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DOPO essersi alzato con il buio (uno), essere andato in bagno (due), aver sciacquato la faccia (tre) e lavato i denti (quattro), si mette i pantaloni, le calze, le scarpe, la camicia, il giubbotto e il berretto (cinque, sei, sette, otto, nove, dieci). Di nascosto esce di casa (uno) ed entra nel garage (due), dove prende la bicicletta (tre) e la spinge fino al marciapiedi (quattro). Fra le ombre dell’ora che precede l’alba, comincia il giro del quartiere, con il registratore al sicuro nella setosa tasca tiepida e profonda del giubbotto di pelle.

Adora quel giubbotto, lo scricchiolio della pelle gli fa da incoraggiamento. Scandisce i suoi movimenti. Il buio lo innervosisce, ma il peso del giubbotto gli dà l’impressione di avere il braccio di qualcuno posato sulla spalla e mitiga il suo terrore mentre lui pedala sulla strada.

Poiché non ha mai ascoltato il coro mattutino e non è del tutto certo di che cosa sia, non sa bene come trovarlo. Ogni due o tre metri si ferma (uno), scende dalla bicicletta (due) e la posa a terra (tre). Drizza le orecchie (quattro), estrae il registratore dal suo nascondiglio (cinque) e lo solleva in direzione degli alberi (sei).

Vorrebbe che ce ne fossero di più, di alberi. E che ci fosse più luce. Vorrebbe che le ombre più immobili si muovessero, e che le ombre in movimento si fermassero.

Ieri, Troy Packard (piccolo buzzicone rabbioso; figlio di buona donna; bullo con gli occhi a pesce) ha ricevuto dal maestro Linkman un ottimo con lodi sperticate per aver scritto tre pagine di biografia sul suo barboso nonno settantenne, nonché per averle consegnate prima del tempo. Come minimo sarà stata la madre di Troy Packard a scrivere quelle pagine perfette, ma per certe cose il maestro Linkman è lento di comprendonio. Non importa. Non ora. Il giorno stabilito tutti consegneranno il proprio lavoro, ma nessun altro – di questo è sicurissimo –, nessun altro avrà trovato un potenziale primatista da Guinness.

Hanno registrato la decima parte lo scorso sabato, però questa parte – sulla musica! – è un’idea in più che ha avuto lui. Per tutta la settimana è andato a letto esercitandosi su come presentare alla signorina Vitkus la sua registrazione completa, della quale lui trascriverà per il maestro Linkman le tre pagine richieste basandosi sulle informazioni non segrete, con una calligrafia a regola d’arte e un’ortografia impeccabile e meritandosi facilmente un più che ottimo, a meno che non ci infili per sbaglio qualcosa che valga un distinto o un più che buono.

Il nastro di per sé è un segreto. Di solito i segreti non gli piacciono. Ma questo è bello, come segreto. La signorina Vitkus è il suo bel segreto.

Pedala ancora, si ferma di nuovo, solleva un’altra volta il registratore. Strani suoni ovattati arrivano trasportati dal vento: un’automobile in folle nella strada accanto (uno); un tramestio in un ginepro (due), forse prodotto da qualche calabrone; il ronzio del traffico, simile anch’esso a un calabrone (tre), proveniente da Washington Avenue, dove non gli è permesso andare in bicicletta.

Niente uccelli.

La qualità del buio sta cambiando, proprio lì davanti ai suoi occhi, sottili strati di oscurità che uno alla volta si dissolvono lasciando un buio meno spaventoso e, nel cielo a oriente, un’intensità miracolosa che non può ancora chiamarsi luce. Una promessa di luce, piuttosto.

Ed eccola. Un’unica nota.

Cerca il registratore e lo tende ancora verso l’alto. Un’altra nota, gli uccelli adesso sono due, uno che risponde al richiamo dell’altro.

Ciiip, dice il primo. Ciiip, fa il secondo. Il ragazzino resta a bocca aperta. Ciiip, sussurra. Uno, due.

Un pettirosso? Una ghiandaia azzurra? La sua lista di uccelli si è fermata a quindici – quindici uccelli invernali, perché i migratori sono ancora nascosti a Rhode Island, in Florida, in Costa Rica o altrove –, ma quindici sono già troppi: non riuscirà mai a memorizzare le voci di tutti. Gli accostamenti musicali gli sfuggono, nonostante il cd portatogli da sua madre, in cui un uomo dalla voce pacata nomina uno per uno gli uccelli che, a loro volta, lo omaggiano del proprio canto. Ha ascoltato quella straordinaria incisione dieci volte, immaginando un uomo in uno studio di registrazione con tutti gli uccelli dell’America settentrionale appollaiati l’uno di fianco all’altro su un filo per i panni, e suo padre in regia, intento a premere bottoni; eppure non riesce a identificare gli uccelli invisibili che stanno cantando proprio qui, adesso. La delusione gli lascia un sapore metallico in bocca.

Tiene il registratore in alto, il braccio comincia a fargli male. Gradualmente, da un trespolo nascosto nelle fronde ombrose di un albero tra due case, un terzo uccello si unisce ai primi due.

Poi un quarto.

Poi dieci, e altri dieci ancora, che si uniscono al coro di voci, nascosti sopra, in mezzo, intorno alle case, ai garage, alle automobili in sosta, ai pali del telefono mentre la luce incalza in quest’ora incredibile, e ogni singola nota perfora il manto di oscurità finché anche l’ultimo brandello non si sfalda e la luce irrompe ovunque.

Il suo respiro accelera e le fredde nuvolette di fiato svolazzano nell’aria che rischiara, proprio come tanti uccellini. Sessanta, settanta, novanta, gli uccelli sono troppi, ormai, impossibile contarli. Le loro voci si uniscono e prendono vigore, e lui con loro. Ecco il coro mattutino, ecco il coro mattutino, e una gioia travolgente si impadronisce del suo corpo.

Sente un crepitio fra gli alberi e si ricorda: un rumore simile a quello di un cancello arrugginito. E poi li vede sfrecciare da un unico albero, uno stormo vociante di gracchi che strappano all’alba il suo fulgore. Poi vede i pettirossi, sei, su rami distinti, esposti, intenti a cantare la loro parte, il colore che si irradia sul petto all’irradiarsi della luce.

Il ragazzino ride di quella sua risata a singulto, e anche la sensazione che avverte sul proprio, di petto, si irradia, una pressione crescente, misteriosa, come se il colore scaturisse anche in lui, come se fosse egli stesso un uccello capace di generare musica. Quella sensazione lo pervade finché non somiglia a qualcosa che ricorda il dolore, come se lui rischiasse di scoppiare di felicità.

Lo senti? gli aveva detto una volta suo padre parlando delle note fantasma di Eric Chapman. È come qualcosa che sale su dal mare, cavoli. Dovrebbe toglierti il fiato.

E qualcosa glielo sta togliendo, il fiato, il braccio si indebolisce, ma lui tiene il registratore in alto, deciso a restare in quella posizione fino all’ultimo giro sfrigolante del nastro. Eccolo, il gran finale, il coro mattutino: lo porterà a suo padre, che possiede un apparecchio magico, con luci e manopole. Dio non riesce ad abbassare di tono il canto degli uccelli, ma suo padre sì.

Proprio questo gli chiederà di fare, e suo padre borbotterà fra sé: Non riesci nemmeno a fare un semplice accordo di re, come fai a intenderti di cambi di tono?

Ho ascoltato, risponderà lui, e allora sì che suo padre si renderà conto della passione con cui aveva ascoltato tutto quanto, dell’attenzione con cui aveva osservato, dell’impegno che ci aveva messo. E lui gli racconterà che il coro mattutino è come qualcosa che scaturisce dal fiato che ti ha tolto.

Al che suo padre risponderà: D’accordo, amico, facciamo un po’ di musica, adesso.

Le dieci parti che compongono la storia della signorina Vitkus termineranno con il canto degli uccelli in un tono che lei riuscirà a sentire, una grossa sorpresa che il ragazzino le farà sabato prossimo, esattamente nove mesi e ventisei giorni prima del suo effettivo compleanno. La signorina Vitkus vorrà incontrare suo padre, che ha abbassato il tono di quel canto, e diventeranno tutti e tre amici.

Il ragazzino non può sapere che ciò che per lui è la straordinaria vita della sua amica, novanta minuti di registrazione, gli sfuggirà per un istante di mano scivolando a terra e finendo per essere schiacciata, senza che nessuno se ne accorga, dall’auto di pattuglia che giungerà per prima sulla scena. Il nastro si srotolerà, per poi attorcigliarsi e svolazzare catturando la luce che sorge. Con il tempo, i brandelli si infileranno sottoterra, tutti tranne un unico lembo lucente raccolto sul finire del giorno da una cornacchia di passaggio, che trasporterà quella voce verso un nido posto molto al di sopra del luogo in cui il ragazzino, pieno di gratitudine nei confronti del padre, attende con il suo ronzante marchingegno, certo che la sua amica sentirà ancora una volta il risveglio del mondo intero.