27.
Oprah invitó di nuovo Tupak la settimana dopo e così quella dopo ancora. In poco tempo diventò una specie di habitué e le sue apparizioni fecero impennare gli indici di ascolto. Su Internet si moltiplicarono fan club e chat line dedicate al “messaggio di Soiree”, mentre le vendite salivano alle stelle. La Panderic dovette appaltare la stampa a una mezza dozzina di tipografie diverse per star dietro alle richieste. Vi furono altre apparizioni televisive, altri mielosi raduni di fan, altre irradiazioni di magnificenza. Dopo un po’ Edwin smise di seguirle. Sempre la stessa solfa: Soiree ripeteva meccanicamente le sue solite insulsaggini pseudomistiche e il pubblico ci sguazzava. Soiree non faceva altro che citare passi a casaccio da Quello che ho imparato sulla montagna, roba che tutti avevano sentito e risentito migliaia di volte, eppure sembravano non averne mai abbastanza.
La Panderic Inc., intanto, ramazzò un altro po’ di quattrini vendendo i diritti dell’immagine di Tupak (con una robusta mazzetta al suddetto Tupak, manco a dirlo), che da quel momento tappezzò tazzine da caffè, T-shirt e poster da una parte all’altra del paese. “People” annunciava in copertina un suo profilo; “Time” lo seguì al volo e altrettanto fece “Newsweek”. Eppure tutti continuavano a definirlo “lo schivo signor Soiree”. La cosa cominciava a dare sui nervi a Edwin. “Schivo?” urlava rivolto alle copertine delle riviste e agli schermi televisivi che quotidianamente lo bombardavano con l’immagine di Tupak. “Schivo? Quell’uomo è una puttana mediática! ”
E poi, un giorno, accadde l’inimmaginabile. Un giorno, la pigna purulenta semplicemente… scomparve.
Aveva piovuto tutta la mattina e Edwin rientrò dal pranzo scontroso come un cane randagio, il giornale fradicio, la giacca zuppa, l’ombrello rovesciato. Battè i piedi per scrollarsi l’acqua e, con una nuvoletta nera sopra la testa, si avviò verso il santuario del suo cubicolo.
Ma a metà strada si bloccò.
“Irwin?” chiamò.
Il praticante Irwin aveva una scrivania dall’altra parte del corridoio e in genere non era visibile. Tutto ciò che si vedeva di Irwin era un ciuffo di capelli che spuntava da dietro una montagna di manoscritti. Anzi, era tanto di quel tempo che spalava via monnezza, che nessuno si ricordava più che faccia avesse. Quel giorno invece Irwin era completamente visibile. La pila di manoscritti non richiesti era sparita e il tavolo di Irwin era sgombro e pulito. I taccuini sistemati per dimensione, penne e graffette ordinatamente allineate.
“Dov’è la pigna purulenta di monnezza, Irwin? Non è passato il postino?”
“Sì. Ma oggi per noi non c’era niente.”
“Niente manoscritti? Niente proposte? Niente?”
“Niente.”
“No,” fece Edwin, sentendo un brivido che gli correva lungo la schiena già tutta brividi. “No. Non va bene. Non va affatto bene.”
“Per la verità, io la trovo una gradita pausa,” disse Irwin. “È tutta la settimana che rallenta. Ieri ne è arrivato solo qualcuno e oggi niente. ”
“Tu non capisci,” disse Edwin. “La pigna purulenta è la prima spia della società. Pensa, ragazzo! Gli aspiranti scrittori sono gli araldi di qualsiasi mania motivazionale esistente al mondo. Sono i capobranco, la cartina al tornasole, i canarini delle miniere di carbone. Gli autori della pigna purulenta sono la nostra avanguardia, Irwin. Abbiamo bisogno di loro. Abbiamo bisogno dei nostri sconosciuti. Abbiamo bisogno delle nostre masse di anime insoddisfatte che lottano per elevarsi sopra i limiti delle loro capacità. Abbiamo bisogno dei nostri romanzi immaginari e delle nostre trilogie. Abbiamo bisogno dei nostri capelli biondi corvini e delle nostre manone da orso. La società ha bisogno della sua pigna purulenta, non capisci? Sparita la pigna purulenta, sparisce anche tutto il resto. Non va bene. Non va affatto bene.”
Edwin non perse tempo ad asciugarsi. Grondante di pioggia, si precipitò nell’ufficio di May, trovò la porta aperta ed entrò senza bussare. “Tupak Soiree è un impostore! ” gridò.
May alzò gli occhi, con uno sguardo assolutamente privo di interesse. “Edwin, vattene. Sono occupata.”
“La pigna purulenta è scomparsa, May. Scomparsa! Non capisci?
È l’inizio della fine. Oggi la pigna purulenta, domani sarà la volta della vita.“ Il tono di voce sembrava, perfino a lui, quello di un pazzo.
“Edwin, esci dal mio ufficio. Non ho tempo per queste cose. ”
“Quel libro non l’hanno scritto le scimmie, May. L’ha scritto un computer. Tupak Soiree è un impostore. Non è uno scrittore, ma un programmatore di computer. Lui non ha fatto altro che schiacciare i tasti. Ci ha buttato dentro ogni stramaledetto manuale di autoaiuto mai scritto e ha lasciato che il resto lo facesse il computer. ”
Suo malgrado, questo riuscì a stuzzicare l’interesse di May. “Un computer? ”
“Senti, ero andato in una gastronomia sulla Lancaster a mangiare un boccone, quando ho sentito un’intervista al nostro stimato autore in un microfono aperto di metà mattinata. La solita sbrodolata, tipo ‘Lei che ha capito tutto’. Però, in un momento di disattenzione, Tupak ha fatto un passo falso. Un piccolo passo falso, ma rivelatore. Stavano parlando di come si possa trovare la bellezza in qualsiasi cosa, e devo dire che sono stato tentato di chiamare e chiedere: ‘E che mi dice della bruttezza? Si può trovare la bellezza anche nella bruttezza?’. Comunque, a un certo punto chiama un tale e dice: ‘Secondo me i numeri sono la cosa più bella che ci sia in natura’. In natura, pensa un po’. E Tupak risponde: ‘Oh, certo. I numeri possiedono un loro fascino intrinseco. Io so che per quanto mi riguarda trovo il codice binario una danza di bellezza cosmica. Quando programmavo in Unix, spesso provavo…’. E il conduttore dice: ‘Veramente credevo che lei fosse nato e cresciuto in un villaggio nel nord del Bangladesh, dove non c’erano né elettricità né acqua corrente’. E Tupak: ‘Sì, ma quando mi sono trasferito in America ho studiato programmazione di computer’. E il conduttore: ‘Ma in America non ci è arrivato l’anno scorso? Prima non aveva sempre vissuto su una montagna in Tibet?’. E allora Tupak dice (con il panico che gli sale nella voce, si capiva che cominciava ad annaspare): ‘È vero. Ero su una montagna. Sono stato in molti, molti posti. Perché la vita è un viaggio. Praticamente siamo tutti viaggiatori. Tutti soffrono. Tutti guariscono. Bisogna amare ogni essere vivente’. E giù luoghi comuni secondo copione. Nessuno si è accorto di quel passo falso, ma io sì.”
Ci fu una lunga pausa. “Non capisci, May? Non capisci cosa sto cercando di dirti? Tupak Soiree è uno smaneggione di computer. Ha sviluppato qualche grosso sistema. Un programma. Quello che gli ha consentito di creare il manuale dei manuali di autoaiuto. Non gli ci è voluto un milione di anni, gli è bastato un milione di byte. O come diavolo si dice. Non capisci? È per questo che non voleva che cambiassi una sola parola. Per questo era importante non modificare in nessun modo il contenuto. Era un programma, May. Quel libro è uscito da un programma. Non si tratta di un’illuminazione cosmica, ma di un programma di computer.”
“Edwin, il dattiloscritto era battuto a mano.”
“Esattamente! Quello è il colpo di genio. Probabilmente ha programmato un computer perché lo battesse a mano! E le margherite? Un tocco di romanticismo. Ma, visto sotto questa luce, perfetto. Voglio dire, chi andrebbe mai a pensare che un computer incolli delle margherite autoadesive sul frontespizio? È brillante! ”
“Edwin, ti pregherei di non venire più nel mio ufficio. Mi assorbi troppo tempo ed energie. Vieni qui a vaneggiare e a farneticare di inezie. E quel che è peggio, non mi porti neanche il caffè.”
“Come?”
“Hai sentito benissimo. Non mi porti più il caffè.”
“Adesso ti metti a citare Neil Diamond? Qui c’è in gioco ben più che un caffè, May. Tupak Soiree proclama di aver portato il paradiso in terra. Ma io non mi faccio fregare. ”
“E se invece ti sbagliassi, Edwin? ” May si alzò in piedi e lo fissò con uno sguardo duro e freddo. “E se Tupak avesse veramente portato il paradiso in terra? Che cosa diresti allora? E se stessimo vivendo tutti in un inferno? Questa città, questo palazzo, questo ufficio. Magari l’inferno è questo. Magari il sogno americano non è altro che l’inferno in terra, un’infinita, incessante, inutile ricerca. Magari siamo tutti intrappolati in un carosello infernale, Edwin. Ci hai mai pensato? Magari Tupak Soiree ci sta soltanto offrendo il modo di fermare la giostra e scendere. Ascoltami, Edwin. Tupak Soiree non è l’Anticristo. Né un demoniaco elaboratore di software. Né un malefico programmatore informatico. E neanche un santo. È soltanto l’ultimo grido del mese. E tra poco il suo messaggio comincerà a svaporare, esattamente come tutti gli altri prima di lui. È solo un libro, Edwin. E la felicità non si trova nei libri. Credimi, io lo so bene. Ora, magari mi sbaglio. Magari Tupak Soiree ha veramente realizzato l’impossibile. Magari ha ‘portato il paradiso’. Be’, non sarò certo io a piangere la scomparsa della tristezza.”
“Ah sì? E allora senti un po’ qua! ” Edwin si frugò nelle tasche. Spiegò una fotocopia tutta gualcita e lesse: ’“E una panacea per ogni pena umana. È il segreto della felicità su cui da tempo immemore i filosofi si sono arrabattati, finalmente svelato.’ Il segreto della felicità. Hai sentito, May? Il segreto della felicità”.
May era perplessa. “Dunque a qualcuno il libro è piaciuto. E allora? Che cosa può esserci di negativo? Che cosa c’è di male nel produrre una ‘panacea per ogni pena umana’ o ‘il segreto della felicità’?”
“Lo sai da dov’è presa quella citazione? Lo sai chi l’ha scritto? Un inglese di nome Thomas de Quincey. E non a proposito di Quello che ho imparato sulla montagna, ma a proposito dell’oppio. E tratta da un libro del 1821, Confessioni di un oppiomane. Alla fine l’autore ne ebbe la vita distrutta da quella ‘panacea celeste’, emotivamente, físicamente, intellettualmente. L’autoaiuto è l’oppio del nostro tempo, May. E noi ci siamo accaparrati il mercato. Questa non è una casa éditrice. Noi non trattiamo libri, noi trattiamo oppio.”
“Oh, Cristo santo, Edwin. Piantala di essere così maledettamente…”
“Una fumeria di oppio, May! Ecco che cosa sta rapidamente diventando questo nostro mondo. Una grande, immensa fumeria d’oppio. Una fumeria d’oppio della mente, che ti trasforma in un essere fiacco, letargico… e traboccante di gioia.”
“Ah sì?” disse May. La sua voce ora si era fatta tagliente. “O magari qualcosa di meglio? Qualcosa di più grande. Magari ciò a cui stiamo assistendo non è una moda passeggera. Magari è l’alba di una nuova unità collettiva. A Giava c’è una parola, tjotjog, ‘una convergenza unica e armoniosa di affari umani’. Descrive quei momenti, sempre così fugaci, in cui le persone si trovano in sintonia le une con le altre, in cui ogni cosa va al suo posto, in cui la società si muove all’unisono, invece che per contrasto. Armonia collettiva, in cui obiettivi e desideri divergenti diventano una cosa sola: tjotjog. Magari è questo ciò a cui stiamo assistendo. Magari è questo ciò che Tupak Soiree ha realizzato. Un allineamento dei nostri punti cardinali collettivi. L’armonia collettiva.”
“Oh, andiamo, May! È ridicolo.”
“Perché, la tua ‘immensa fumeria d’oppio della mente’ che cosa sarebbe, razionale?”
“May, ascoltami…”
“Per il momento direi proprio che ne ho avuto abbastanza. Ti prego di andartene.”
“May, ascolta…”
“Subito.”