38.
Edwin lasciò la porta d’ingresso aperta e un grosso sacco di cibo per gatti per Mr Muggins.
Era il giorno in cui Edwin de Valu avrebbe smesso di esistere. Era il giorno in cui sarebbe scomparso. Edwin si incamminò di buon passo per le strade assolate del primo mattino, arrivò alla banca e aspettò che aprisse. Aveva studiato il piano nei minimi dettagli e adesso era pronto a metterlo in atto. Come prima cosa, in un’astuta azione diversiva, avrebbe ripartito il suo milione e rotti di dollari in vari conti separati. Poi avrebbe preso all’istante un taxi per l’aeroporto e sarebbe saltato sul primo aereo per l’estero. Non importava dove. Meglio che fosse una decisione presa completamente a caso. Se avesse fatto una scelta ponderata, qualcuno in seguito avrebbe potuto ricostruire il suo ragionamento. No, tutto doveva essere affidato esclusivamente al caso. Sarebbe salito sul primo volo internazionale, che fosse diretto a Istanbul o a Singapore. Poi, appena arrivato, avrebbe ripetuto tutto quanto, prendendo il primo aereo per qualsiasi destinazione. Non importava dove, bastava che fosse lontano. Dietro di sé avrebbe lasciato una scia di nomi falsi e di piste fuorvianti e poi, appena fosse stato sicuro di avercela fatta, con i suoi soldi al seguito, avrebbe scelto la destinazione finale. Solo allora avrebbe contattato May. (Stava già pensando nei dettagli al messaggio críptico ma romantico da mandarle.)
Quando la banca aprì, dietro di lui si era già formata una piccola coda e Edwin, sentendosi generoso e avendo smaltito grazie a una buona dormita le sue malinconie chimiche della nottata precedente, si fece da parte e tenne la porta aperta per un’anziana signora. “Prego,” disse. “Dopo di lei.”
E con quel piccolo gesto di cortesia, Edwin perse tutto…
Edwin si allontanò vacillando dalla coda, con l’orecchio interno che sembrava un giroscopio. Pensò di essere lì lì per svenire, per mettersi a vomitare bile incontrollabilmente. Non aveva un piano di emergenza, nessuna via di fuga segreta. L’unica cosa di valore che aveva Edwin erano le sue carte di credito, e su tutte aveva splafonato pesantemente. E comunque, era impossibile trovare il modo di abbandonare il continente con una Diner’s e una Visa. (Le cose stavano peggio di quanto non immaginasse. Proprio quella mattina, la Visa Corporation, parlando di un “fondamentale cambiamento nelle abitudini di credito dei consumatori”, aveva dichiarato bancarotta.)
Edwin si lasciò andare su una poltroncina della banca, con la testa fra le ginocchia. “Puoi farcela,” si disse. “Puoi venirne fuori”. Ma non convinceva nessuno, men che meno se stesso. Magari poteva entrare in una cooperativa, cambiare il proprio nome in Raggio di Luna e passare il suo tempo a nascondersi, coltivando rape e lino. “Rifletti, ragazzo mio. Rifletti.” Poi, proprio mentre pensava che non poteva succedergli niente di peggio, Edwin alzò lo sguardo e al di là della vetrata, vide una berlina nera che gli era familiare ferma in attesa.
“Merda!” Girandosi dall’altra parte, Edwin sgattaiolò verso l’impiegata, interrompendo una transazione. “Mi scusi,” sussurrò, “ma questa banca non ha per caso un’uscita sul retro?”
Ovviamente non ce l’aveva. Non per i clienti. Allora Edwin fece qualche passo indietro e prese la rincorsa. Saltò dall’altra parte del bancone con un balzo facendo volare i fogli e rovesciando qualche sedia. L’anziana guardia giurata armeggiò goffamente con la fondina, ma senza successo. Edwin stava già schizzando verso l’uscita del personale. Spalancò la porta con un calcio acrobatico, più simile a Mr Bean che a Van Damme, e sbucò fuori nel parcheggio. Stava cercando una via di scampo quando dietro le spalle sentì una brusca sgommata di pneumatici sull’asfalto. La macchina arrivò dal fondo a tutta velocità e sterzò tagliandogli la strada. Edwin era praticamente bloccato contro il muro.
Un finestrino oscurato si abbassò lentamente. Vide la testa del sociopatico, il tipo lentigginoso con gli occhi di ghiaccio e i suoi sorrisi falsi.
“Ventiquattro ore! ” strillò Edwin al colmo del terrore. “Il Rettile ha detto ventiquattro ore! Ho tempo ancora fino a questa sera.”
“Vieni qui, Edwin.”
“Non ci penso nemmeno! Il Rettile ha detto ventiquattro ore! Non è giusto!”
“Edwin, ho qualcosa da darti.”
“Ma certo. Una pallottola nella nuca. No grazie, credo che passerò la mano. Ventiquattro ore! Ha detto così.”
Ma la mano continuava a fargli cenno di avvicinarsi, la voce a chiamarlo, pacata e insinuante. L’ultima volta che era successo, Edwin si era visto consegnare un manoscritto perduto. Che cosa lo aspettava questa volta? Fece un passo avanti esitante, come uno scolaretto che va a prendersi le sue bacchettate.
“Edwin, dammi la mano.”
No, un altro dito no. “Per favore, no. Per l’amor di Dio, sono un redattore, mi servono tutte le dita possibili. Non potrebbe slogarmi un dito del piede, o magari tirarmi i capelli anche foltissimo?”
Ma il tipo lentigginoso non voleva affatto spezzargli un altro ossicino. Sporse la mano e posò delicatamente qualcosa sul palmo di Edwin. Poi gli richiuse le dita e disse: “Arrivederci, Edwin. Mi sono divertito a tormentarti così, ma ora sto per intraprendere la ricerca della via. Addio, Edwin. Vita, amore e saggezza. Mi dispiace per il pollice”.
E si allontanò, lasciando Edwin da solo, il cuore che ancora gli martellava nel petto e le gambe tremebonde, lì, nel parcheggio di una banca, in una bella mattinata serena nel South Central Boulevard.
Edwin aprì la mano e abbassò lo sguardo. Dentro c’era una piccola margherita.