rivolgendosi a May. “Credi che le banche siano aperte a quest’ora di sera?”

“Wilhacker?” disse May. “Una volta non avevamo un…”

“Sì, un custode. Una volta faceva il custode. Credi,” disse girandosi verso May, “che la First National qui sulla Sullivan Street sia ancora aperta? ”

Lei guardò l’orologio. “Credo di sì. Mi sembra che siano aperti fino alle undici. Ma soltanto per versamenti e bonifici. ”

“Perfetto! ” esclamò Edwin trangugiando ciò che restava della sua birra. “Devo scappare. Ci vediamo. Ciao.” E corse via verso la porta, senza nemmeno infilarsi il cappotto, le mani già alzate per bloccare un taxi.

May lo guardò allontanarsi sconcertata, in un silenzio sbigottito. La serata si era conclusa in modo bizzarro e May non sapeva veramente cosa pensare. Si sentiva insultata. Per di più, sentiva che le stava calando addosso un deprimente senso di colpa per aver mangiato troppa torta al cioccolato.

“Be’,” disse, “così imparo a usare le mie arti femminili per irretire un uomo sposato. Ovviamente,” aggiunse scivolando verso la pura perfidia, “uso il termine ‘uomo’ in senso lato.”

E ancora una volta, May si chiese che cosa di preciso ci trovasse in un uomo lunatico, volubile, meschino, sarcastico e compulsivo come il nostro Edwin. E ancora una volta, non trovò la risposta. (Nessuno la trova mai. Non la vera risposta.)

“Un’altra torta al cioccolato!” ordinò chiamando il cameriere come un soldato ferito potrebbe chiamare un medico. “Un’altra torta al cioccolato! ”