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Anversa
Ni studiava Pau Wen, irritato con se stesso per aver sottovalutato quell’uomo ambiguo.
«Si guardi intorno: qui ci sono segni della grandezza cinese risalenti a seimila anni fa. La civiltà occidentale era appena cominciata e la Cina fondeva il ferro, combatteva con le balestre e tracciava carte geografiche», disse Pau.
La sua pazienza si era esaurita. «Qual è il succo di questo discorso?»
«Si rende conto che l’agricoltura in Cina era più avanzata nel IV secolo avanti Cristo di quanto non fosse in Europa nel XVIII secolo? I nostri antenati avevano compreso le coltivazioni a filari, la necessità di estirpare le erbacce, la seminatrice, l’aratro di ferro e l’uso efficace dei finimenti, secoli prima di ogni altra civiltà del pianeta. Eravamo talmente in anticipo che non ha neppure senso fare paragoni. Mi dica, ministro: cosa è successo? Perché non siamo più in quella posizione di superiorità?»
La risposta era ovvia – e Pau, naturalmente, se ne rendeva conto –, ma Ni non intendeva pronunciare parole sovversive e si domandava se nella stanza, o sul suo ospite, non ci fossero microspie.
«Qualche decennio fa, uno studioso inglese ha analizzato il fenomeno e ha concluso che oltre metà delle invenzioni e delle scoperte fondamentali su cui si basa il mondo moderno viene dalla Cina. Ma chi lo sapeva? I cinesi stessi lo ignorano. La storia dice che quando i missionari gesuiti, nel XVII secolo, hanno mostrato per la prima volta ai cinesi un orologio meccanico, questi rimasero estremamente impressionati, non sapendo che erano stati i loro stessi antenati a inventarlo, mille anni prima.»
«Tutto questo è irrilevante», chiarì Ni, recitando per il pubblico che poteva essere in ascolto.
Pau indicò una scrivania in legno di sequoia addossata a una parete. Intorno a un computer portatile erano disposti in bell’ordine gli strumenti per la calligrafia: inchiostro, pietra, pennelli e carta.
Vi si avvicinarono.
Pau toccò la tastiera e lo schermo si animò.
L’uomo era dritto in piedi. Sembrava sui trent’anni, tratti più mongoli che cinesi, capelli neri raccolti in una pettinatura morbida. Indossava una giacca bianca con le maniche ampie e una striscia verde chiaro sul colletto. Lo circondavano altri tre uomini, in pantaloni neri e lunghe tuniche grigie sotto giacche corte color indaco.
L’uomo si tolse la veste.
Era nudo, un corpo muscoloso e pallido. Due assistenti cominciarono a stringergli bende bianche intorno all’addome e alle cosce. Terminata la fasciatura, l’uomo rimase immobile mentre un terzo assistente gli puliva il pene e lo scroto.
Il lavaggio fu ripetuto tre volte.
L’uomo prese posto su una sedia in posizione semiadagiata, le gambe allargate e tenute ben ferme dai due assistenti. Il terzo partecipante andò a un tavolo laccato e prese da un vassoio un pugnale ricurvo con un manico d’osso incrinato.
Si avvicinò all’uomo sulla sedia e domandò con voce chiara e imperiosa: «Hou huei pu hou huei?»
Questi rimase fermo mentre rifletteva sulla domanda – Lo rimpiangerai o no? – poi scosse la testa: no, senza mostrare la minima traccia di paura o incertezza.
L’assistente annuì. Poi, con due rapidi fendenti, amputò lo scroto e il pene dell’uomo, tagliando vicino al corpo, senza lasciare sporgenze.
L’uomo non emise un suono.
I due assistenti gli tennero ferme le gambe tremanti.
Il sangue sgorgava, ma il terzo uomo agì sulla ferita, provocandogli un intenso dolore, ma ancora lui non emise suono. Il volto era contorto da una sofferenza lancinante, ma l’uomo pareva riprendere il controllo di sé.
Sulla ferita fu applicato qualcosa che pareva carta zuppa d’acqua, composta di diversi strati, finché non smise di sanguinare.
L’uomo fu aiutato ad alzarsi; tremava visibilmente, il volto metà eccitato, metà timoroso.
«Lo hanno fatto camminare per la stanza nelle due ore successive, prima di permettergli di sdraiarsi», spiegò Pau.
«Che... che cos’era?» domandò Ni, senza sforzarsi di nascondere lo choc che quel video gli aveva provocato.
«Una cerimonia che si è ripetuta nella nostra storia centinaia di migliaia di volte.» Pau esitò. «La creazione di un eunuco.»
Ni sapeva degli eunuchi e del complesso ruolo da loro giocato in Cina per duemilacinquecento anni. Gli imperatori erano considerati depositari di un mistico «mandato celeste», e tale concetto santificava ufficialmente il loro diritto a governare. Per preservare un’aura di sacralità, la vita privata della famiglia imperiale era protetta, in modo tale che nessuno potesse osservarne le manchevolezze umane. Soltanto gli eunuchi effeminati, la cui esistenza dipendeva dall’imperatore, erano giudicati abbastanza umili da potervi assistere. Il sistema funzionava talmente bene che si era radicato, ma un rapporto tanto frequente e intimo offriva agli eunuchi una facile occasione. Essendo sterili, non avrebbero dovuto ambire a un potere politico né aver bisogno di ricchezze, poiché non avrebbero potuto trasmetterli ai figli.
Ma si era dimostrato che così non era.
Gli imperatori avevano finito col divenire trastulli nelle mani di quei paria, che erano diventati più potenti di qualunque ministro. Molti imperatori non incontravano mai gli amministratori del governo; piuttosto, le decisioni viaggiavano dentro e fuori dal palazzo tramite gli eunuchi, senza che nessuno sapesse chi in realtà riceveva o emetteva i decreti. Soltanto i governanti più diligenti e coscienziosi evitavano la loro influenza, ma erano pochi e infrequenti. Infine, all’inizio del XX secolo, quando l’ultimo imperatore era stato cacciato dal palazzo imperiale, quel sistema era stato abolito.
«Gli eunuchi non esistono più», dichiarò Ni.
«Cosa glielo fa pensare?»
Ni dimenticò la paura di essere registrato. «Chi è lei?»
«Sono una persona che apprezza i nostri antenati. Uno che ha assistito alla distruzione indiscriminata di tutto quanto abbiamo ritenuto sacro per migliaia di anni. Sono un cinese.»
Il ministro sapeva che Pau era nato nella provincia settentrionale di Liaoning, e aveva studiato in Francia, quando ancora ai giovani cinesi era permesso frequentare l’università all’estero. Uomo di vaste letture, autore di sei trattati storici pubblicati, era riuscito a sopravvivere a tutte le purghe di Mao, e non doveva essere stato impresa semplice, pensava Ni. Alla fine, Pau aveva avuto il permesso di lasciare il Paese – caso più unico che raro – portando con sé molte ricchezze personali. Tuttavia... «Lei parla di tradimento della patria», chiarì.
«Dico la verità, ministro. E credo che pure lei sospetti la stessa cosa.»
Ni scrollò le spalle. «Allora si sbaglia.»
«Perché è ancora qui? Perché continua ad ascoltarmi?»
«Perché mi ha mostrato quel video?»
«Di fronte alla morte, colui che è pronto a morire sopravvivrà, mentre colui che è deciso a vivere morirà. Questo pensiero è stato espresso in un altro modo: Shang wu chou ti.»
Ni aveva già sentito quella frase.
Dopo essere salito, butta giù la scala.
«Secondo l’interpretazione più comune, si tratta di attirare il nemico in trappola e poi impedirgli la fuga», spiegò Pau. «Avversari diversi si attirano in modi diversi. L’avido si adesca con la promessa del guadagno. L’arrogante con un segno di debolezza. L’inflessibile con uno stratagemma. Lei quale di questi è, ministro?»
«Chi mi sta attirando?»
«Karl Tang.»
«In effetti, sembra che sia più lei a farlo. Non ha risposto alla mia domanda. Perché mi ha mostrato quel video?»
«Per dimostrarle che lei sa poco di quanto le succede intorno. La sua moralistica Commissione passa il tempo a indagare su funzionari corrotti e membri del Partito disonesti. Lei dà la caccia ai fantasmi mentre è insidiato da una minaccia reale. Perfino all’interno del suo sacrosanto mondo, che si vanta di essere la coscienza del Partito, lei è circondato. Gli eunuchi esistono ancora, ministro.»
«Lei come fa a sapere queste cose?»
«Perché io sono uno di loro.»