23
OGNI invidiabile dettaglio di villa Mills divampò in una particolare camera del cervello di Quinn, quella che custodiva il desiderio insanabile, e lui ebbe bisogno di qualche istante, trascorso a sbollire nella luce calda del viale circolare, per assorbirne la dolorosa complessità.
Sylvie aprì di colpo la porta. «Bene, sei arrivato.» E scrutò il viale tinto di rosa. Era noiosa in fatto di parcheggi.
«Ho rimediato un passaggio», la informò lui. «Siete a cinque chilometri dalla fermata dell’autobus.»
Lei restò un attimo interdetta, come se le avesse parlato in più lingue diverse. «Vieni», disse poi, precedendolo dentro casa. «I ragazzi stanno provando.» Con un gran tintinnio di braccialetti, spalancò una portafinestra su di un giardino coloratissimo e un sentiero lastricato che congiungeva la casa allo studio. «Immagino saprai che abbiamo avuto la sagra delle offese, qui», commentò. «Ti confesso, sono talmente furiosa con loro che quasi sputo veleno.» E gli rivolse un sorriso enigmatico. «Ma ieri sera abbiamo fatto una chiacchierata e, grazie a Dio, almeno su una cosa siamo tutti d’accordo.» Poi spinse la porta dello studio, che si aprì senza il minimo rumore, e aggiunse: «Avrai già indovinato, suppongo».
Il sollievo lo pervase come la luce calda e dorata di una lampada, perché in effetti era tutto il giorno che tirava a indovinare. Seguì Sylvie all’interno dello studio, un ambiente ben attrezzato che profumava di plastica nuova. Le apparecchiature ingombranti erano state intelligentemente impilate, quelle più piccole disposte con ordine in armadietti a vista, chilometri di cavo avvolti e appesi a ganci distinti per colore. Mentre perlustrava con gli occhi tutto quel bendidio, l’intera carrellata dell’attrezzatura che aveva posseduto – a cominciare dal Marvel laccato che gli aveva regalato la madre – gli attraversò in un lampo la memoria con quella sorta di flashback cinematografico di cui parla chi è scampato per un pelo alla morte.
Sylvie piombò nella sala esibizioni, vuota tranne che per poche sedie radunate da una parte e una Telecaster anni Cinquanta biondo butterscotch posata su un piedistallo per chitarra. I ragazzi erano vicino al pianoforte e gli davano le spalle, intenti a discutere di uno spartito pieno di appunti.
«Ascoltate tutti quanti», li interruppe Sylvie.
Brandon si voltò. «Ehi, c’è paparino!»
«Ciao, paparino! Ascolta questa!»
Nonostante le obiezioni di Sylvie, Quinn fu condotto al pianoforte, dove i ragazzi lo costrinsero ad ascoltare – Ascolta questo, paparino, ti piacerà, paparino, secondo te dovremmo registrarlo, paparino? – finché un quartetto di note gemmate scaturito dalle gole talentuose dei ragazzi si levò in un dolce e vibrante crescendo, con Brandon e i Jay che cantavano a occhi chiusi, spalle indietro, dita che schioccavano, pomo d’Adamo fremente, mentre Tyler era chino sul piano come un monaco in preghiera.
Dopo otto battute, Quinn capì di cosa si trattava. Era la canzone inedita di Howard Stanhope, fluita attraverso i decenni e sfociata in un fiotto armonico, un ibrido di musica commerciale anni Venti e canti religiosi che pareva appena composto, il melodioso lamento di un uomo indegno che implorava un po’ di pace dal Signore.
«Wow», esclamò, sinceramente colpito. «Siete diventati degli arrangiatori di prim’ordine. Quando diavolo è successo?»
Mentre i ragazzi ridevano – i visi coloriti come pesche mature dalle lodi di Quinn –, Sylvie prese lo spartito dal pianoforte. «Chi l’ha scritta?»
«Il marito di una mia amica.»
Ona aveva definito Howard un pessimo cantautore, ma si sbagliava. Se fosse campato qualche altro decennio – sarebbe bastato poco, davvero –, si sarebbe trovato lui al posto di Quinn e avrebbe ascoltato la sua canzone singhiozzando come un matto per la gratitudine.
«Qui dice 1919, possibile?»
«La mia amica ha centoquattro anni. E lui è morto da decenni.»
«Paparino era convinto che la canzone ci sarebbe piaciuta.»
«Ha tanti di quegli anni che ormai è di dominio pubblico», commentò Sylvie, la donna d’affari. E poi, rivolta a Quinn: «Ma pagheremo lo stesso. Redigeremo comunque un contratto.»
«Potremmo dedicarci alla conservazione dei beni musicali», disse uno dei Jay. «Come Paul Simon quando importò quella musica dall’Africa.»
«Hai un’amica di centoquattro anni?» chiese Sylvie.
«Proprio così.»
Lei lo scrutò in viso. «Sul serio?»
«Sì», rispose Quinn. «Sul serio.» Poi si voltò verso i ragazzi. Era un sorriso smagliante, quello che aveva stampato in faccia? Possibile? «Il vecchio signor Stanhope deve aver aspettato in gloria il vostro arrivo per anni.»
«Sì, bene, bene, sono dei geni, d’accordo», intervenne la donna. «Ma adesso possiamo parlare di affari?» Malgrado la taglia minuta, sarebbe stata capace di scardinare una porta come niente.
«Ti ascolto», replicò Quinn, l’antico sapore dell’adrenalina che gli inondava la lingua.
Anche i ragazzi drizzarono le orecchie.
«Ecco l’affare che voglio proporti», attaccò Sylvie. «Con questi ragazzi sto per salire a bordo di un bel carrozzone da circo, ma ne ho piene le tasche di fare la parte del direttore tutta da sola.» Seguì un sospiro collettivo di figli e nipoti che quella parte l’avevano già sentita. Lei si aggiustò i braccialetti e proseguì. «Soprattutto considerando che la mia esperienza tanto faticosamente accumulata non è contata un fico quando si è trattato di prendere la decisione più importante della loro carriera.»
«Zia Sylvie», la interruppe uno dei Jay, «ci siamo comunque assicurati un buon contratto.»
«Chiudi il becco, tu.» Sylvie gli puntò contro un’unghia rosso sangue dall’aria letale e lui ritrasse la testa nel colletto, stile tartaruga. «Vi siete assicurati un buon contratto dopo averne rifiutato uno stratosferico… un contratto cui stavo dietro da settimane.»
«La mamma è ancora sicura che la fede sia solo una fase», lo informò Brandon.
Sylvie rivolse al figlio uno sguardo di quelli che piegano i cucchiaini. «Anche vostro cugino era convinto, quando ha intrapreso la retta via, ma poi si è rivelato ateo.»
Brandon guardò la madre con un affetto intenso, radicato, e il sospiro con cui Sylvie gli rispose tradì un amore di altrettanta vischiosa profondità. Erano male assortiti, madre e figli; eppure si avviavano confusi verso un futuro comune, intrecciato, in barba a tutte le difficoltà possibili e immaginabili.
«Che cosa offrivano di preciso?» domandò Quinn.
«Niente che ci interessi», rispose Tyler.
«Vi offrivano la luna, cavoli!»
«Ormai è andata, mamma. È ora di voltare pagina», replicò Brandon.
«Verissimo. Quanto siete saggi, figli e nipoti miei!» Poi, rivolta di nuovo a Quinn: «Devo chiudere i contratti, buttar giù un programma e occuparmi di mille altre piccolezze che non ho voglia di gestire da sola.» Gli strinse il braccio. «Ho bisogno di qualcuno su cui contare.»
«Hai ragione», convenne lui.
«Tempo pieno, orari assurdi – come ben sai –, però ti sto offrendo un’opportunità, Quinn. So che posso sembrare la classica mamma che si dà delle arie, ma questi ragazzi faranno strada.»
Un’illuminazione interiore, un enorme interesse per le attrezzature nuove di zecca, l’impianto d’insonorizzazione privo di giunte, i vetri cristallini della regia. Sarebbe stato tutto suo, in un certo senso: la sala esibizioni con il suo pianoforte a mezza coda, le eleganti poltroncine senza braccioli…
Le poltrone. Le poltrone avevano qualcosa che non quadrava.
«La paga è trattabile, volendo», stava dicendo Sylvie. «Scoprirai che in realtà sono una pasta. Per ora mi basta solo sentire che sei dei nostri.»
E nell’attimo in cui Quinn realizzò che cosa avevano di strano le poltrone e che cosa indicava la loro stranezza, Sylvie prese un portablocco a molla e chiese: «Che titolo preferisci? Co-manager? Supervisore operativo? Re della strada?»
«Aspetta», disse lui, a voce più alta di quanto fosse stata sua intenzione. Si sedette su una delle poltrone, notandone l’attenta sistemazione, nient’affatto casuale, come aveva pensato inizialmente. Quattro sedie disposte l’una accanto all’altra e una isolata, vicina alla Telecaster collegata a un amplificatore da studio.
«Aspetta cosa?» chiese Sylvie. «Questa è una promozione. Ti sto spedendo ai piani alti!»
Si stavano preparando a tenere delle audizioni. Per un chitarrista stabile. Uno che avesse l’anima salva e – cosa più importante – un volto giovane e solare che non rovinasse la copertina. Ma certo che avrebbero tenuto delle audizioni. Certo che l’avrebbero fatto.
«Ti chiamerò ‘comandante in capo’, se vuoi», lo implorò Sylvie.
Ma lui era un musicista: voleva suonare. La testa cominciò a pulsargli e davanti agli occhi gli balenò l’immagine delle braccia abbronzate di Dawna la supervisora che si riempivano di macchie e sbiancavano, dei suoi muscoli faticosamente conquistati che con gli anni si sgonfiavano. La vide di lì a qualche decennio intenta ad alimentare la smistatrice, a etichettare i cataloghi di un modello di scarpa per neonato che ancora dovevano inventare. Lui era l’equivalente di Dawna in versione chitarrista: tenace, in gamba nel proprio lavoro, sostituibile.
«Ho bisogno di te, Quinn», stava dicendo Sylvie. «I ragazzi hanno bisogno di te. La tua influenza dà loro stabilità.»
E, con grande stupore di Quinn, sembrava fosse davvero così: erano tutti e quattro lì, in attesa della sua risposta. A confidare non nelle sue doti musicali, ma in quelle paterne.
«Quinn! Ci sei? Voglio un sì, avanti.»
Se l’avesse sentito Belle: dopo tutto quel tempo, a soddisfare il pungente e reiterato desiderio del suocero, Quinn Porter aveva finalmente ricevuto un’offerta «nel campo manageriale». Per un attimo prese in considerazione l’idea di usare la canzone di Howard Stanhope come esca, per uno scambio, un baratto. Però non voleva essere l’uomo di quella canzone, quello che, pur pentendosi dei peccati commessi nei confronti dell’Onnipotente, ha ancora il fegato di avanzare una richiesta. Voleva essere l’opposto di quell’uomo. Voleva diventare nientepopodimeno che – povero lui – Ted Ledbetter.
«Non potremmo scegliere altri che te, Quinn», insistette Sylvie. «Ci teniamo a far restare le cose in famiglia.»
«Io non sono un vostro famigliare, Sylvie.»
«Be’, lo sei quasi», fu la risposta di lei, seguita da un conciliante brontolio d’intesa da parte dei ragazzi. Macché ragazzi, uomini, ormai: quattro giovanotti dall’animo solido come la roccia. Non c’era più traccia dei teenager cui aveva consigliato di tirar fuori la camicia dai pantaloni. Mentre Quinn passava senza tregua da un’esibizione all’altra, loro avevano tenuto gli occhi puntati sul premio a cui aspiravano. Quattro tartarughe contro la sua lepre. E la rivelazione giunse a Quinn come la voce uscita dal roveto ardente: li ammirava.
«È colpa mia, vero?» continuò Sylvie. «Sono una stronza matricolata, lo so. Non ti va di lavorare con me.»
«Veramente, Sylvie, tu mi piaci.» Gli piaceva il fatto che si alzasse ogni mattina con tutto quel fuoco addosso.
«La proposta comprende anche l’assicurazione sanitaria. La estenderò a tua moglie e ai tuoi figli.»
«Non ho né moglie né figli.»
«Ah.» Sylvie lo guardò battendo le palpebre. «Ero convinta di sì.»
Quinn si alzò dalla poltrona, frugandosi invano le tasche in cerca di un’aspirina. Il suo primo compito in veste di comandante in capo dei Resurrection Lane sarebbe stato assumere un chitarrista. Nell’immediato futuro – il primo vero futuro della sua vita, in realtà – avrebbe assistito dalle quinte e, anziché suonare, avrebbe ascoltato qualcuno suonare per lui. Un immediato futuro fatto di prove, sessioni di registrazione e tournée, trascorso a fare proposte, programmi, progetti, soldi ma non musica.
«Di’ di sì», insistette Sylvie. «Non tenermi sulle spine.»
«Sì.»
Si levò un grido, uno scroscio alle sue orecchie simile a un applauso. E un attimo dopo Tyler, Brandon e i Jay si battevano il cinque e Sylvie saltellava e strillava come una ragazzina. A questo seguì un giro smodato di abbracci, strette di mano e pacche sulla schiena, il tutto completato da una nuova sensazione. Quinn si sentì – non gli vennero altre parole per dirlo – amato.
Un’ora più tardi, tornò in città facendosi offrire un passaggio dall’autista di un furgone della lavanderia, con l’amichevole melodia di Howard ancora in testa, un piacevole canticchiare che inaspettatamente lo riempiva di allegria. Howard, pensò, metterò una buona parola per te con la tua signora. L’autista lo fece scendere all’angolo della Sibley, e da lì Quinn si avviò spedito verso la strada a fondo chiuso di Ona, intenzionato a raccontare all’amica che, decenni dopo il termine della sua esistenza tribolata, Howard Stanhope era risorto per sfornare un capolavoro.
La melodia lo seguì, lui adattò il passo al suo ritmo e di colpo riconobbe la «sfavillante fanciulla» tanto maltrattata dal penitente della canzone di Howard. Ne vide la grazia, le fossette, i capelli color legno di ciliegio. Howard, penserò io a te.
Nel vialetto c’era il ben noto minivan, e questo scatenò in lui un misterioso fiotto di gelosia. Mentre cercava di decifrare il significato di una tale reazione – la stizza di un innamorato, anche se non poteva certo trattarsi di quello –, notò che Ted aveva parcheggiato alla bell’e meglio, una cosa che poco gli si addiceva; e notò anche la macchina di Belle; e, raccolto nei pressi della veranda, un sinistro capannello di vicini.
Si mise a correre, percorse in un lampo il vialetto e salì i gradini due alla volta gridando il nome di Ona.