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Tang ispezionò l’interno della casupola diroccata dov’era scomparso Ni Yong. Poco prima, tramite le telecamere a circuito chiuso, l’aveva visto entrare dalla porta, ma adesso non si vedeva più da nessuna parte.
«È uscito di là», disse Viktor puntando il dito verso il muro posteriore crollato.
Col ministro c’erano altri due uomini, anche loro fratelli del Ba, eunuchi come lui e come i due che aveva lasciato di guardia alla fossa 3, tutti tenuti da un giuramento a eseguire i suoi ordini. Un prodotto della sua lungimiranza, per la quale si congratulò silenziosamente con se stesso, specie data la piega che stavano prendendo le cose.
La pioggia era cessata, ma l’aria era sempre umida e fetida. Tang squadrò il muro, dove uno squarcio si apriva a rivelare il canniccio di bambù al di sotto dell’intonaco. Percorse il pavimento umido, superò gli arnesi arrugginiti e il vasellame rotto e uscì rapidamente.
Gli altri lo seguirono.
Fuori tutto era denso di ombre, il cielo cinerino oscurato da una volta di rami e foglie bagnate. Sotto gli alberi fiorivano le prime viole della stagione. La recinzione che racchiudeva l’intera area si ergeva cinquanta metri più in là, intatta. Ni avrebbe potuto scavalcarla, ma per andare dove?
Poi lo sguardo di Tang si posò sul pozzo, e lui si avvicinò.
Niente d’insolito; da quelle parti i pozzi erano ovunque. Anzi nel 1974 proprio lo scavo di un pozzo aveva condotto alla scoperta dell’esercito di terracotta. Ma lì c’era una piastra di ferro a chiudere l’imboccatura.
Dov’era andato Ni?
Osservò intorno a sé il terreno bagnato, fitto d’alberi, là dove il tumulo cominciava a salire.
Ni era venuto fin lì per un motivo preciso.
Tang sapeva che la recinzione era stata eretta nei primi anni ’90, su ordine di Pechino, e che da allora l’area era off-limits. Perché? Nessuno lo sapeva. A sentire Viktor, Pau Wen aveva detto a Malone e Cassiopea che conosceva una via d’accesso alla tomba di Qin Shi; dopodiché si era diretto senz’altro all’appena rinvenuta biblioteca imperiale e aveva mantenuto la promessa, localizzando due passaggi sotterranei, dentro uno dei quali era scomparso insieme coi due forestieri...
«Ministro», disse Viktor.
Tang tornò al presente.
Viktor indicò da vicino il pozzo. «Vedi le striature di lato? Sono fresche. La piastra è stata alzata e poi rimessa a posto.»
Giusta osservazione. Evidentemente, qualcuno aveva disturbato i licheni bianco-giallastri. Ordinò ai fratelli di sollevare la piastra, e subito vide l’estremità della scaletta di legno.
Erano arrivati fin lì con un’auto della sicurezza. «Guardate se in macchina ci sono delle torce.»
Uno degli uomini corse subito a controllare.
«Dove porta?» domandò Viktor.
Tang lo aveva capito. «Nella tomba. Dove ci aspetta Ni Yong.»
Malone si avvicinò alla soglia da cui proveniva la luce, fermandosi da un lato del portale socchiuso mentre Cassiopea si piazzava sull’altro. Avevano spento le torce e se le erano rimesse in tasca. In mano tenevano le armi.
Malone notò delle morse di bronzo a forma di L inchiodate dal loro verso del battente, e altre due a destra e a sinistra del montante. Contro il muro invece era appoggiato in verticale un grosso ceppo di legno... Facile comprenderne l’utilizzo. Una volta posato quello sulle morse, dall’altro lato non ci sarebbe stato modo di riaprire la porta.
Cos’era che gli aveva letto Pau? Alle concubine che erano senza figli fu ordinato di seguire l’imperatore nella morte, e tra gli artigiani e gli operai neppure a uno fu consentito di uscire vivo da sottoterra.
Malone sbirciò oltre l’ingresso, nello spazio illuminato.
La camera sotterranea era lunga circa cento metri. La volta arrotondata era alta dieci o dodici metri, sorretta per l’intera larghezza da archi e colonne piantate in tutta la sala. C’erano faretti su tutti e quattro i lati, a intervalli di cinque o sei metri, a gettare verso l’alto un bagliore giallo-arancio che illuminava un soffitto, in apparenza, tempestato di cristalli, perle e gemme sistemati come le costellazioni. Il pavimento invece era foggiato a mo’ di enorme carta topografica tridimensionale, con fiumi, laghi, oceani, montagne, valli, templi, palazzi e città.
«Porca puttana», mormorò Cassiopea.
Malone concordava. A quanto pareva, i resoconti di Sima Qian erano piuttosto precisi: Le costellazioni dei cieli erano state riprodotte in alto, e le regioni della terra in basso.
Poi Malone notò la scintillante sfumatura argentea che rappresentava l’acqua.
Mercurio.
Con l’argento vivo essi avevano creato i cento fiumi della nostra terra, il Fiume Giallo e lo Yangtze, e il vasto mare, e vi erano macchine che tenevano in movimento le acque.
Malone rabbrividì, ma poi rammentò quanto aveva detto Pau. Misure precauzionali. Sperava che il grandissimo stronzo avesse detto la verità almeno su quello.
Non si vedeva nessuno. Ma allora chi aveva acceso le luci? Pau Wen?
Azzardò un’altra occhiata e stabilì che si trovavano sul lato corto del rettangolo, proprio di fronte a quella che pareva l’entrata principale. Tutte e quattro le pareti erano in pietra levigata, con bassorilievi di teste di animali e altre immagini arcane che parevano schizzare fuori dalla superficie lucidissima. Malone distinse una tigre, un cavallo prono, un rospo, una rana, un pesce e un bue. Il colore era ovunque: archi e colonne smaltati di giallo, mura vermiglie, il soffitto di porpora scura.
Al centro del locale si ergeva un plinto elaborato, più largo alla base che in cima, che sembrava fatto di giada. Due luci servivano a illuminare gli squisiti ceselli sui lati, ma sopra non c’era niente. Spoglio, come il resto della camera. Le quattro mura erano adorne di piedistalli in pietra alti tre metri, posti a intervalli di circa sei metri. Malone capì che cosa avessero ospitato un tempo. Furono preparate torce con l’olio destinate ad ardere per lungo tempo.
Ma in giro non si vedeva neanche una lampada.
Dentro il mausoleo di Qin ci sono centinaia di lampade, piene di petrolio. Ne ho anche accesa una. Un’altra menzogna di Pau Wen.
Malone aveva letto abbastanza sulle tombe imperiali cinesi da sapere che erano tutte progettate come rappresentazioni simboliche del mondo di ciascun imperatore. Non monumenti, ma riproduzioni della vita tramite le quali il sovrano perpetuava in eterno la propria autorità. Vale a dire che quella sala avrebbe dovuto essere piena di roba.
Lanciò un’occhiata a Cassiopea; lo sguardo di lei confermò la loro mossa seguente.
Dall’andito buio, Malone entrò nello spazio illuminato. Il pavimento rappresentava le estreme frange sudoccidentali dell’impero di Qin Shi, con quelle che lui sapeva essere catene montuose scolpite nella giada. Un’area piatta a nord delineava un deserto, che si estendeva a est verso la capitale dell’impero. Molti metri più in là c’erano vaste pianure, altipiani, coltri d’alberi, monti e vallate. Palazzi, templi, paesini e città, tutti fatti di bronzo e gemme, spuntavano ovunque, collegati tramite quello che sembrava un sistema di strade.
Malone notò che la lastra di pietra, quella che una volta chiusa bloccava l’ingresso, si fondeva perfettamente nella parete ornata: un ingresso che si poteva vedere e aprire solo dall’esterno. Dai muri vicini sbucavano draghi acciambellati, visi umani e uccelli con creste e lunghe code.
Accennò con la pistola verso il centro, ed entrambi si mossero cauti, cercando di avanzare sulle porzioni più lisce di pavimento. Malone era ancora preoccupato per il mercurio e i suoi vapori, perciò si chinò verso uno dei fiumi e vide che nel canale scolpito, largo all’incirca trenta centimetri e profondo dieci, scorreva proprio il mercurio.
Sopra, però, c’era qualcos’altro. Una patina trasparente, oleosa. Sfiorò con la canna della pistola la superficie lucida, increspandola. Poi guardò l’estremità dell’arma e azzardò una fiutata, cogliendo una nota di petrolio greggio.
Allora capì. «Olio minerale. Pau ci ha ricoperto il mercurio, per trattenere i fumi», sussurrò. Una volta aveva fatto anche lui la stessa cosa col sifone di uno scarico nel seminterrato: aveva versato del petrolio sopra l’acqua per rallentare l’evaporazione e controllare le esalazioni fognarie. Si sentì meglio, all’idea che l’aria non fosse infestata di tossine, ma era ancora preoccupato: non solo di dove fosse andato a finire Pau Wen, ma anche di chi altri potesse aggirarsi là sotto.
Si diressero verso il plinto centrale, che sovrastava una cospicua piattaforma. Malone aveva visto giusto: l’intera struttura era scolpita nella giada, e rappresentava innumerevoli figure umane, animali e vegetali. Gli artigiani avevano sfruttato molto abilmente le diverse sfumature della pietra dura, e lui non poté trattenersi dallo sfiorare dolcemente la superficie traslucida.
«È incredibile. Non ho mai visto niente del genere», disse Cassiopea.
Malone sapeva che per i cinesi la giada era un dono degli dei, la chiave della vita perpetua. Simboleggiava l’eternità, e la si riteneva impregnata di magiche proprietà che proteggevano dal male e portavano fortuna. Per quello gli imperatori cinesi venivano sepolti in costumi funerari di giada, cuciti insieme con fili d’oro e adorni di perle.
«Qui giaceva l’imperatore», sussurrò Cassiopea.
Non c’era altra possibilità. Quella era l’espressione definitiva di una cultura che teneva il simbolismo in gran conto.
Ma il plinto era spoglio.
Poi Malone notò che la parte superiore non era liscia, e ospitava invece una serie d’immagini cesellate, incorniciate da una greca d’ideogrammi.
«È uguale alla mappa a casa di Pau Wen», disse Cassiopea.
Lui aveva pensato la stessa cosa.
Esaminò più da vicino le incisioni e si accorse che erano una replica più compatta del pavimento: l’impero di Qin Shi. Che cosa aveva detto Pau Wen, a proposito della carta geografica appesa a casa sua? È la riproduzione di una cosa che ho visto una volta, con qualche modifica.
Malone prese l’iPhone e scattò qualche fotografia alla stanza e alla mappa.
«L’imperatore giaceva in cima al suo regno», sussurrò poi.
«Sì, ma adesso dov’è?» domandò Cassiopea.
Ni era rimasto scioccato quando aveva acceso le luci, benché il premier gli avesse riferito dell’allacciamento sotterraneo della corrente elettrica e dell’installazione dei faretti. La prima incursione aveva il preciso scopo di accertare se anche la tomba poteva essere usata a scopi propagandistici, insieme coi guerrieri di terracotta. Ma il complesso era stato trovato vuoto: sparito qualsiasi manufatto, imperatore compreso. E per quello il governo aveva impedito ogni altra esplorazione archeologica. L’imbarazzo? Insostenibile. Le domande? Tutte senza risposta. Quindi era stato costruito il pozzo sopra l’ingresso di fortuna, l’area era stata recintata, l’accesso vietato.
Chissà se le lampadine funzionano ancora, si era chiesto il premier; per la gran parte sì, e immergevano le tre anticamere ad archi e la sala funeraria vera e propria in un bagliore di fosforo. Inoltre il vecchio aveva detto a Ni che il mercurio non rappresentava un pericolo, schermato com’era da uno strato di olio minerale applicato da Pau Wen durante la prima esplorazione.
Ni si chiese se Karl Tang avrebbe trovato la strada. Di certo aveva trovato il pozzo, e lo spostamento della piastra di ferro aveva lasciato un mucchio di tracce; un rumore di passi che si avvicinavano alle sue spalle, in fondo alla galleria da cui era appena sbucato lui, confermò che qualcuno era in arrivo.
Poi Ni Yong udì qualcos’altro.
Dei movimenti nella grande sala funeraria.
E vide ombre che danzavano su un muro.
Strano.
Puntò lo sguardo sulle anticamere che si aprivano l’una nell’altra e osservò quelle ombre lontane. Era pronto ad affrontare Karl Tang, pistola alla mano.
Ma era anche in trappola.
Fra il noto e l’ignoto.