14
QUANDO a Quinn venne in mente di chiedere a Ona l’indirizzo del figlio, erano le quattro del pomeriggio e Belle stava sorpassando il cartello BENVENUTI A GRANYARD. Il cielo gravava su una sconcertante distesa di palazzi in stile paesino di campagna, tutt’altra cosa rispetto alle meraviglie verde mela che si aspettava.
«Ehi», esclamò alla vista di una colonna di granito. «Una volta ci ho suonato, qui.» Aveva dimenticato il nome del posto ma ora ce l’aveva di fronte: l’Hobson Christian College, un quintetto di edifici senz’anima distribuiti su otto ettari di terra dissacrata. Un problema tecnico durante il sound check aveva provocato nei ragazzi una crisi di scetticismo che Quinn aveva risolto dicendo: «Tranquilli, è solo un fusibile, non c’è bisogno di mettersi a pregare».
«Adesso dove vado, Ona?» chiese Belle, rallentando. Ormai si davano del tu, unite dalla solidarietà femminile nata in seguito a una conversazione di venti minuti sui gatti. La capacità delle donne di cementare alleanze partendo dal nulla non cessava mai di sorprenderlo.
«Come dici?» domandò Ona, circondando con la mano il padiglione auricolare. Avevano abbassato tutti i finestrini, a parere di Quinn con il solo risultato di diffondere ulteriormente il calore. Ma ormai non lo ascoltava più nessuno.
«L’indirizzo», chiarì lui. «Ce l’hai… giusto?» Lui e Belle avevano sempre viaggiato così, quando ancora viaggiavano insieme: senza cartina, avanzando a rotta di collo guidati dall’istinto e dal capriccio. Con Ona a bordo, così pericolosamente fragile, quel modus operandi perdeva un po’ della sua verve giovanile.
«Certo che ce l’ho. Mi prendi per un’oca senza cervello?» ribatté lei, e affondò la mano nell’antro cupo della sua grossa borsa nera. Gli oggetti che riesumava – caramelle, fazzolettini appallottolati, scontrini – erano consumati dal tempo. «Eppure lo so che è qui dentro», si agitò. «C’entrano i cavalli.» E scandagliò di nuovo quelle profondità tenebrose, tremando per lo sforzo, i capelli acconciati che ora le spuntavano dalla testa come piume su un pollo spennato a metà.
Alzò lo sguardo. Non fosse stato per i lucidi occhi penetranti e il velo di rossetto, si sarebbe confusa con il bianco solare del parabrezza. «L’avevo messo in questa borsa», concluse. Poi fulminò Quinn con lo sguardo. «L’hai preso tu?»
«Perché avrei dovuto prenderlo io?»
Ona sbuffò con quelle sue labbra rinsecchite. «Forse per controllare l’indirizzo?»
«No.»
«Hai la memoria di un’efemera, Quinn.»
«Me lo ricorderei se avessi frugato nella borsa di una signora.»
«C’è sempre l’elenco telefonico», intervenne Belle. «Non preoccuparti, Ona, lo troveremo.» Con quell’afa era tutta sudata, notò Quinn; e lui si sentì una guida turistica che conduce il proprio gruppo in una strana piazza cittadina solo per scoprirvi che è in corso un’impiccagione.
«Devo averlo messo nella valigia», ribatté Ona, sempre più agitata.
«Adesso controlliamo», disse Belle. «Controlliamo subito.» Entrò in un distributore e aprì la portiera a una folata di aria pesante e irrespirabile.
«Aspetta un po’», fece Ona, estraendo una busta spiegazzata dai meandri della borsa. «Eccolo qui.» Invecchiava a vista d’occhio. Come diavolo gli era venuto in mente di far viaggiare così a lungo una donna di quell’età in un’auto senza aria condizionata? Era dall’ora di pranzo, ovvero da due ore e mezzo, che non si muoveva. Non era pericoloso per una persona anziana?
Quinn esaminò la busta. «Questa a quando risale?»
«Che differenza fa?»
«Hai telefonato, per avvisare, giusto?»
«Non me la sono sentita di chiamare. No, non ho telefonato per avvisare.»
«Bridle Path Lane, millequattrocentoventi», lesse Belle. Aveva un’aria placida, materna. «Scommetto che non siamo lontani. Ho un presentimento.»
Quinn si sentiva al tempo stesso la vittima e il truffatore. Ona lo aveva raggirato per convincerlo ad accompagnarla, ma non prima che lui l’avesse indotta a crederlo entusiasta all’idea di farle un favore. E, quand’era arrivato il momento, l’entusiasmo gli era venuto sul serio. Una cosa non da poco, tutto sommato. Si aggrappò a questo, nella speranza di sopravvivere ai successivi venti minuti, quando forse avrebbero scoperto che la casa del figlio di Ona era crollata durante una tempesta, aveva cambiato proprietario o era diventata un magazzino di bricolage.
«Chiedi indicazioni alla ragazza», gli ordinò Ona.
Malgrado i suoi timori, Quinn obbedì e attraversò il piazzale rovente per interrogare l’addetta alle pompe di carburante, una ragazzina dai capelli rossi con le gote rosa come due albicocche. Gli ricordava Belle da giovane, la stessa espressione avida. Negli anni l’ex moglie l’aveva perduta, quell’espressione, e il suo viso, più che trasmettere un segno di appagamento, era il riflesso di una brama ormai sopita; ma dalla morte del ragazzino lo sguardo le era tornato smanioso, in un modo che non lo eccitava, che mai avrebbe potuto eccitarlo come un tempo. Avido non era più il termine giusto: famelico, piuttosto. Comprò tre barrette di cioccolato e tornò di corsa alla macchina come se rifuggisse da un errore.
«È più avanti», annunciò. «Cinque o sei chilometri.» E distribuì le barrette mezze sciolte.
«Mi ero immaginata uno di quei posti in cui il fiume scorre tra pendii verdeggianti», disse Ona mentre Belle si reimmetteva nel traffico. «Maud-Lucy mi inviava delle descrizioni magnifiche. Abitavano in periferia. Forse là il paesaggio è più bello.»
Bridle Path Lane era un viale che si apriva sulla destra, una lunga salita asfaltata fiancheggiata da case leziose, che terminava in un complesso di bassi edifici di mattoni; quattro ali congiunte a un atrio luminoso, lucente come il ventre di una farfalla. Sul davanti campeggiava una pretenziosa insegna di legno: CONDOMINIO «IL FRUTTETO». Sotto, in una sorta di scaletta di pannelli come quelli su cui si espongono i gusti del gelato, ondeggiavano le diciture: RESIDENZA INDIPENDENTE; RESIDENZA SEMI-INDIPENDENTE; RESIDENZA ASSISTITA; ASSISTENZA PROLUNGATA; ASSISTENZA PER ANZIANI AFFETTI DA DEMENZA. E sotto ancora, l’inconfutabile scritta: BRIDLE PATH LANE 1420.
«È una casa di riposo», disse Belle. E prese la busta dal cruscotto.
Ona aggrottò la fronte. «Lui aveva parlato di un condominio.»
«Non sarà l’indirizzo giusto.» Belle fissò a bocca aperta l’insegna multipiano. «Quanti anni ha tuo figlio?»
Ona scese a fatica dall’auto, dando l’impressione di rimpicciolirsi in tutto quel candore abbagliante, con gli abiti che alla luce si scolorivano mentre aggirava un vaso rotondo che esplodeva di petunie.
«Aspetta un attimo, Ona», gridò Quinn, ma lei non gli badò. L’entrata era vicina, per fortuna, una porta automatica che si aprì silenziosa e la inghiottì.
Belle boccheggiava, grondante di sudore. «Oddio.» Si guardò intorno, disperata. «Oddio. E se è in coma?» In un istante perse tutta la sua compostezza e la sua voce si ridusse a un soffio. «Avrà… quanto? Settantacinque anni?»
«Ottantanove.»
«Oh, mio Dio. Io pensavo, insomma, a un figlio. Invece ha ottantanove anni?» E scosse la testa come se cercasse di liberarsi dell’informazione ricevuta.
«Ona era ancora una bambina, Belle. Ti ho raccontato tutta la storia.»
«Ho capito», replicò brusca lei. «Ho capito benissimo. È solo che non ho fatto il calcolo, cavoli.» Aveva la camicetta macchiata, e Quinn se ne accorse solo in quel momento. «Hai detto che aveva un figlio che non vedeva da un po’. Certo che lo so… so che Ona non poteva… l’ho dimenticato. Non ho fatto il calcolo.»
Quinn non era mai stato bravo a prevedere le conseguenze, ma mentre guidava Belle all’interno dell’edificio considerò gli esiti possibili, includendo, senza però limitarsi a quello, la morte improvvisa di Ona e l’immediato ricovero di Belle nel più vicino reparto psichiatrico. Dopodiché, classificò queste eventualità dalla più alla meno probabile, con quell’aria terrorizzata che un tempo gli faceva pungere gli occhi quando era il ragazzino a classificare tutto quanto.
La reception somigliava all’atrio della Great Universal Mail Systems: moquette fantasia, lampadario di finto cristallo, bancone di vetro e alberelli in vaso. Ona era scomparsa. Da una porta a due ante proveniva il suono di ciò che tenevano nascosto: lo stridere del metallo di deambulatori e stampelle sul pavimento, un procedere a scatti indice di pensieri smarriti a metà passo. La madre di Quinn, giovane e consumata dal cancro, era morta in una versione in scala ridotta di un posto simile. Da piccolo lui era riuscito a sopportare gli odori umidi della malattia e della vecchiaia e l’estetica da stazione degli autobus della sala ricreativa; ma a opprimerlo era il clangore stonato delle attrezzature ortopediche, quell’onnipresente percussione aritmica priva di uno scopo. Clang… pausa… clang-clang-pausa… Da quel caos tentò di ricavare una melodia – un’abitudine che aveva fin dall’infanzia –, ma non gli si rivelò alcun principio ordinatore.
Nell’atrio la temperatura era glaciale a causa del condizionatore, e Belle tremava e si fissava cupa le scarpe che, notava ora Quinn, non erano esattamente uguali. Una aveva la punta un po’ meno rotonda dell’altra. «Non so più quello che sto facendo», mormorò lei. «Tu sai che cosa sto facendo?» E aspettò, come se lui, che non era mai stato capace di rispondere alle domande più semplici – «A che ora vieni a casa?» –, di colpo fosse in grado di rispondere a quelle difficili. «Torniamo indietro stasera stessa, se vuoi», la rassicurò lui. «Mi faccio dare una stanza per Ona e torno a riprenderla domani.»
Piangeva senza lacrime, una cosa che non le aveva mai visto fare in vent’anni. Dunque era davvero possibile esaurire le lacrime? «Non voglio tornare a casa», sussurrò Belle. «A casa non ci voglio stare. Non voglio stare da nessuna parte.» Si coprì il viso per un istante, ma quando abbassò le mani gli occhi erano asciutti.
Comparve dal nulla una donna alta e snella. «Ho chiesto a un’inserviente di mostrare i servizi a vostra madre», disse. Quinn le guardò le gambe lunghe, le unghie dipinte e i sandali a strisce. La camicetta scollata, la giacchina elegante… bianca ma non da infermiera. Gli orecchini cambiavano colore quando muoveva la testa.
Si chiamava Arianne. Offrì loro una stretta di mano professionale e dell’acqua dal distributore. «Pensate di trasferire qui vostra madre?» domandò, togliendo loro di mano i bicchieri vuoti.
«Trasferire qui mia madre sarebbe fantastico», rispose Belle svogliatamente, «ma prima dovreste tirarla via a forza da casa sua.»
Arianne la squadrò con una rapidissima occhiata e mostrò un cambio di opinione sull’identità della nuova ospite del condominio Il frutteto.
«Mi deve scusare», si giustificò Belle. «Ho appena perso mio figlio.»
«Mi dispiace», disse la ragazza, e abbandonò il tono da addetta alle vendite senza sapere più dove guardare.
«La signora non è nostra madre», spiegò Quinn. «È una nostra amica e cerca una persona che immagino abiti qui.» Ma non riuscì a tirar fuori un nome. Non c’erano Vitkus tra gli ospiti.
Finalmente ricomparve Ona, fradicia di sudore, pesta, sgualcita. «Vorrei vedere Laurentas Stokes, per favore», disse, con la massima serietà anche se con la voce rotta dalla stanchezza. «Credo sia uno dei medici.»
«Oh, santo cielo», esclamò Arianne. Aveva una risata fragorosa. «Vuol dire Larry.» Avendo riconosciuto in Quinn il più responsabile dei tre, gli si accostò. «Abita ancora nell’ala B, ma trascorre il pomeriggio qui. Questa è l’ala dell’assistenza prolungata. Assistenza senza pensieri per i tuoi cari.» Gettò un’occhiata a Ona. «Lei è una parente?»
«L’ho messo al mondo, se è questo che intende.»
Il sorriso perplesso di Arianne le restò appeso lì, come quello del gatto del Cheshire, senza che il resto del viso lo sostenesse. Belle scalpitava come se il pavimento andasse a fuoco. «Seguitemi», disse poi la donna, e loro obbedirono, varcando la porta in silenziosa processione ed entrando nel reame fluorescente che si apriva al di là. Quinn prese Ona sottobraccio, assalito dal dubbio e preoccupandosi solo quando preoccuparsi non avrebbe cambiato niente; l’accusa che Belle gli rivolgeva da una vita era fondata, evidentemente.
La sala ricreativa era punteggiata di sedie a rotelle occupate da persone rattrappite che li fissavano. Anche se Ona si confondeva innegabilmente tra loro, Quinn si accorse di quanto fosse parimenti diversa. Pensò ai film sugli ultracorpi, sugli alieni che, nonostante l’efficacia dei loro travestimenti, erano sempre riconoscibili. «Qual è Laurentas?» domandò Ona ad Arianne. Era al colmo dell’agitazione, tutta un fermento.
«Eccolo qui», rispose lei, in tono un po’ diffidente. E li guidò a qualche passo di distanza, verso un uomo smilzo seduto su una sedia a rotelle ipertecnologica, accanto a un’enorme finestra che si affacciava su un cortile. Appesi al collo aveva uno stetoscopio e un binocolo.
«Larry», disse la donna, sfiorandogli la spalla, «hai visite.»
Larry si girò a fatica, e un sorriso dolce e disteso gli illuminò il viso. Aveva la fronte ampia e lo sguardo intenso di Ona.
«Che ci fai qui, Laurentas?» gli domandò lei.
«Ci conosciamo?»
Ona piazzò le mani sui fianchi. «Sono Ona Vitkus.»
«Come, prego?»
«Ona Vitkus», ripeté lei a voce alta. «Tua madre.»
«Oh, perdiana. Guarda un po’», esclamò lui, biascicando leggermente le parole. «Perdiana, che sorpresa.»
«Che ci fai qui?»
«Ci abito, perdiana», rispose lui.
«E se la spassa alla grande, vero, Larry?» intervenne Arianne. «Vi lascio soli, adesso.» All’udire i suoi passi che si allontanavano, Quinn si sentì abbandonato.
«Sono andato in pensione nel ’92», stava raccontando Larry a Ona. «I miei figli abitano tutti lontano da qui.» Puntò il dito dalla parte opposta del cortile. «Casa mia è là. L’edificio in angolo. Residenza indipendente, chiaro. Mi danno tre pasti al giorno in sala da pranzo.»
Quinn offrì una sedia a Ona e, con suo grande sollievo, lei la prese, anche se s’impuntò nel sedercisi in pizzo. Stava forse cercando di fare la giovincella davanti a quel matusa del figlio? Qualunque fosse il motivo, scatenò in lui un moto d’affetto.
«Questo non è posto per un uomo sano», sentenziò lei. «Un medico immerso fino al collo nei malati?»
Quinn sentì Belle alle proprie spalle, la sua totale attenzione aveva una qualità quasi musicale, come una pausa tra due misure.
«L’anno scorso ho avuto un piccolo ictus», confessò lui tranquillamente. Giocherellava con lo stetoscopio. «Ma con questa sedia eseguo ancora i turni di visita.» E sorrise ai suoi pazienti non paganti, che mostravano livelli diversi d’interesse nei confronti dei visitatori. «Mi trovano rassicurante.»
Ona insistette: «Pensavo ti fossi trasferito in un condominio, Laurentas. Io abito in una casa singola».
«Questo è un condominio», ribatté lui, confuso. E puntò di nuovo il dito. «Sto aspettando di vedere la parula pettogiallo», spiegò loro. «Ne ho vista una ieri. Non è comune da queste parti.» Il cortile aveva dei vialetti, una postazione per le mangiatoie degli uccelli e una rigogliosa topografia di cespugli in fiore. Quinn allungò il collo per vedere, anche se non aveva idea di che aspetto potesse avere una parula pettogiallo. Il ragazzino lo avrebbe saputo. Elencava gli uccelli come elencava qualunque altra cosa. «La vista è migliore da qui», disse Larry.
Ona guardò il figlio e batté le palpebre, avvilita. Entrò un’inserviente con una pila di lenzuoli piegati e subito scomparve attraverso un’altra porta.
«Scommetto che era un bell’uomo», sussurrò Belle. Lo fissava incantata. Quinn avrebbe preferito risparmiarselo, tutto ciò, qualunque cosa fosse; ognuno era lì con uno scopo diverso.
«Io do da mangiare agli uccelli», gli raccontò Ona.
«Prego?»
«Do da mangiare agli uccelli. A casa mia. Mi aiuta questo giovanotto qui, anche se ormai ha finito. Ha assolto i suoi obblighi. Questo giovanotto qui.» Adesso guardavano tutti Quinn, come se si aspettassero che distribuisse pillole o esaminasse loro i piedi. Ringraziò il cielo di essersi cambiato la maglietta e messo un paio di jeans puliti proprio quella mattina.
«Non me lo ricordo», replicò Larry. «Dev’essermi sfuggito di mente. Mi secca ammetterlo, ma ultimamente mi capita spesso.» Si batté la cocuzza. «Questo vecchio cervellone.»
«All’epoca non davo ancora da mangiare agli uccelli», chiarì Ona. «A quel tempo avevo da fare. Avevo da fare», disse a voce più alta.
«Come tutti, cara mia.» Larry sorrise, scoprendo gli stessi denti grandi e squadrati della madre. Nei suoi confronti dimostrava una curiosità moderata, tutto considerato. Era un uomo di una flemma invidiabile, che accettava i ritmi e gli imprevisti della vecchiaia. Il dottor Stokes doveva essere stato uno di quei medici di una volta, che si spostavano di casa in casa fischiettando qualche vecchia canzone. A Quinn piaceva; azzardò un’altra sbirciatina a Belle, ora completamente rilassata. Quella riunione madre-figlio doveva essere ben lontana dalle sue aspettative (il figlio di decenni più vecchio di quanto si fosse immaginata, tanto per cominciare), eppure aveva un’aria rapita. Appagata.
«Che ne è stato delle tue cose?» domandò Ona.
Larry si picchiettò l’orecchio come per rimettere in funzione un apparecchio acustico che però non aveva.
«Le tue cose», ripeté Ona. «I mobili. I libri. I documenti importanti. Che fine hanno fatto?»
«Oh, perdiana, le mie cose», disse lui. «Che impresa. L’argento è andato alle ragazze. Gli attrezzi ai maschi, credo. E il resto è stato venduto all’asta.» Regolò un interruttore sul bracciolo della poltrona e lo schienale si abbassò. Di uccelli non se ne vedevano, sulle mangiatoie. A Quinn stava cominciando a venire il dubbio che la parula pettogiallo fosse qualcosa di simile al dodo, una specie estinta che non sarebbe mai comparsa.
«È un immenso piacere conoscerla», intervenne Belle.
Larry alzò un cappello immaginario. «Che cosa abbiamo qui?»
«Sono Belle.» Era un sorriso smagliante, quello? Sì, lo era.
Larry consultò di nuovo Ona. «Desideravi qualcosa, cara? Te l’avrei messo da parte, se l’avessi saputo.»
«Ti è mica capitato tra le mani il mio certificato di nascita, per caso?»
Larry si picchiettò di nuovo l’orecchio.
«Il mio certificato di nascita», ripeté Ona a voce più alta.
«E perché avrei dovuto avere il tuo certificato di nascita?»
«I miei genitori affidarono tutti i miei documenti a Maud-Lucy perché li custodisse. L’aveva tua madre.»
Belle rifilò a Quinn una gomitata più forte di quel che aveva previsto; erano vicinissimi. «Di che sta parlando?» sussurrò. Ma lui non lo sapeva, perché non conosceva tutta la storia.
Ona posò una mano scheletrica sul braccio scheletrico del figlio e si chinò accostandogli il viso all’orecchio. «Quelle cose le teneva in una scatola rossa di latta smaltata.» E appena lui si voltò a guardarla, raddrizzò il busto. «I miei genitori avevano la fissa della confisca», proseguì, «e a ragione. Ma tua madre era l’unica creatura in tutto il Paese di cui si fidassero senza riserve.»
Una delle anziane in gabbia si mise a strillare come un uccellino di nido: «Dottooore, dottooore, dottooore».
«Scusa un momento», disse Larry. Con la sua sedia motorizzata, raggiunse l’angolo ovest della sala, dove concesse un minuto di conversazione a una donna calva e le auscultò il cuore. Poi tornò.
«Faccio ben poco», spiegò, «a parte mitigare la paura.»
«Mi serve il certificato di nascita, Laurentas.»
«Non ce l’ho, il tuo certificato di nascita.» Le somigliava vagamente, quando parlava, forse per la forma delle labbra, per quei denti squadrati. «Non è più probabile che sia tu ad avere il mio?»
Ona lasciò passare qualche istante, poi tornò alla carica. «Stiamo parlando di gente che teneva i soldi nel barattolo della farina», spiegò al figlio. «Erano proprietari di un’intera palazzina e più tardi anche di una bottega di generi alimentari, ma avevano paura di tutto. Non riuscivano a adattarsi. Era questo il loro problema. Non erano mai a loro agio con se stessi.» Per un attimo, la sua voce assunse una sfumatura diversa. «Tua madre era l’opposto.»
«Scusami tanto. Puoi ripetere?»
«Tua madre. Era l’opposto. Quella donna si adattava ovunque. Non come la gente di oggigiorno. Questa gente qui», ripeté indicando Quinn. «La gente di oggi non sa nemmeno dove si trovi. E, ovunque si trovi, è sempre il posto sbagliato.»
Belle rise sottovoce; Quinn la sentì sconfinare in un luogo che non riuscì a individuare, e la giornata prese definitivamente una brutta piega. Era rimasto solo ad affrontare tre persone imperscrutabili, con progetti estemporanei, ardenti e forse in conflitto tra loro su come sarebbero andate le cose di lì a breve.
«Se mia madre aveva qualcosa di tuo», replicò Larry, «allora sarà andato distrutto nell’incendio, come tutto il resto.»
«Quale incendio?» domandò Ona. Per la prima volta si rivolse a Quinn – «Lo fai smettere di dire scempiaggini?» –, ma lui non poté aiutarla. Rimase lì, a gelare in quella sua maglietta seminuova, sforzandosi di capire che intenzioni avesse Ona. Una cosa era certa: non era venuta per una commovente riunione con il frutto del suo grembo. Era venuta per il certificato di nascita, punto e basta. Se Quinn avesse preso più alla lettera le sue parole, l’avrebbe capito. Ma nel Vermont l’avrebbe accompagnata lo stesso, e quest’improvvisa presa di coscienza lo lasciò di sasso.
Ona ripeté: «Quale incendio?»
«L’incendio», ripeté Larry. «Io ero ancora piccolo, naturalmente, ma ho l’impressione di ricordarmelo, da quanto spesso me ne parlava. La proprietà di famiglia, sai. Sette edifici e un frutteto andati in fumo dalla sera alla mattina.»
Quinn spostò lo sguardo dall’uno all’altra e poi si voltò verso la finestra, quasi che l’uccellino di Larry potesse comparire all’improvviso come un piccione viaggiatore con un messaggio avvolto attorno alla zampa. «Non ce l’ha, il certificato, Ona.»
«Tua madre mi ha scritto per anni dallo stesso indirizzo», insistette lei. Continuava a fissarlo a occhi stretti, forse per assicurarsi che fosse davvero lui.
«Suo padre costruì una nuova casa sulle rovine di quella bruciata. Due case, veramente. Una per sé e una per noi.» Larry sorrise con aria sognante. «Oh, perdiana, quanto mi manca quel posto. Alla fine le abbiamo vendute, a una ditta che ha trasformato l’intera proprietà in un’area residenziale. Un giorno ne risponderò all’Uomo del piano di sopra, ma con il ricavato mi ci mantengo.»
«Be’, un bel guaio», commentò Ona.
Larry alzò gli occhi. «Temo di aver dimenticato il tuo nome.»
L’aria risuonò di quelle parole. Quinn cercò di incrociare lo sguardo di Belle, ma lei era concentrata sull’anziano ospite, indifferente a tutto, persa chissà dove.
Ona si avvicinò al padiglione auricolare del figlio. «Ona», gli disse. «Vitkus.»
«Cos’è, polacco?»
«Lituano.»
«Sul serio?» commentò lui. «La mia madre naturale era lituana.» Scosse il capo, con l’aria addolorata. «Come facciamo a conoscerci, cara?»
L’aria polare del condizionatore aveva reso elettrici i capelli ormai rovinati di Ona, che sembravano levitarle dal cranio. «Io e tua madre eravamo amiche», rispose, troppo piano perché lui la sentisse, in realtà. Poi si alzò e gli porse la mano. «Noi andiamo. Addio, Laurentas.»
Allarmata dai saluti, Belle rinvenne. «Stiamo andando via?»
«Rimanete», propose Larry. «Le signore, qui, fanno un ottimo caffè.»
Belle sorrise. «Ma è fantastico.»
«Non ci penso neanche», si oppose Ona. «Ho degli affari urgenti da sbrigare altrove.»
Quinn avrebbe tanto desiderato rimettersi in viaggio, ma Belle aveva altri progetti. «Non mi dispiacerebbe vedere l’uccellino di cui parlava», disse al nuovo amico, incrociando il suo sguardo in un modo che, per esperienza, Quinn sapeva gli avrebbe scaldato quel suo cuore calcificato fino a scioglierlo. «La sua come-cavolo-si-chiama pettogiallo.»
«Parula. Parula pettogiallo», replicò lui, porgendole il binocolo. Quinn si accorse solo allora che l’uomo aveva perso l’uso di un braccio.
«Mio figlio adora gli uccelli», gli disse Belle.
Larry, che sembrava non avere difficoltà a capirla, ribatté: «Più siamo meglio è».
«Ma noi ce ne stavamo andando», insistette Ona.
Belle fissò lo sguardo oltre la finestra. «Io rimango qui con Larry.»
«Ti ho visto in forma, Laurentas. Mi fa piacere sapere che stai bene. Addio.» E, detto questo, Ona si avviò alla porta.
«Ehm…» fece Quinn.
Belle era già lontana, seduta sulla sedia lasciata libera da Ona, intenta a conversare con Laurentas di uccelli e di figli. Larry aveva quattro femmine, due maschi, nove nipoti e un esercito di bis e tris-nipoti (sua madre non gli aveva fatto una sola domanda in proposito), solo che erano dei girovaghi; a quanto pareva, tutta la sua progenie aveva gli occhi fissi sull’orizzonte. «Il mio padre naturale era un giostraio, sa», raccontò a Belle con orgoglio dolente, crogiolandosi al calore delle sue attenzioni.
Ti sta rigirando come un calzino, fratello, pensò Quinn. Un tempo l’avrebbe detto a voce alta, e Belle l’avrebbe trovato divertente, sarebbe scoppiata a ridere e avrebbe confessato di essere un’incurabile civetta, quando si trattava di uomini attempati e bambini piccoli. Stavolta era diverso, realizzò Quinn alla vista di quel suo io piagato, fratturato, che si manifestava a un vecchio malridotto capace chissà come di ricongiungerla al suo bambino perduto. Sembrava così a proprio agio, in quel posto. Era come vederla dall’interno. Era questo che aveva preteso da lui in tutti quegli anni, che la vedesse così? Possibile che Quinn stesse finalmente realizzando il suo desiderio più esplicito? Con il profilo sfumato dalla luce intensa che irrompeva dalla finestra e i capelli biondi sbiancati da quella stessa luce, appariva un’ottantanovenne anche lei, malata, tremante e privata delle sue forze. Quinn si immaginò guidare una moglie anziana verso il suo tramonto, e il quadro gli rivelò in quale altro modo ancora avrebbe finito per deluderla.
Si voltò, attraversò l’atrio e, una volta immerso nella calante luce pomeridiana, trovò Ona che, in piedi davanti all’ingresso, per poco non si fondeva con il marciapiedi. Preoccupato, la accompagnò alla macchina con tutte le attenzioni che lei gli permise di dedicarle, abbassò i finestrini e poi si spostò con l’auto in fondo alla proprietà, sotto un enorme albero ombroso che probabilmente abbelliva la copertina della brochure del complesso residenziale. Tirò fuori una bottiglia d’acqua dalla sacca da viaggio. L’abitacolo aveva un cattivo odore, gli effluvi della sala ricreativa dovevano aver impregnato i loro indumenti. La sua amica (ormai era questo che era diventata per lui, rifletté Quinn mentre reggeva la bottiglia in attesa che lei si sistemasse i vestiti madidi) era di cattivo umore.
«Ona…» attaccò. «Vuoi tornare dentro?»
«E perché dovrei tornare in quel posto?»
Lui si sforzò di comprenderla. «È stata una visita un po’ breve. Dico solo questo.»
«Lo scopo del viaggio riguardava solo me. Tu ti sei offerto di accompagnarmi e io ho accettato l’offerta.»
«L’ho fatto perché hai parlato di un ricongiungimento famigliare.»
«Ti conviene dare una rinfrescata a quella memoria corta che ti ritrovi, perché io ho detto che mi serviva un passaggio fino al Vermont. Siete tu e tua moglie a leggere le carte a vostro piacimento. Lo fanno in molti.»
Quinn si chiese se capitava a tutti quelli che compivano una buona azione di vedersi insultare così quando non comprendevano le esatte istruzioni ricevute. «Ho annullato un concerto per accompagnarti», protestò. Che cosa avrebbe dato per essere di nuovo nel Maine, con la chitarra a fargli da scudo, pronto ad accontentare un pubblico che ballava e chiacchierava piacevolmente.
Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Mi dispiace di averti importunato, Quinn.»
«Dico solo che… E dai, Ona, è solo uno stupido libro, pieno di gente che andrebbe letteralmente in giro a testa in giù per conquistarsi l’immortalità.»
«E di gente che strabuzza gli occhi e fa giochi di destrezza con le motoseghe», proseguì lei. «Sì, ne sono consapevole. Però io ci tenevo. All’inizio non me ne sono resa conto, ma ora lo so.» E, prima che smettesse di parlargli, aggiunse: «Tu avrai la tua musica da lasciare qui a sopravviverti. Non capiresti mai».
Prima che Quinn riuscisse ad assimilare l’erronea percezione che Ona aveva di lui, quella di un Quinn Porter possessore di un’eredità musicale, Ona era già fuori dalla sua portata, pallida, muta, demolita da un’aspettativa insoddisfatta.
Belle, da parte sua, tornò con l’aria rinata. «Ho visto una parula», annunciò. «Vi siete persi un vero spettacolo.» A Ona disse: «Hai un figlio stupendo». Poi ordinò a Quinn di tornare sul sedile posteriore e mise in moto.